Nota preliminare di Pino Cabras.
A volte i mitografi che fanno la guardia alle "versioni ufficiali" sono proprio sfigati, va detto. Il 23 settembre 2013, sul blog di Paolo Attivissimo è apparso un articolo dal titolo "Abbottabad Report: anche il Pakistan smentisce i complottisti", firmato da Hammer. Il caso ha voluto che, quasi contemporaneamente, uno dei più acclamati giornalisti investigativi del mondo, Seymour Hersh, che sta scrivendo un libro in parte dedicato ai fatti di Abbottabad, definisca quello stesso documento - che Attivissimo & C. prendono per oro colato - come un «rapporto fatto di stronzate».
Dunque, riepiloghiamo: Da una parte abbiamo Hersh, il giornalista che ha messo con le spalle al muro interi governi scoperchiando il massacro di My Lai negli anni sessanta e le nefandezze di Abu Ghraib negli anni duemila, nonché profondo conoscitore dell'Asia e delle dinamiche interne delle forze armate USA.
Dall'altra abbiamo presunti sbufalatori implacabili che non hanno scritto un rigo su una delle bufale più clamorose del Millennio (la sepoltura in mare di Bin laden "secondo le usanze islamiche") e che si affidano alla genuinità di un report ufficiale redatto in seno al mondo politico del "Paese più pericoloso del mondo", il Pakistan, un sistema politico che non conoscono, segnato dalla commistione di servizi segreti, dossieraggi e attentati apocalittici, in perenne conflitto-collaborazione con la CIA.
Cosa prediligere?
Di fronte a questa scelta (tra giornalismo e mitografia che cade dal pero), ci ha fatto piacere tradurre il colloquio di Lisa O'Carroll del Guardian con Seymour Hersh, che risulta estremamente interessante nella sua durissima requisitoria contro il sistema dominante dei media.
Seymour Hersh su Obama, NSA e i 'patetici' media americani
di Lisa O'Carroll - The Guardian.
Seymour Hersh ha alcune idee estreme su come risistemare il giornalismo: chiudere le redazioni della NBC e della ABC, cacciare il 90% dei redattori editoriali e tornare al lavoro fondamentale dei giornalisti che, dice, è quello di essere un outsider. [...]
Venti anni fa un taxi percorreva Aviation Boulevard, il grande viale che conduce dall’aeroporto di Los Angeles al centro della città. Su quel taxi c’era una famiglia di italiani, che si stavano trasferendo a vivere negli Stati Uniti: marito e moglie quarantenni, una figlia di sei anni e un figlio di tre. Un pò per motivi personali, un po’ per motivi professionali, avevamo deciso di tentare “l’avventura americana”.
Avevamo qualche soldo in tasca, e la vita sembrava sorriderci da qualunque lato la si guardasse.
I motivi professionali che ci avevano spinto al grande salto derivavano dal mio lavoro, cioè il cinema. Dopo aver fatto alcune esperienze in Italia, avevo capito che per procedere era necessario “accasarsi” politicamente ad uno dei clan di regime, è questo per me non era accettabile. Partendo per Los Angeles mi ero detto: “Preferisco non fare più un solo film nella vita perchè non sono bravo abbastanza per farlo, piuttosto che non farlo perchè non lecco il culo alla persona giusta.” Per fortuna, mia moglie fu pienamente d’accordo con me.
Le motivazioni personali riguardavano i nostri figli: volevamo che crescessero in un ambiente che offre ai giovani mille orizzonti e possibilità, e non in un ambiente – come quello italiano – che tarpa le ali ai giovani prima ancora che siano in grado di volare.
Comprammo una casetta, ed iniziammo la nostra avventura. [...]
di Marco Cedolin
Tutti coloro fortemente convinti del fatto che l'Italia avesse toccato il fondo durante lo scorso autunno, quando il governo golpista di Mario Monti, dopo avere dissanguato il paese, si apprestava ad esalare l'ultimo respiro, devono avere ormai compreso come in realtà al peggio non ci sia mai fine ed esista sempre un buco più profondo nel quale sprofondare.
L'accanimento terapeutico con il quale il circo mediatico tenta di mantenere in vita il fantasma di Berlusconi, unitamente alle migliaia di pagine dedicate alle diatribe, in perfetto stile mafioso, che intercorrono all'interno del PD ed alla spettacolarizzazione di qualsiasi litigio da bar dello sport che abbia fra i protagonisti qualche esponente del bestiario politico nostrano, dimostrano inequivocabilmente come l'ordine impartito alla scuderia del mainstream sia in fondo uno solo. Nascondere la spazzatura sotto il tappeto ed inebetire il cervello (o quel che ne resta) degli italiani con un chiacchiericcio petulante, commisto ad alte dosi di disinformazione urlata, fino ad ottenere l'effetto cacofonico voluto.
Incontro "live" con Giulietto Chiesa e Massimo Mazzucco sul 9/11.
Fonte Tommix.
(Non spaventatevi per la presenza di Attivissimo. Scompare quasi subito).
Ascoltate soprattutto l'ultimo intervento di Giulietto, a partire da 1h. 02.
Oggi, 11 settembre 2013, pubblichiamo quello che sarà probabilmente il capitolo conclusivo del dibattito sull'11 settembre. Si tratta delle "50 domande ai difensori della versione ufficiale" che compaiono nel film "11 settembre - La Nuova Pearl Harbor".
Perchè dico che sarà il capitolo conclusivo? Perchè la formula delle domande è l'unica che permetta di chiarire in modo definitivo e incontrovertibile se la versione ufficiale stia in piedi o meno.
"Tu sostieni che la versione ufficiale sta in piedi? Benissimo, allora spiegami questo, questo e quest'altro." E' il modo più semplice e diretto per evitare i mille trabocchetti dialettici ai quali i debunkers ricorrono ormai abitualmente da anni, pur di evitare di affrontare la realtà dei fatti.
Come vedrete infatti, non ci sarà un solo debunker che proverà ad affrontare con onestà le 50 domande proposte. Si attaccheranno a tutto pur di non farlo. Nella maggior parte dei casi, cercheranno di invalidare la domanda a monte, negandone in qualche modo la premessa, perchè questo è l'unico modo che gli rimane per restare a galla.
Se la domanda inizia con "Visto che per avere un crollo simmetrico è necessario rimuovere l'intera struttura di supporto..." ...
Con gli amici di ReOpen stiamo facendo anche la versione francese del film. Questa è la prima parte (le altre seguiranno al più presto):
Ne approfitto per pubblicare una intervista che mi ha fatto ReOpen911, che comparirà anche sul loro sito. Sono argomenti che ci interessano tutti nella stessa misura.
D: Vuole presentarsi, per favore?
R: Mi chiamo Massimo Mazzucco, faccio il regista e lo sceneggiatore. Sono anche il responsabile di un sito italiano di news, luogocomune.net. Questo sito è nato, nel 2004, intorno alla ricerca sull'11 settembre. Poi, con il passare degli anni, i nostri interessi si sono allargati a tutto quello che riguarda le cosiddette "grandi cospirazioni" della storia: dal caso Kennedy a Big Pharma, dall'economia globale alle questioni ambientali.
Io credo che la cosa più importante non sia l'argomento di cui parli, ma il modo in cui ne parli: se usi un approccio analitico, basato esclusivamente su fatti documentabili, ...
di Paul Schreyer
Nell'estate del 2001 ci fu uno confronto - fino ad oggi poco conosciuto - fra Stati Uniti e Arabia Saudita, che getta una nuova luce sull'11 settembre. Ci si domanda quale ruolo abbiano avuto queste tensioni negli eventi di allora, e perché gli attacchi terroristici siano avvenuti proprio all'inizio di settembre.
Fino ad oggi quasi nessuno sapeva che il governo saudita stesse preparandosi ad una svolta radicale nell'estate del 2001. Attraverso canali diplomatici ufficiali il governo americano fu informato che i sauditi intendevano interrompere il coordinamento della propria politica con gli Stati Uniti. Soltanto qualche settimana dopo, gli attentati dell'11 settembre vanificarono questo progetto di allontanamento e di ricerca di una propria indipendenza.
I rapporti estremamente amichevoli fra il principe Bandar bin Sultan, ambasciatore saudita negli Stati Uniti dal 1983 al 2005, e il presidente americano Bush, sono leggendari. Questa amicizia rappresentava anche, in sintesi, i particolari rapporti di affari fra l'Arabia Saudita e gli Stati Uniti, che risalgono alla prima metà del 20º secolo. Detto in soldoni: i sauditi vendono i loro petrolio e reinvestono immediatamente negli Stati Uniti i dollari che hanno incassato, comperando armamenti oppure finanziando grossi progetti di infrastruttura.
Alla fine quindi la maggior parte dei soldi degli Stati Uniti ritorna alle corporation americane. Il cosiddetto "riciclaggio dei petroldollari" è essenziale non solo per l'economia americana, ...
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