di Paul Schreyer
Nell'estate del 2001 ci fu uno confronto - fino ad oggi poco conosciuto - fra Stati Uniti e Arabia Saudita, che getta una nuova luce sull'11 settembre. Ci si domanda quale ruolo abbiano avuto queste tensioni negli eventi di allora, e perché gli attacchi terroristici siano avvenuti proprio all'inizio di settembre.
Fino ad oggi quasi nessuno sapeva che il governo saudita stesse preparandosi ad una svolta radicale nell'estate del 2001. Attraverso canali diplomatici ufficiali il governo americano fu informato che i sauditi intendevano interrompere il coordinamento della propria politica con gli Stati Uniti. Soltanto qualche settimana dopo, gli attentati dell'11 settembre vanificarono questo progetto di allontanamento e di ricerca di una propria indipendenza.
I rapporti estremamente amichevoli fra il principe Bandar bin Sultan, ambasciatore saudita negli Stati Uniti dal 1983 al 2005, e il presidente americano Bush, sono leggendari. Questa amicizia rappresentava anche, in sintesi, i particolari rapporti di affari fra l'Arabia Saudita e gli Stati Uniti, che risalgono alla prima metà del 20º secolo. Detto in soldoni: i sauditi vendono i loro petrolio e reinvestono immediatamente negli Stati Uniti i dollari che hanno incassato, comperando armamenti oppure finanziando grossi progetti di infrastruttura.
Alla fine quindi la maggior parte dei soldi degli Stati Uniti ritorna alle corporation americane. Il cosiddetto "riciclaggio dei petroldollari" è essenziale non solo per l'economia americana, ... ... ma anche per la stessa moneta degli Stati Uniti. Se mai le nazioni arabe, guidate dai sauditi, decidessero di vendere il petrolio in euro invece che in dollari - come intendeva fare Saddam Hussein poco prima che il suo paese venisse invaso - allora la richiesta globale di dollari crollerebbe a tal punto che la stessa supremazia monetaria degli Stati Uniti verrebbe messa seriamente in discussione.
L'America e i sauditi sono quindi legati da una forte simbiosi di carattere economico. Questo li ha portati anche ad una stretta alleanza politica, che però rimane fragile a causa delle enormi differenze nei sistemi politici dei due paesi. La gente in Arabia Saudita vive sotto una delle più anacronistiche dittature esistenti oggi al mondo. I regnanti onnipotenti di quel paese sono sempre molto riluttanti a concedere riforme politiche di tipo democratico. Un altro fattore costante nella politica interna dell'Arabia Saudita è il conflitto fra Israele e Palestina.
Quando il falco ex-generale Ariel Sharon divenne presidente di Israele, all'inizio del 2001, e quando le televisioni arabe via satellite iniziarono a portare le immagini dell'occupazione israeliana in Palestina direttamente nelle case dei sauditi, la pressione sui loro leader divenne enorme. Il normale cittadino saudita capiva chiaramente che Israele agisse con il permesso degli Stati Uniti, mentre questi erano anche i più stretti alleati della loro poco amata classe dirigente. La popolazione saudita stava diventando sempre più ostile a questa alleanza.
Nel marzo 2001, quando Bush era presidente da soli due mesi, Bandar si presentò alla Casa Bianca: portava un messaggio del principe regnante saudita, che diceva che il processo di pace fra Israele e Palestina sarebbe stato di cruciale importanza sia per costruire una coalizione di arabi moderati, sia per fare pressioni su Saddam Hussein.
D'altro canto, il governo americano era tenuto sotto pressione dalla lobby israeliana, che ha da tempo una forte influenza sulla politica americana. Il governo di Sharon peraltro non aveva un grande interesse a fare delle concessioni diplomatiche ai palestinesi, e preferiva perseguire una politica di supremazia militare.
Un esempio noto a tutti fu la decisione di Sharon di costruire il muro fra Israele e Cisgiordania.
Il confronto nell'estate del 2001
I sauditi erano seriamente irritati dall'atteggiamento passivo degli americani nel conflitto, e decisero di mandare un segnale. In maggio il principe regnante Abdullah rifiutò pubblicamente un invito alla Casa Bianca, citando il fatto che gli Stati Uniti stessero ignorando le sofferenze dei palestinesi.
All'inizio di giugno del 2001 Bandar si trovò a cena da Bush. C'erano anche il ministro degli esteri Colin Powell e Condolezza Rice. L'ambasciatore saudita parlò con toni accalorati per diverse ore. La situazione in medio oriente stava peggiorando, disse Bandar. Poi aggiunse: "Questo continuo peggioramento della situazione offrirà agli estremisti di ambedue le parti una opportunità di crescita, ed alla fine risulteranno loro gli unici vincitori. Gli Stati Uniti e gli arabi moderati pagheranno un prezzo enorme per questo. Non c'è dubbio che i paesi arabi moderati, insieme agli Stati Uniti, abbiano perso la guerra mediatica e abbiano perso il favore dell'opinione pubblica araba. Ciò che i cittadini arabi vedono ogni giorno è doloroso e profondamente inquietante. Donne, bambini e anziani che vengono uccisi e torturati dagli israeliani."
Bandar sottolineò che si stava diffondendo sempre di più nel mondo arabo l'impressione che gli Stati Uniti si fossero schierati interamente dalla parte di Israele. Questo avrebbe danneggiato seriamente gli interessi americani nella regione. L'ambasciatore chiarì che gli Stati Uniti dovevano trovare un modo per dissociare le azioni del governo israeliano dai propri interessi nella regione. Arrivò anche ad ammettere che per la prima volta negli ultimi trent'anni si sarebbe creato un serio problema nella situazione interna dell'Arabia Saudita, con una reale minaccia per la stabilità del loro governo.
Nell'estate del 2001 il conflitto in medio oriente divenne più intenso. Svariate tregue fra Israele e palestinesi furono violate. Ma gli Stati Uniti restavano ancora a guardare. Il 27 agosto Bandar andò nuovamente a trovare Bush, e gli disse: "Signor presidente, le porto oggi il messaggio più difficile che io abbia mai portato fra i nostri due governi da quando ho iniziato a lavorare qui a Washington, nel 1982".
Nuovamente tornò a sottolineare la stretta relazione fra due le due nazioni, e i crescenti problemi in medio oriente. Si aveva l'impressione, disse Bandar, che Bush avesse dato carta bianca a Sharon per tutto ciò che accadeva in medio oriente. Nonostante questo, la politica di occupazione da parte di Israele avrebbe dovuto cessare. Bandar fece l'esempio della politica degli inglesi nelle colonie americane nel 18º secolo, e quello della politica dei sovietici in Afghanistan.
La minaccia del principe regnante
Poi venne la fase più importante: "Ne consegue che il Principe non comunicherà più in alcun modo o mezzo con lei, e che l'Arabia Saudita prenderà da oggi in poi tutte le sue decisioni politiche, economiche e di sicurezza sulla base di quelli che ritiene i propri interessi della regione, senza più tener conto degli interessi americani. Sembra infatti evidente che gli Stati Uniti abbiano fatto la scelta strategica di seguire la politica di Sharon."
Questo messaggio fu uno choc per Bush e per l'intero governo americano. Era una chiara rottura politica con gli Stati Uniti, una rottura che andava maturando ormai da tempo.
Secondo Chas Freeman, ex-ambasciatore americano in Arabia Saudita, molti degli interessi in comune erano già scomparsi alla fine della guerra fredda, e dopo la prima guerra del Golfo. Ed ora c'erano sempre più sauditi che contestavano la presenza militare degli Stati Uniti nel loro paese.
A quel punto il presidente Bush decise di cedere. In una lettera scritta frettolosamente disse al principe che credeva profondamente nel diritto dei palestinesi all'autodeterminazione e ad avere uno stato proprio. Questa era una concessione che nemmeno il presidente Clinton aveva mai fatto, durante il suo mandato.
La minaccia dei sauditi di separarsi politicamente e di interrompere il coordinamento con gli Stati Uniti causò un vero e proprio terremoto diplomatico. Tutti coloro che in qualche modo avevano a che fare con il flusso di petroldollari divennero molto nervosi, perché questo particolare meccanismo finanziario dipendeva in gran parte da una buona collaborazione politica fra le due nazioni.
È difficile immaginare che cosa sarebbe successo se Bush non avesse ceduto così in fretta. Come minimo i sauditi avrebbero organizzato un incontro urgente fra i leader arabi, per formare una coalizione che si schierasse apertamente a favore dei palestinesi. Intendevano anche rimettere in discussione la collaborazione militare e di intelligence con gli Stati Uniti.
Tutte queste minacce contro gli Stati Uniti sembrarono prendere forma il 25 di agosto, quando il Principe regnante ordinò al capo dei suoi militari, generale Salih, che era appena arrivato a Washington per un incontro ad alto livello sulla collaborazione militare fra sauditi e americani, di rientrare immediatamente in Arabia Saudita, senza incontrare nemmeno un americano. Contemporaneamente, il principe fece letteralmente scendere dall'aereo una delegazione di 40 ufficiali sauditi che stavano partendo per Washington.
L'incontro annuale sulle relazioni militari fra i due paesi venne cancellato all'improvviso. Il Pentagono era sotto choc.
Il 25 di agosto è anche il giorno in cui furono acquistati i primi biglietti per i presunti dirottatori dell'11 settembre.
Perché gli attentati avvennero all'inizio di settembre?
Ovviamente, i fatti suggeriscono che ci siano voluti diversi mesi per programmare gli attentati terroristici. È quasi impensabile che quest'operazione sia stata messa in piedi all'improvviso, in sole due settimane. Ci si domanda piuttosto se questo progetto fosse stato approntato in precedenza, nel 2001, e i suoi burattinai stessero solo aspettando il momento politico giusto per metterlo in atto.
La rapida retromarcia di Bush aveva momentaneamente fermato la crisi, e il principe saudita era molto contento. Nella sua risposta, datata sei settembre, chiese però che Bush facesse anche una dichiarazione pubblica al riguardo. Bush rispose che avrebbe fatto questa dichiarazione, la settimana del 10 settembre.
Nel weekend dell' 8 e 9 settembre, i diplomatici dei due paesi iniziarono a discutere su quale dovesse essere il prossimo passo. Un discorso da parte di Bush, o di Powell? Si pensò anche ad un possibile incontro fra Bush e Arafat alle Nazioni Unite, verso la fine di settembre. Il presidente americano si disse favorevole, e questo fece molto contenti i sauditi.
Per quanto non fosse ancora stata presa una decisione definitiva, Bandar era euforico:"Finalmente sento che stia per iniziare qualcosa che ci salverà da noi stessi, e ci salverà gli uni dagli altri."
Il 9 settembre il New York Times parlò di queste trattative, confermando che la crescente pressione da parte dei sauditi aveva obbligato gli Stati Uniti a darsi una mossa. Il ministro degli esteri saudita aveva appena completato un giro nei paesi arabi, con l'intento di creare un fronte compatto per portare i palestinesi ad una sessione delle Nazioni Unite, a New York. Il New York Times citava anche dei diplomatici che sottolineavano quanto tutto ciò fosse decisamente anomalo.
Il principe viaggiava molto di rado, e i diplomatici non ricordavano una sola volta in cui un alto esponente del governo saudita avesse mai lanciato un appello pubblico a favore dei palestinesi, e quindi implicitamente contro gli Stati Uniti.
Nello stesso articolo si citavano anche esponenti del governo americano che parlavano di un atteggiamento favorevole ad un incontro con Arafat, e vedevano l'inizio di un serio processo di dialogo, "se le cose dovessero svilupparsi in modo positivo nei prossimi giorni".
Il presidente israeliano Sharon fece soltanto un mezzo cenno favorevole a questi progetti. Il 9 settembre il New York Times cominciò a parlare di un possibile discorso del ministro degli esteri Powell all'assemblea generale delle Nazioni Unite, alla fine di settembre.
"E' in preparazione al ministero degli esteri - diceva l'articolo - un discorso che dovrebbe chiarire per la prima volta i principi fondamentali su cui si basa la politica dell'attuale governo in medio oriente. Questo discorso affronterebbe argomenti come il desiderio dei palestinesi di avere uno Stato proprio, anche se i termini precisi del discorso non sono ancora stati stabiliti. Verrà anche affrontata la necessità di Israele di avere dei confini sicuri - spiegava l'articolo - e si toccherà forse anche un argomento molto delicato come quello degli insediamenti."
In ogni caso nulla di tutto ciò avvenne, poichè il martedì seguente, 11 settembre 2001, degli aerei dirottati si schiantarono contro il World Trade Center e il Pentagono.
Quando iniziarono ad uscire le prime notizie che 15 dei 19 presunti dirottatori fossero dei sauditi, gli attentati divennero in un peso enorme sulle spalle dei regnanti sauditi. Il loro spazio di manovra politica era improvvisamente ridotto al minimo. Pretendere qualcosa o spingere gli Stati Uniti a fare qualunque cosa, in quel momento, sarebbe stato impossibile. Lo stesso allontanamento politico dagli Stati Uniti diventava impensabile a quel punto. La prima preoccupazione dei sauditi, in quel momento, era proprio di prendere le distanze dagli attentati terroristici.
Considerando che gli attentati dell'11 settembre rimangono per ora irrisolti, e che la responsabilità di Bin Laden rimane - contrariamente alle credenze popolari - tutta da dimostrare, la programmata separazione dagli Stati Uniti da parte dei sauditi offre lo spunto per una serie di ragionamenti.
Faceva parte del piano - chiunque sia stato ad organizzarlo - anche l'idea di obbligare il principe saudita a restare fermamente al fianco degli Stati Uniti, mettendo così fine alla minaccia di una frattura politica? Il processo di pace in medio oriente, che era al centro dell'iniziativa dei sauditi, venne a sua volta sabotato in modo intenzionale? Se le cose stessero così, l'11 settembre fu certamente un successo clamoroso.
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Paul Schreyer
Pubblicato da
Global Research (nella pagina trovate anche le fonti di riferimento).
Traduzione di Massimo Mazzucco per luogocomune.net
NOTA: L'articolo continua, spiegando che da quel giorno l'Arabia Saudita è sempre stata tenuta sottilmente sotto ricatto da parte del governo americano. Addirittura, nel 2012 il parlamento americano ha approvato una legge che autorizza una ipotetica azione legale contro l'Arabia Saudita per i fatti dell'11 settembre. Naturalmente - conclude l'articolo - ne traggono anche un grosso vantaggio le grandi corporation americane, che vedono così continuare ininterrotto il prezioso flusso di petroldollari nelle proprie casse (M.M.)