Venti anni fa un taxi percorreva Aviation Boulevard, il grande viale che conduce dall’aeroporto di Los Angeles al centro della città. Su quel taxi c’era una famiglia di italiani, che si stavano trasferendo a vivere negli Stati Uniti: marito e moglie quarantenni, una figlia di sei anni e un figlio di tre. Un pò per motivi personali, un po’ per motivi professionali, avevamo deciso di tentare “l’avventura americana”.
Avevamo qualche soldo in tasca, e la vita sembrava sorriderci da qualunque lato la si guardasse.
I motivi professionali che ci avevano spinto al grande salto derivavano dal mio lavoro, cioè il cinema. Dopo aver fatto alcune esperienze in Italia, avevo capito che per procedere era necessario “accasarsi” politicamente ad uno dei clan di regime, è questo per me non era accettabile. Partendo per Los Angeles mi ero detto: “Preferisco non fare più un solo film nella vita perchè non sono bravo abbastanza per farlo, piuttosto che non farlo perchè non lecco il culo alla persona giusta.” Per fortuna, mia moglie fu pienamente d’accordo con me.
Le motivazioni personali riguardavano i nostri figli: volevamo che crescessero in un ambiente che offre ai giovani mille orizzonti e possibilità, e non in un ambiente – come quello italiano – che tarpa le ali ai giovani prima ancora che siano in grado di volare.
Comprammo una casetta, ed iniziammo la nostra avventura. [...] Io feci un piccolo film, con un gruppo di attori di una scuola di recitazione locale, e mi dissero che “promettevo” bene. Man mano che mi addentravo nei meandri di Hollywood, però, iniziavo anche a capire quali siano i reali meccanismi che operano alle spalle del grande schermo luminoso. Questi meccanismi non riguardano tanto i soldi – quelli si muovono a cielo aperto, ed in grandi quantità – quanto piuttosto le dinamiche di tipo ideologico che determinano la realizzazione o meno di un film da parte delle major. Di “piccoli” film infatti puoi farne quanti ne vuoi, ma non li vedrà mai nessuno se non ti sei prima assicurato la distribuzione di una major.
E quella la trovi soltanto se il film risponde a certi criteri di tipo ideologico, che sono decisamente rigidi e inequivocabili: quella di Hollywood è una macchina che tende ad appiattire tutto, che tende ad omogeneizzare ogni discorso verso un minimo comun denominatore: l’entertainment. L’intrattenimento.
Messo costantemente di fronte al Primo Comandamento di Hollywood - “La gente va al cinema per distrarsi e non per pensare” - mi resi conto che realizzare un vero film con una grande distribuzione, restando fedele a certi principi d’autore, sarebbe stato per me un’impresa titanica.
I tempi inoltre stavano cambiando velocemente, ed il film drammatico, imperniato sulle vicende umane dei personaggi, stava lasciando il posto al cinema d’azione, basato esclusivamente sulla spettacolarità degli effetti speciali.
Ero arrivato in ritardo. Di qualche decennio. I tempi di Altman, Cassavetes e Rafelson erano già finiti, e io ancora non me n’ero accorto.
Poi venne l’11 settembre, e per me cambiò tutto. Ricordo ancora vividamente il momento in cui mi alzai dalla sedia, la sera di quel martedì maledetto, e dissi a mia moglie: “Mettiamoci al lavoro. Qui c’è moltissimo da fare”. Non sapevo minimanente “che cosa” si potesse fare, in quel momento: internet per me era una realtà ancora tutta da scoprire, e di certo non sarebbe stato un film hollywoodiano a permettere di affrontare il problema in maniera efficace. Sentivo però che certe energie mentali andassero indirizzate con tutta la forza possibile verso l’esterno, e non più verso l’interno.
Cominciai a leggere il libro di Meyssan sul Pentagono, poi lessi quello di Giulietto Chiesa intitolato “La guerra infinita”. Iniziai le mie ricerche in rete, e in poco tempo mi ritrovai coinvolto nella vicenda dell’11 settembre in maniera irreversibile. Nel 2003 mandai il mio primo articolo a comedonchisciotte, intitolato “Mamma, ci hanno dirottato l’aereo!”, e un anno dopo aprivo luogocomune. Il resto della storia la conoscete. Nel maggio prossimo il nostro sito compirà 10 anni.
Nel frattempo i figli erano cresciuti, si sono sposati ed hanno avuto dei figli. Più nolente che volente, sono diventato nonno.
Dopo aver dedicato gli ultimi 3 anni all’ultimo film sull’11 settembre, sentivo che un ciclo era giunto a conclusione. Avevo fatto tutto quello che potevo per denunciare la grande menzogna delle Torri Gemelle, avevo messo in rete il film in tre lingue diverse, ed avevo partecipato alla più importante trasmissione radiofonica americana, parlando dell’11 settembre, proprio la sera dell’anniversario: per me non ce’era più motivo per rimanere negli Stati Uniti, era nuovamente ora di voltare pagina.
La scorsa settimana un taxi ha percorso Aviation Boulevard in senso opposto, dal centro della città verso l’aeroporto. A bordo c’era una famiglia di italiani: un marito e una moglie quasi sessantenni, con il figlio (oggi 23enne) che portava con sè la moglie e il suo proprio figlio, di tre anni (la figlia è rimasta in USA, con la sua nuova famiglia). Eravamo contenti dell’esperienza fatta, e contenti di rientrare nel proprio paese.
Non so se trovandomi in Italia potrò fare qualcosa di utile per il mio paese, ma di certo posso dire che mi piacerà essere più vicino ai miei connazionali nei momenti decisamente difficili che stanno per arrivare.
E’ facile fare i tromboni quando tutto va bene. Più difficile – ma anche molto più bello – è dichiararsi italiani al 100% in un momento come questo.
Massimo Mazzucco