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Storia proibita - Raccolta di articoli a tema storico/misterico
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Ci furono adepti che sopravvissero al mitico diluvio e si prodigarono per piantare i semi delle nuove civiltà che sarebbero poi sorte. La cultura egizia e i suoi templi, per esempio, ne sono la prova. Che infatti sia comparsa senza alcun precedente indica che i suoi fondatori possedevano già capacità, leggi e conoscenza in grado di mettere in atto un progetto preesistente. Proprio come nel mito di Ail-na-Mirenn di Gerusalemme (oggi chiamato il Monte del Tempio) gli onfalo d’Irlanda si trovavano in luoghi in cui le acque del grande diluvio arretrarono per prime, esattamente come nel deposito di Shiva di Arunachala e in tante altre primordiali terraformazioni del mondo. I Purana ci parlano di come sette saggi visitarono Arunachala dopo il diluvio, per raccogliere e diffondere la conoscenza; la tradizione dell’India del Nord ci dice che Manu e sette saggi trovarono rifugio sull’Himalaya e, dopo il diluvio, si misero a ricostruire la zona fra l’Indo e il Gange e contemporaneamente a insegnare i Veda. Le tradizioni andine descrivono i costruttori dei monumenti megalitici definendoli Huari, una razza di persone dalla carnagione chiara e barbe enormi, il più famoso dei quali era un tipo con barba, pelle bianca e rosso di capelli chiamato Viracocha, che saltò fuori da un’imbarcazione sul lago Titicaca. Insieme a “sette splendenti”, prese a costruire il complesso templare di Tiwanaku, che venne in seguito utilizzato come “luogo ombelicale” in cui si stabilirono per diffondere la conoscenza a tutte le Ande. Proprio come il Popol Vuh rappresenta la storia orale dei Maya K’iche, allo stesso modo il Codice Vaticanus registra fedelmente le tradizioni orali antichissime dell’America Centrale. In un passaggio curioso si afferma che «durante la Prima Era, i giganti esistevano in quel paese (il Messico)». Essi erano legati a uno dei sette che menzionano come «sopravvissuto al diluvio… e arrivato a Cholula dove iniziò a costruire una torre… in cui, se fosse di nuovo arrivato il diluvio, si sarebbe rifugiato». Di fatto, la piramide di Cholula ancora esiste, in parte perché sopra di essa si trova una chiesa spagnola, ma in particolare perché è la piramide più grande mai costruita al mondo; il suo volume è più vasto di quello della piramide di Giza. In lingua Nahuatl (azteca) è chiamata Tlachihualtepetl, cioè “la montagna artificiale”. In origine era chiamata Acholollan, che vuol dire “acqua che cade sul luogo del volo”.
Il Potere del Suono
Di certo, questi costruttori erano fisicamente e intellettualmente dotati, come testimoniano diversi racconti che parlano di tali individui in grado di ottenere quasi l’impossibile, utilizzando tecniche che superano le attuali leggi della fisica. Nel complesso templare di Uxmal, si dice che la Piramide del Mago sia stata tirata su solo in una notte da un uomo con poteri magici che «fischiava e faceva muovere pesanti rocce trasportandole sul posto». Lo stesso fatto compare nella tradizioni di Tiwanaku in cui si dice che: «le grandi pietre vennero mosse dalle cave al suono di una tromba… e presero posizione al loro posto». Simili capacità sono attributi comuni per i costruttori di Teotihuacan e Stonehenge, così come per gli originari templi egizi che vengono descritti come siti “della costruzione veloce”. Tutto ciò ricorda le qualità della magica Hekau egizia (che è forse la possibile origine dello spesso mal interpretato hex) (malocchio, maledizione, ndt) con cui i maghi muovevano pietre tramite «parole che uscivano dalla loro bocca», proprio come i maghi etiopi Hor trasportavano grandi pietre nell’aria. Storie identiche che riguardano i sopravvissuti al diluvio e che sbucano fuori dagli oceani e in grado di fare cose soprannaturali appaiono anche in tutta la Micronesia. Sull’isola di Pohnpei si trovano 100 isolotti artificiali, che comprendono la cittadella pentagonale di Nan Madol. All’interno di essa si trova il tempio di basalto di Nan Dowas e la sua piramide centrale, le cui fondamenta di pietra megalitica sembrano esser state erette da due Dèi antidiluviani che giunsero via imbarcazione da una terra sommersa dell’ovest, e «grazie ai loro incantesimi magici, a uno a uno, fecero volare i grandi massi di pietra nell’aria come uccelli, sistemandoli poi nei punti appropriati». Tradizionalmente chiamata Sounhleng, “scogliera del cielo”, è costruita come riflesso della sua controparte affondata, Kahnimweiso Namkhet (“Città dell’Orizzonte”). Di fatto, le rovine sommerse delle due città sono state scoperte proprio in quella zona, a grande profondità, con tanto di colonne erette su piedistalli alti 7 metri e 30.
Gli Splendenti
Il concetto di Dèi o saggi, che riemergono dal mare con vascelli e altri mezzi di salvataggio dopo una catastrofe globale, è un tema ricorrente nei miti e nelle tradizioni tenute vive da civiltà teoricamente mai venute a contatto. Eppure collegamenti ci sono e risultano ben intrecciati, come in un finissimo tappeto persiano. A partire dalla terraformazione primordiale di Eliopoli, gruppi di Dèi costruttori, anche chiamati “Sette Saggi”, iniziarono a individuare altre colline in località ben scelte che avrebbero avuto il ruolo di fondamenta di futuri templi, lo sviluppo dei quali avrebbe dovuto dar luogo alla «resurrezione dell’antico mondo degli Dèi», a seguito della distruzione causata da un diluvio universale. Questi Ahau egizi (“Dèi che si ergono”) erano i sopravvissuti di un’isola sopraffatta da una catastrofe che «inondò le antiche dimore degli Dèi». Inoltre, i suddetti Ahau venivano descritti come di altezza pari a 4metri e mezzo. Nel frattempo, nell’oceano Pacifico, il primo esploratore europeo a raggiungere l’isola di Te Pito o Te Henua (“Ombelico del Mondo”) fu Jacob Roggeveen, la domenica di Pasqua del 1722, da qui il suo nome attuale e anglicizzato di Isola di Pasqua. Egli registrò doviziosamente le esperienze avute con le comunità locali; in una di queste testimonianze si afferma che la popolazione di quell’isola era composta da due razze; gli Orecchi Corti e gli Orecchi Lunghi. I Corti erano i tipici Homo sapiens. Per quanto riguarda i Lunghi, Roggeveen e il suo equipaggio ebbero dirette esperienze con loro: «A dire il vero, potrei dire che questi selvaggi sono proporzionalmente alti e grossi, con una statura di circa tre metri e mezzo. Per quanto possa sembrare sorprendente, l’uomo più alto che abbiamo a bordo riusciva a passare in mezzo alle gambe di questi figli di Golia senza dover piegare la testa». Per caso abbiamo a che fare con gli stessi Ahau associati all’antico Egitto? Apparentemente, gli antenati degli Orecchi Lunghi furono i responsabili delle statue di pietra che punteggiano l’Isola di Pasqua, cioè gli enigmatici Moai (“immagine”), le cui facce monolitiche fissano un punto lontano nel cielo. Questi Dèi costruttori e magici erano chiamati Ma’ori, che vuol dire “Seguaci”, mentre il nome completo era Ma’ori-Ko-Hau-Rongorongo, “Signori della Conoscenza Speciale”. Secondo la tradizione orale essi spostarono questi colossi di pietra grazie al Mana, un tipo di energia psichica con cui si sottomette la materia agli scopi di una persona abile nel gestire le forze sottili. A più riprese essi potevano unire i loro mana mettendosi in circolo intorno a una serie di macigni rotondi chiamati Ahu Te Pito Kura, “l’Ombelico della Luce”, che tutt’oggi esistono su quell’isola (identiche pietre rotonde, di dimensioni più grandi, si possono trovare nei pressi dei siti sacri dell’America Centrale, così come nella South Island della Nuova Zelanda). Le leggende riportano che, per mezzo delle «parole che uscivano dalla loro bocca», le statue furono trasportate a comando nell’aria. Come per molti altri territori coi loro miti del diluvio, l’Isola di Pasqua si dice fosse parte di una massa territoriale più vasta prima che un gigantesco cataclisma e la susseguente crescita del livello del mare ne sommergessero una buona fetta. Le mappe oceaniche ne danno conferma. I nativi apparentemente diedero ospitalità ai sopravvissuti di una terra sommersa chiamata Hiva e poi Sette Saggi, «tutti uomini illuminati», perlustrarono l’isola prima di realizzare terraformazioni sacre trasformandole in luoghi particolari. Venne costruita una collinetta a gradoni chiamata Ahu nel luogo originario dove approdarono e su cui vennero susseguentemente eretti sette Moai a commemorazione di questi straordinari sette Dèi costruttori (i moai sono presenti anche a Teotihuacan e nelle isole Marchesi). Lo stile murario degli Ahu è identico a quello dei templi andini, come Tiwanaku e, proprio come essi, è costruito ben al di sopra di precedenti fondamenta megalitiche. Gli Ahu possono ritrovarsi anche sotto marae più antichi (“luoghi sacri”) di altre isole polinesiane. Accanto al primo Ahu e ai suoi sette moai, gli Dèi costruttori scavarono una grande cava rettangolare per contenere un’imbarcazione. Qui si può notare un riflesso del rituale egizio relativo alla santificazione della collina sacra, visto che accanto alla Grande Piramide di Giza, anch’essa eretta su una primordiale terraformazione sacra, si trova uno profondo scavo recintato che un tempo ospitava un’imbarcazione. Anche linguisticamente, entrambe le civiltà per riferirsi agli stessi procedimenti condividono le stesse parole: il sole per gli egiziani è Ra, per gli abitanti dell’Isola di Pasqua è Raa. In Egitto, Ahu è un termine che descrive uno spirito soprannaturale e la sua permutazione linguistica è Akh, Akhu, Ahu che significano “Essere di Luce”, “Splendente” o “Spirito Trasfigurato”. Sull’Isola di Pasqua, un “Grande Spirito” è Aku-Aku, l’essenza del quale è incorporata nel Moai, che rimane in eterno a fissare le stelle.
I sette magnifici giganti
Il dio creatore babilonese Oannes si dice sia emerso dal Golfo Persico e abbia dato vita a una civiltà avanzata. Viene raffigurato sia come un gigante che come un uomo con le sembianze di un pesce (un’analogia con le sue origini marittime) e che diede agli esseri umani la conoscenza delle «lettere e delle scienze e di ogni tipo di arte. Egli insegnò loro a costruire case, a fondare templi, a stilare leggi e spiegò loro i principi della conoscenza geometrica… li istruì su tutto ciò che serviva a moderare i comportamenti e a rendere umani. Da quel tempo, così universali furono i suoi insegnamenti, che nulla di concreto è stato aggiunto che potesse migliorarli». Che simili Dèi costruttori fossero descritti come giganti potrebbe essere un modo di indicare la loro levatura di carattere intellettuale e forse le loro capacità psichiche. Ciò sembrerebbe la logica interpretazione per la mente moderna riguardo leggende che parlano di strambi giganti che compiono gesta potenti. E se i Sette Saggi fossero stati anche giganti di statura? Anche il Vecchio Testamento ricorda come intorno al tempo del diluvio «sulla Terra c’erano i giganti… e dopo che i figli di Dio s’imbatterono nelle figlie dell’uomo e con esse si accoppiarono, i loro discendenti divennero uomini potenti; i rinomati eroi dell’antichità ». Anche i rotoli di Qumran definiscono questi uomini “giganti potenti”, discendenti di Dèi antidiluviani. Allo stesso modo il Corano si riferisce ai Gibborim (“Giganti”) che abitavano il Vicino Oriente, e spesso li descrive in un contesto di un’atmosfera magica e molto antica, persino collocando le loro abitazioni nella città di Gerico, “la Città dei Giganti”. Duecento anni di archeologia ci aiutano ancora di più. In Bolivia, dopo che il gigante Viracocha e i suoi “Splendenti” lasciarono Tiwanaku, essi giunsero in un luogo sulla costa chiamato Matarani, che era spesso utilizzato da loro come porto nell’oceano Pacifico. Le tradizioni affermano che da lì essi scomparvero, disperdendosi nell’oceano con la loro “imbarcazione magica”, subito dopo l’attacco di un gruppo di umani, apparentemente spaventati dalle loro fattezze. Successivamente, la leggenda è stata confermata quando, in alcune colline funerarie vicino Matarani, sono stati disseppelliti resti di scheletri giganteschi. Anche gli scavi in Messico e Perù hanno prodotto scheletri di un’altezza di circa 2mt e 80 sepolti in antiche collinette o sepolcri di pietra smaltata. Matarani è un nome ben presente nei significati reconditi della lingua egizia. Ma’at è la dea della Giustizia-Verità, Ra il Sole. Ancora più strano, il nome riappare in Nuova Zelanda in una qualche forma inversa, per esempio Marotini, la dea tutelare dell’antico tempio naturale di Kura Tawhiti, eretto dai mitici altissimi Dèi Waitaha che sopraggiunsero dall’oceano. Il folclore dei giganti è dominante soprattutto nelle isole britanniche, non solo sotto forma di astratte leggende, quanto con prove materiali sul territorio. Oggi, chiunque dal centro di Londra fino a Sligo nell’Irlanda dell’ovest può visitare centinaia di sepolcri dei giganti; lunghi tumuli fatti in alternanza da strati di pietra e terra, con sentieri di pietra sul davanti e un profilo che forma un triangolo pitagorico. In molte occasioni durante l’era vittoriana in queste collinette vennero fatti scavi con riesumazioni di scheletri di una lunghezza che andava dai 2mt e 70 ai 3mt e 60. La maggior parte delle descrizioni di questi scavi sono accompagnate da testimonianze visive e racconti, che parlano di improvvisi cambiamenti di condizioni atmosferiche, in particolare violenti temporali, non appena gli operai iniziavano a dissotterrare i corpi. Sembra evidente che alcune cose sacre debbano essere lasciate lì dove sono. Nella contea di Antrim, in Irlanda, uno di questi riesumati cadaveri di gigante venne trovato fossilizzato a tal punto che, in una fotografia del dicembre 1885 sulla rivista Strand, la pelle era ancora ben visibile. Insieme ai resti di tali corpi, sono state ritrovate, in un altro cimitero di giganti vicino Glastonbury e ottimamente conservate nella torba, anche armature arrugginite, accette e un arco lungo più di due metri. Quest’ultimo oggi si trova nel vicino museo Taunton. Esistono centinaia di casi simili documentati nelle sole isole britanniche e, ogni volta che vengono ritrovate ossa di questo tipo, si ha l’abitudine persistente di inviarle nei luoghi del sapere, come il British Museum; peccato che, per mera convenienza, esse svaniscano come prova dagli occhi dell’opinione pubblica.
Le leggende Cherokee
Anche le tribù dei nativi del Nord America, in particolare la nazione dei Creek, hanno simili racconti con razze di giganti. Essi descrivono l’incontro con i superstiti di questi giganti, scappati da una terra sommersa nell’Atlantico. I Cherokee si spingono a dire che molte delle loro tradizioni hanno un legame con una razza estinta di giganti, che hanno incontrato durante la migrazione dalle montagne Allegheny fino in pianura. Essi attribuivano a quella gente la costruzione dei tanti terrapieni sparsi nella valli dell’Ohio, compresa la sinuosa Serpent Mound. Di fatto, il nome Allegheny è una derivazione del loro nome, Allegewi. I Cherokee dicono che ai primordi della loro storia, gli Allegewi erano già un po’ abbrutiti, un brandello residuale di una civiltà molto più evoluta e antica. Questo fatto è confermato dalle leggende Sioux, che raccontano di attacchi sulle pianure centrali da parte di isolate tribù di giganti, che si spostavano dalle montagne dell’est. Sembra che queste tribù nomadi fossero testimoni della fine di una razza in via d’estinzione, troppo pochi per accoppiarsi fra loro e fisicamente troppo grossi per potersi accoppiare con le donne umane, con un conseguente senso di impotenza e abbandono a un comportamento non più civilizzato. Da un racconto del 1833, sembra poi certo che gli ultimi di loro abbiano raggiunto la California. Alcuni soldati in procinto di fare scavi per le fondamenta di un deposito di polveri da sparo a Lompock Rancho s’imbatterono in un sarcofago di pietra contenente uno scheletro umano di altezza pari a 3mt e 60 circa, coperto di sottili blocchetti di porfido; un minerale color porpora tempestato di quarzo, su cui era incisa una serie di simboli come di un’antica lingua perduta. Dopo un’insolita serie di eventi, i soldati in cerca di informazioni sull’origine dello scheletro consultarono lo sciamano locale della tribù di nativi. Questo, durante una trance, affermò che il corpo apparteneva a un Allegewi, i cui antenati erano stati combattuti proprio dalla sua tribù nel primo periodo di insediamento in California. Come poi avvenne nel caso dei ritrovamenti europei del 1960, al dissotterramento di questi anonimi scheletri sarebbe regolarmente seguita la procedura d’invio per le analisi allo Smithsonian Institute, per poi perderne le tracce. Eppure ci sono molte prove rese pubbliche a supporto di tali storie. Sia che fossero i babilonesi Apkallu, i Sette Rishi indiani, o i Sette Saggi egizi, una fratellanza di gente illuminata, spesso di statura enorme, è sopravvissuta a un cataclisma inimmaginabile e, alimentati da alti ideali, si è avventurata in ogni angolo del mondo per ricostruire l’antico mondo degli Dèi.
I Seguaci di Horus
Nessuna discussione relativa a un arcaico sistema di conoscenza può avere luogo senza fare riferimento alla cultura egizia. È lì che dovremo rivolgerci per ulteriori indizi che ci portano ai sette saggi. Gli egizi credevano che in principio la loro terra fosse stata governata da una dinastia di grandi Dèi, di cui Horus, figlio di Iside e Osiride, era l’ultimo. A lui seguì una dinastia di esseri semi-divini conosciuti come “Seguaci di Horus” che, a turno, diedero vita ai famosi re d’Egitto. Parlando in termini cronologici, la terra che gli egizi un tempo chiamavano “Ta-Mery” venne agli inizi governata dai Neteru (“Dèi creatori”). Subito dopo il devastante diluvio universale, la loro eredità venne raccolta da coloro dal nome armonioso di Akhu Shemsu Hor, “Gli Splendenti, Coloro che seguono il cammino di Horus”. Furono essi a prendersi la responsabilità del regno fino al governo dei faraoni di razza umana, come Menes, che assunsero la leadership ammantati da un’aura di divinità. I testi di Edfu fanno costantemente riferimento ai Sette Saggi e a come essi fossero gli unici esseri divini che sapevano in che modo si costruissero i templi e i luoghi sacri. A volte chiamati i “Signori della Luce”, essi partirono dalla Terraformazione Primordiale, edificando una dimora di dio definita “costruzione rapida”. Una qualità attribuita anche ad altri templi, da Uxmal in Messico all’Isola di Pasqua. Varie tradizioni affermano che quella conoscenza e altre testimonianze importanti di «quegli uomini altamente istruiti» non solo sono sopravvissute al diluvio, ma sono state anche preservate in stanze speciali all’interno della costruzione posta in cima alla Terraformazione Primordiale, cioè alla Grande Piramide di Giza. L’informazione, depositata in quel luogo dal mitico Djehuti (Thot), sarebbe rimasta protetta da una specie di meccanismo magico a chiusura stagna, fino a che gli umani non fossero stati in grado di vedersela affidata. O quanto meno trasmessa a persone di altissima integrità.
L’Arte della Memoria
In un modo o nell’altro, la vecchia conoscenza è comunque sopravvissuta. Probabilmente perché ci si è impegnati ad ancorarla alla memoria. Sia se si parla dei Veda, dei testi di Djehuti o della tradizione orale dei Maya Quechua, era pratica riconosciuta quella di imparare tutto a memoria. Infatti, se molta della letteratura e dei rituali arcaici indiani sopravvive ancora oggi è per via delle straordinarie capacità mnemoniche di gente come i Sadhu o altri saggi. Nella nostra epoca computerizzata tali capacità potrebbero sembrare inutili, ma all’epoca la memoria e la ripetizione erano sia ammirate che celebrate. Nei suoi scritti riguardanti i Druidi, Giulio Cesare sottolineò come fossero necessari almeno vent’anni di istruzione orale prima che coloro che frequentavano le Scuole Misteriche dei Druidi fossero pronti per la loro ultima iniziazione. Ci sembra una logica impeccabile: qualora infatti la conoscenza del tempio fosse andata distrutta, questa sarebbe rimasta ad appannaggio degli adepti. Tutto ciò che essi dovevano poi fare era sopravvivere. E tutti i miti del diluvio parlano degli Dèi che pre-allertano pochi saggi, per permettere loro di mettersi in salvo sulle alture o nelle arche. E poi, trascrivere informazioni ha anche i suoi lati negativi. Man mano che il tempo passa, le parole mutano, i significati stravolti e i simboli cadono nelle mani sbagliate (esempio su tutti, il riadattamento fatto dai nazisti della nobile svastica indù). Nel momento in cui la trascrizione degli antichi Testi delle Piramidi venne completata sulle pareti delle piramidi di Unas e Pepi I, intorno al 3.300 a.C., erano pochi gli scribi che, avendo di fronte gli scritti, riuscissero a comprenderli davvero. Lo stesso Djehuti venne reso edotto delle limitazioni della parola scritta. Subito dopo che scoprì l’arte delle lettere, egli cercò il consiglio di Amon riguardo quella “magia” che sentiva in grado di migliorare la memorizzazione della conoscenza. La risposta di Amon è la quintessenza dell’eloquenza: «…ora, siccome sei il padre della scrittura, il tuo amore per essa ti ha fatto descrivere i suoi effetti esattamente all’opposto di come realmente sono. Di fatto, essa darà inizio, all’interno dell’anima, al processo dell’oblio; l’uso della pratica della memoria cadrà, perché si affideranno alla scrittura, che è esterna e dipende dai segni che appartengono ad altri; e non cercheranno di ricordare dall’interno e in maniera totalmente autonoma. Tu non hai scoperto la pozione magica per ricordare, ma per farti ricordare da qualcosa. Tu darai ai tuoi studenti una saggezza apparente e non effettiva. La tua invenzione permetterà loro di sentire molte cose, senza ricevere reale istruzione da essa e al contempo immagineranno di essere arrivati a sapere tanto, anche se in gran parte non sapranno nulla». I Sette Saggi, allo scopo di ripromulgare la conoscenza sacra ereditata dai loro padri, sia in maniera diretta o tramite i loro successori, cioè i Seguaci di Horus, mantennero una continuità di generazione in generazione. Secondo il Matsya Purana: «Quello che i Sette Saggi hanno udito dai Saggi dell’era precedente, lo hanno raccontato di nuovo nella successiva». E man mano che la popolazione aumentava, allo stesso modo cresceva l’Ordine. Lo possiamo constatare in India dove i gruppi di Sette Saggi si sparpagliarono in diverse regioni, in maniera molto simile ai Cavalieri Templari che originariamente da nove si svilupparono in un Ordine europeo, che successivamente evolse in un movimento sovranazionale come la Massoneria o i Rosacrociani. Di fatto, l’associazione con le stelle rimase. Gruppi di saggi nell’India del sud vennero associati alle sette stelle che formano l’Orsa Maggiore, la costellazione della Grande Orsa. Un parallelo con Osiride che viene associato alle sette stelle principali di Orione. Come tali, queste tradizioni “separate” possono essere collegate con le fratellanze spirituali del nord Europa incentrate sulle leggende di Artù. Arthur in scozzese è “Arthwr”, cioè “grande orsa”, egli infatti veniva associato all’Orsa Maggiore. Sebbene nel tempo i numeri cambino, i principi base rimangono inalterati: i dodici cavalieri intorno a una tavola rotonda a cui è concesso il medesimo status e a cui è affidato il compito di riportare il Sacro Graal in un regno assediato è una metafora che descrive uno zelante gruppo di “cavalieri con armatura splendente” (gli splendenti), che cercano di ristabilire il giusto ordine su un territorio. Echi di un simile racconto abbondano in Gesù e i dodici apostoli, in Giasone e gli Argonauti (alla ricerca del Vello d’Oro) e in un certo modo anche in Robin Hood e nei suoi dodici uomini sposati (Robin è “l’uomo in verde”, il Green Man, simbolo del perenne dio della natura, Pan).
Articolo di Freddy Silva
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Nel maggio 2018, due scienziati di indubbia serieta hanno ammesso per la prima volta che potrebbero essere esistite sul nostro stesso pianeta civilta di decine o centinaia di milioni di anni anteriori alla comparsa dell’Homo Sapiens. Si sarebbe trattato, percio, di vere e proprie creature aliene, forse venute dallo spazio, forse indigene della Terra. Del loro aspetto non potremo mai sapere nulla: puo darsi che non fossero nemmeno basate sul carbonio e sull’acqua come noi, ma sul silicio e sull’ammoniaca. Gia un decennio fa, lo scrittore ed esperto di ritrovamenti archeologici insoliti Joseph R. Jochmans (di cui parlero estesamente negli articoli successivi) aveva scritto che «Se prendiamo come media la nostra stessa evoluzione fisica negli ultimi 18 milioni di anni, e la nostra fioritura culturale degli ultimi 10.000 anni come altra media, ci troviamo a contemplare la possibilità che 250 precedenti evoluzioni di esseri intelligenti abbiano prodotto 450.000 cicli di civiltà preesistenti, che si estendono fino in fondo agli attuali strati geologici». I due studiosi che hanno avallato questa ipotesi sono Adam Frank, astrofisico dell’Universita di Rochester, e Gavin Schmidt, direttore del Goddard Institute for Space Studies della NASA. In un saggio pubblicato sull’International Journal of Astrobiology, fanno notare come non sarebbe possibile trovare i loro fossili, allo stesso modo in cui sarebbe un’ardua impresa trovare i nostri, nonostante l’abbondanza di cimiteri e ossari. «La frazione di vita che resta fossilizzata è sempre estremamente piccola. Ad esempio, di tutti i dinosauri mai vissuti, ci restano solo poche migliaia di esemplari quasi completi, equivalenti a una manciata di singoli animali ogni 100.000 anni. È quindi chiaro che specie di breve durata (finora) come l’Homo Sapiens, potrebbero non essere rappresentate affatto nel campionario dei fossili esistenti».
La Grande Strada
In passato, simili speculazioni appartenevano al regno della fantascienza, e H. P. Lovecraft fu il primo narratore a immaginare l’esistenza nel remotissimo passato di veri alieni, i Grandi Antichi, totalmente estranei a ogni altra creatura. Nel racconto Il richiamo di Cthulhu (1928), Lovecraft scrisse che non erano composti di carne e sangue, e nemmeno fatti di comune materia. Chiaramente, esseri immateriali non lascerebbero fossili. Allo stesso modo, i resti di creature di silicio potrebbero apparire indistinguibili dalle comuni rocce! Se non fosse possibile nemmeno trovare dei fossili, tutto quanto resterebbe di civilta antiche di eoni sarebbero i loro manufatti, e Frank e Schmidt ritengono improbabile trovare anche quelli. Alcuni anni or sono, ando in onda una serie di documentari dal titolo italiano La Terra dopo l’Uomo, che mostrava quanto poco sarebbe rimasto di noi dopo la nostra scomparsa. La Statua della Liberta e l’Empire State Building si disintegrano, Los Angeles arde distrutta da un terremoto, Miami scompare tra i flutti dell’oceano, le sabbie seppelliscono Las Vegas. Gli animali tornerebbero selvatici, avviandosi su un nuovo cammino evolutivo, mentre gli impianti nucleari, petroliferi e gassosi esploderebbero spontaneamente in un olocausto planetario. Eppure, alcune testimonianze riuscirebbero a sopravvivere nel profondo del sottosuolo, sepolte da centinaia di metri o perfino chilometri di roccia, fuori dalla portata degli archeologi e raggiungibili solo dalle compagnie minerarie. Esiste perfino l’affascinante ipotesi che certe strutture artificiali, o perfino intere citta, siano state seppellite deliberatamente, come gli odierni bunker antiatomici o le fabbriche di armi scavate dai nazisti nei fianchi delle montagne. Una delle affermazioni certamente piu sorprendenti al riguardo e contenuta nel libro di Mary Sutherland In Search of Shambhala (disponibile, a quanto pare, solo sul Web), che asserisce: «Strumenti sonar sismici hanno individuato quella che adesso chiamiamo “La Grande Strada”, situata molte miglia sotto la superficie della Terra. Si tratta di un gigantesco “nastro” intorno al globo, formato da una serie di caverne. Largo migliaia di metri e spesso centinaia, questo nastro cinge la Terra orizzontalmente all’Equatore e verticalmente intorno ai Poli. Geologi della Mobil Oil hanno trovato ciclopiche città sotterranee alle due intersezioni, collocate sotto le giungle dell’Ecuador e in una fossa oceanica al largo della costa meridionale della Malesia. Queste città altamente avanzate, complete di geroglifici e pittogrammi, sono anteriori non solo ai dinosauri ma anche ai vertebrati». Questa storia va presa con beneficio d’inventario, poiché confesso di non essere riuscito a trovare altre informazioni in merito.
Il muro nella miniera
Ma oltre alle multinazionali dell’industria estrattiva, anche i lavoratori di piccole miniere, assistiti dalla fortuna, potrebbero riuscire a imbattersi in reliquie di civilta ignote... e forse perfino macchinari ancora in efficienza. Nel libro Worlds Before Our Own (1978), lo scrittore del mistero Brad Steiger racconta che degli uomini scoprirono in una miniera di carbone, a ben due miglia sottoterra, una parete artificiale. Uno dei minatori lascio un giuramento scritto: «Nell’anno 1928, io, Atlas Almon Mathis, stavo lavorando nella miniera No. 5, situata 2 miglia a nord di Heavener, Oklahoma. Era un pozzo, e ci dissero che scendeva per 2 miglia. Ci calavano in un ascensore, e ci pompavano giù l’aria, tanto era profondo. La mattina dopo un’esplosione nella stanza 24, trovammo alcuni blocchi di cemento che giacevano per terra. Questi blocchi erano cubi di 30 centimetri, ed erano così lisci e lucidi all’esterno che tutti e sei i lati potevano servire come specchi. Eppure erano pieni di ghiaia, perché ne scheggiai uno col mio piccone, ed era normale cemento all’interno. Mentre cominciavo a puntellare la stanza, questa crollò; e me la cavai a malapena. Quando feci ritorno dopo il crollo, vidi che una solida parete di quei lustri blocchi era rimasta esposta. Circa 100 o 150 metri più in basso, lungo la nostra condotta d’aria, un altro minatore colpì quello stesso muro, o uno molto simile». Cosa ci fosse dietro il muro, non e dato saperlo. I proprietari della miniera ordinarono a tutti di tenere la bocca chiusa. Mathis apprese tuttavia che altri minatori avevano trovato un solido blocco d’argento a forma di botte. Disse pure che nell’area del muro si sentivano rombi furibondi, come se a pochi metri passasse un treno espresso, e che in quei momenti la parete risplendeva e diventava trasparente! Nello stesso anno, la miniera fu inspiegabilmente chiusa, completamente inondata, e oggi c’e costruito sopra un impianto di riciclaggio. Il gia citato Joseph R. Jochmans attribui al muro un’eta di 325 milioni di anni.
Il racconto del soldato
Atlas Mathis potrebbe non essere stato l’unico a imbattersi in enigmatiche architetture sepolte a enormi profondita. Nell’ottobre 1944, in piena II Guerra Mondiale, il soldato cecoslovacco Antonin D. Horak, rifugiatosi ferito in una caverna dei Monti Tatra, narro nel suo diario il ritrovamento di qualcos’altro che poteva benissimo risalire ai Grandi Antichi (e lo disegno)! Il suo racconto fu pubblicato per la prima volta negli USA, sul periodico National Speleological Society News, nel marzo 1965. La caverna, disse, era situata fra i villaggi di Plavince e Lubocna, in un’area circa a 49,2 gradi nord, 20,7 gradi est. Horak era un ingegnere minerario, laureato anche in filosofia, e marito di una geologa; aveva diretto alcune miniere e viaggiato in tutto il mondo. Era quindi la persona piu adatta per indagare sui misteri del sottosuolo. A trascinarlo nella caverna con altri feriti fu un pastore di nome Slavek, che aveva passato laggiu tutta la vita. «Sul punto di lasciarci, l’uomo ci pregò di non inoltrarci oltre nella sua spelonca. Lo accompagnai a raccogliere rami, e mi disse che solo lui era stato all’interno; c’era un enorme labirinto, pieno di pozzi che non aveva mai voluto sondare, sacche d’aria venefica, e perfino spettri». Ma i feriti avevano disperato bisogno di cibo. «Lo stesso pastore conosceva la caverna solo in parte. Poteva avere più di un’entrata, o contenere animali in letargo. Ruminai queste possibilità mentre un mio compagno masticava corteccia di pino, implorandomi di andare a cercare qualcosa. E io ero non solo affamato, ma anche curioso di scoprire cosa spaventasse Slavek. Iniziai il mio viaggio con fucile, lanterna, torce, piccozza. Dopo circa 1 ora e 1/2 trascorsa a percorrere un lungo cunicolo, strisciai in un foro largo quanto un barile. Ancora in ginocchio, restai di sasso per lo stupore... c’era qualcosa di simile a un enorme proiettile nero, incastonato in bianche formazioni di calcare. Riprendendo fiato, pensai che fosse un bizzarro muro o cortina naturale di sale nero, o ghiaccio, o lava. Ma rimasi sbigottito quando vidi che si trattava del fianco, liscio come vetro, di una struttura in apparenza artificiale, incastonata nelle rocce da tutti i lati. La sua bella curvatura cilindrica indicava che si trattava di un corpo enorme, del diametro di circa 25 metri. Dove quella struttura e le rocce s’incontravano, grandi stalagmiti e stalattiti formavano una cornice luccicante. La parete era di un nero-bluastro uniforme, il suo materiale sembrava combinare le proprietà dell’acciaio e della gomma... la piccozza non lasciò segni e rimbalzò con vigore. Il semplice pensiero di aver scoperto un artefatto grande quanto una torre, infitto nella roccia nel mezzo di un’oscura montagna, in una regione selvaggia dove non esistevano nemmeno leggende su rovine, miniere, industrie, e coperto di antichissimi depositi rocciosi... era sufficiente a lasciare sgomenti. Non immediatamente distinguibile nella parete spessa da 2 a 5 cm, dal basso appariva una fenditura larga da 20 a 25 centimetri, che s’assottigliava e scompariva nel soffitto della caverna. I suoi bordi, a destra e a sinistra, erano neri come la pece e avevano aguzze dentellature delle dimensioni di un pugno. Vi gettai dentro una torcia accesa; cadde e si spense con forti scoppiettii e sibili. Una volta uscito e ripreso fiato, ero affascinato dall’intero enigma e deciso ad andare a fondo. Per quel giorno ne avevo avuto abbastanza, e dovevo pensare a nuove tattiche ». Non trovo nulla di commestibile, ma per fortuna il pastore torno con delle provviste. In seguito, spogliandosi e spalmandosi di grasso, attraverso la crepa Horak riusci a introdursi all’interno dell’oggetto. «Me la cavai solo con qualche taglio, rotolai giù in discesa e fui fermato da una parete che sentii familiare, perfettamente liscia e serica come quella esterna. La mia lampada mi bruciava ancora accanto, ma s’udivano suoni confusi. Accese alcune torce, vidi che mi trovavo un uno spazioso, curvo, nero antro formato da pareti alte come rupi che s’intersecavano a formare un tunnel, o meglio pozzo, quasi verticale, a forma di mezzaluna. Non posso descrivere quanto fosse fosco e lugubre quel luogo, e gli infiniti sussurri, e i suoni ruggenti, gli abnormi echi del mio fiato e dei miei movimenti. Il pavimento in discesa su cui ero rotolato era fatto di solida calce. Tutte quelle luci assieme non raggiungevano il punto in cui quelle pareti finivano o s’incontravano. La distanza orizzontale fra gli apici della concava parete anteriore e la convessa parete posteriore era di circa 8 metri; la curva del muro posteriore misurava circa 25 metri. Per proseguire l’esplorazione mi occorrevano più luce e la piccozza. Me ne andai giubilante, in una sorta di incantesimo misto alla determinazione di esplorare quella grande, unica, singolare struttura». Tornato all’interno il giorno dopo, Horak lascio scritto: «Andai direttamente verso la parete, e feci scivolare le mie cose oltre la fenditura. Tendendo la lampada sopra un palo, con quattro torce che ardevano, le estremità superiori della struttura restarono ugualmente al buio. Sparai due pallottole in su, parallele alle pareti. Le detonazioni causarono rombi come quelli di un treno espresso, ma nessun impatto fu visibile. Poi sparai un proiettile su ogni parete, mirando circa 15 metri più in alto, e feci scaturire grosse scintille verdi-azzurre e scoppi tali che dovetti tenermi le orecchie fra le ginocchia, mentre delle fiamme danzavano sfrenatamente. Sondai il “pavimento” con la piccozza, e iniziai a scavare dove il calcare era più sottile, nelle corna della mezzaluna. A destra c’era argilla secca; a sinistra mi imbattei nei denti di qualche grosso animale; presi un canino e un molare, e rimisi a posto il resto. Scavando nei pressi, trovai che la parete posteriore aveva, circa 1,5 metri sotto il pavimento, una struttura verticale, finemente scanalata, ondulata. Sembrava più calda della superficie liscia. Appoggiai le labbra e l’orecchio, e l’impressione mi parve giusta. Potei sentire una lieve, distante pulsazione, come quella di un pistone gigantesco. Nel mezzo, il pavimento era troppo spesso per la mia piccozza». Ancora il giorno seguente, «Entrai nell’artefatto per proseguire gli esperimenti. Neanche unendo un palo all’altro, la lampada riuscì a far luce sull’estremità superiore di quelle pareti. Sparai sopra le aree illuminate; ancora una volta, i proiettili fecero sprizzare enormi scintille, con echi assordanti. Sparai alla parete posteriore con effetti simili... scintille, rombi, niente schegge, ma una cicatrice lunga mezzo dito, che emanava un odore pungente. Dopodiché continuai a scavare nel corno di luna sinistro e vidi che la struttura ondulata s’estendeva in basso; ma nel corno destro non trovai alcuna superficie del genere. Lasciai il pozzo per esaminare la parete anteriore e i suoi dintorni. Accanto alle stalattiti c’erano alcune chiazze simili a smalto che, grattate, davano una polvere troppo fine per raccoglierla senza colla. Volli ottenere un campione del materiale delle pareti, ma anche sparando due pallottole nella crepa, sulle indentature, e colpendole, ottenni solo rimbalzi, un fragore di tuono, cicatrici, e lo stesso odore pungente». Il giorno dopo, «Mi sedetti accanto al fuoco a meditare. Cos’era quella struttura, con pareti spesse due metri e una forma che non si adattava ad alcuno scopo oggi noto? Quanto sprofondava nella roccia? C’era dell’altro dietro il pozzo? Cosa o chi l’aveva collocato nella montagna? C’era verità nelle leggende su civiltà con magiche tecnologie che la razionalità non riusciva ad afferrare? Io ero una persona concreta, con un’istruzione accademica, ma dovetti ammettere che laggiù, tra quelle nere e vellutate rupi dalle curve matematiche, mi sentivo nella morsa di un potere strano e sinistro. Potevo capire che uomini semplici, ma intelligenti e pratici come Slavek, vi percepissero della stregoneria, la celassero, e temessero che se l’esistenza di quella cosa fosse mai stata resa nota, avrebbe attratto eserciti di turisti, e tutto il trambusto, le gallerie e le esplosioni, gli alberghi e i commerci, avrebbero probabilmente rovinato la loro onesta vita nella natura». L’ultimo giorno nella caverna, «Incisi il mio nome su una striscia di cuoio, la arrotolai sulla cassa d’oro del mio orologio, e le inserii entrambe in una bottiglia di vetro. La otturai con un sasso e dell’argilla e depositai la testimonianza nell’artefatto. Sarebbe potuta restar lì per lungo tempo, forse finché la struttura non fosse rimasta completamente nascosta dietro la cortina di stalattiti e stalagmiti. Slavek non aveva figli cui narrare del mistero della sua caverna. Entro pochi decenni nessuno avrebbe più saputo, se non fossi tornato a esplorare la struttura. In tal caso, avrei portato un gruppo di esperti votati al segreto: geologi, metallurgisti, speleologi. Sulla via del ritorno dai miei compagni, nascosi i cunicoli che conducevano alla parete; la caverna poteva avere ingressi che Slavek non conosceva, e qualche scopritore accidentale avrebbe potuto scavare in cerca di “tesori” prima che riuscisse a giungervi una spedizione scientifica. Senza lo schema dettagliato della caverna, nessuno ce l’avrebbe fatta a trovare il percorso fino alla struttura. Dopo la fine, portai i denti animali che avevo raccolto dall’artefatto a un paleontologo di Uzhorod, fra Slovacchia e Ucraina, e li classificò come appartenenti a un orso delle caverne adulto, Ursus speleus. Perciò ragionai... la fenditura era troppo piccola; quell’orso sembrava caduto nell’artefatto, che poteva quindi avere un collegamento con la superficie. Negli ultimissimi giorni della II Guerra Mondiale, in cammino per la Boemia, rivisitai il luogo per l’ultima volta. Esaminai il fianco della montagna sopra la caverna e non trovai né cunicoli né pozzi, i presunti collegamenti con l’artefatto. Ma su quei ripidissimi pendii dei Monti Tatra, le frane potevano aver colmato ogni passaggio». Dopo essere sfuggito ai nazisti, Horak scappo dai russi, rifugiandosi all’inizio a Parigi, e dal 1952 negli Stati Uniti, dove insieme alla moglie apri un ristorante e insegno musica e lingue. La sua fantastica storia fu presa maggiormente sul serio quando Horak si confido con un vicino di casa, appassionato di UFO, e questo si mise in contatto col piu famoso ufologo di allora, J. Allen Hynek. «Il Dr. Hynek ed io» racconta un altro ufologo e speleologo di nome Ted Phillips, «copiammo il diario di Horak del 1944. Conteneva schemi dell’artefatto, una mappa della caverna, uno schizzo dell’imboccatura, le montagne dove era situata l’entrata e un disegno dell’area di fronte all’ingresso della caverna, con punti di riferimento facilmente individuabili. Horak, ormai settantenne, ci diede perfino latitudine e longitudine della caverna, pur senza l’accuratezza delle letture del GPS». Nonostante un finanziamento dell’attore Jackie Gleason (che affermava, incidentalmente, di aver visto cadaveri di alieni in una base militare), le condizioni politiche di allora resero impossibile organizzare una spedizione di ricerca, anzi quattro cecoslovacchi assoldati come guide vennero fucilati dai russi come spie! Antonin Horak mori nel 1976. Finalmente, nel 1998, dopo la caduta del regime comunista, Phillips fu in grado di recarsi personalmente in Slovacchia e di incontrare l’ufologo locale Robert Lesniakiewicz, che gli racconto una storia altrettanto formidabile. «L’intera regione fra Cracovia e Zakopane, su quello che è ora il confine fra Polonia e Slovacchia, cadde nelle mani dei nazisti il 6 settembre 1939» narra Phillips. «Entro una settimana, per ragioni mai spiegate, l’area fu posta sotto il controllo diretto delle SS, che cercarono l’ingresso alla Caverna della Mezzaluna nei Tatra, ma non lo trovarono. La questione è: come sapevano le SS della Caverna della Mezzaluna, alcuni anni prima che Antonin Horak vi si nascondesse dentro? È interessante notare che anche i russi avviarono un tentativo di scoprire la caverna nel 1981». I nazisti erano noti per fidarsi di informatori “esoterici”: e possibile che qualche accenno fosse gia stato occultamente tramandato nel corso dei millenni? Comunque, nel 2001 Phillips sembrerebbe aver avuto miglior fortuna: ha affermato, dopo due spedizioni fallite, di aver localizzato la caverna ma di non essere riuscito a spingersi in profondita. Finché non giungeranno sul posto gli esperti auspicati da Horak, il mistero restera tale.
Nella Valle della Morte
Secondo quanto raccontato al Nexus Magazine del dicembre 2003-gennaio 2004 dal ricercatore russo Valery Uvarov, anche nella Yakutia siberiana sarebbero sparpagliate altre strutture metalliche semisepolte nel terreno ghiacciato, chiamate “calderoni”, che potrebbero essere collegate con ulteriori installazioni sotterranee. Il nome che gli indigeni hanno dato alla zona, di oltre 100.000 chilometri quadrati, e... Valle della Morte, proprio come quella degli USA. «Già nel 1853, l’esploratore R. Maak scrisse di “un gigantesco calderone fatto di rame. Le sue dimensioni sono ignote e solo il bordo è visibile sopra il terreno, ma degli alberi ci crescono dentro...” Nel 1936, un mercante di nome Savvinov scoprì un corridoio a spirale, che dava in un certo numero di camere metalliche in cui passò la notte. Anche nel gelo più rigido, nelle camere era caldo come d’estate. Nel 1996 un’altra persona che visitò la Valle della Morte, Mikhail Koretsky di Vladivostok, scrisse sul giornale Trud: “Sono stato lì tre volte, la prima nel 1933, e in tutto ho visto sette di questi calderoni. Tutti quanti mi hanno lasciato totalmente perplesso: innanzitutto, per le loro dimensioni... fra 6 e 9 metri di diametro. Secondariamente, erano fatti di qualche strano metallo. Tutti hanno scritto che erano fatti di rame, ma sono certo che non era rame. Il metallo non si spezza e non cede alle martellate, ed era coperto di uno strato di qualche materiale sconosciuto che somiglia alla carta smerigliata. Non ci imbattemmo in pozzi che scendevano in camere nel sottosuolo. Ma in uno dei calderoni, passammo anche noi la notte, in sei”. Koretsky notò anche che quando visitò un “calderone” una seconda volta, nei pochi anni intercorsi era percettibilmente sprofondato nel terreno». Secondo le leggende locali, i “calderoni” erano attorniati da una vegetazione strana e anormalmente rigogliosa. Chi restava troppo a lungo in un “calderone” perdeva i capelli e contraeva una malattia letale... tutti sintomi che oggi si direbbero causati dall’esposizione alla radioattivita. Finalmente, nel dicembre 2007, la rivista Fortean Times pubblico un articolo di un certo Ivan Mackerle, che, con alcuni compagni d’avventura, s’era recato personalmente sul luogo per indagare. A differenza dei suoi predecessori, Mackerle fece una ricognizione aerea, e affermo di avere effettivamente trovato qualcosa di insolito. «Nel mezzo di un paesaggio monotono c’era uno strano cerchio. Con l’aiuto di un computer e delle immagini di Google Earth, determinammo le esatte coordinate del bizzarro circolo. Non era il liscio emisfero sporgente che tanto ci aspettavamo, ma una rotonda laguna ampia circa 50 metri. Al suo centro stava una chiazza circolare di terreno, con un diametro approssimativo di 30 metri. Non sembrava naturale; era un anello con un’apertura centrale, anch’essa inondata dall’acqua. Sotto la neve e un sottile strato di melma, un’asta colpì qualcosa di solido. Poteva trattarsi di un enorme “calderone”, ormai quasi inabissatosi nel terreno gelato? La neve si sciolse e fummo fortunati ancora una volta. Pochi chilometri più a valle, trovammo un altro posto simile. In una pozza perfettamente circolare, stavolta di soli 10 metri di diametro, stava una cupola liscia, solida, gigantesca e leggermente curva, coperta da uno strato di fango. Sempre con l’aiuto di un’asta, ne sondammo la forma, ma ci mancavano le attrezzature per metterla a nudo. Avremmo dovuto prosciugare l’acqua e rimuovere il fango... e per questo ci sarebbe occorsa una spedizione meglio equipaggiata e finanziata. Poi, inaspettatamente, dopo aver passato la notte presso il “calderone” sommerso, fummo colpiti da inusuali problemi di salute. Il giorno dopo, venni improvvisamente sopraffatto da vertigini, senso di svenimento, completa perdita dell’equilibrio, tosse e brividi… proprio come ammonivano le vecchie leggende della Yakutia. Non riuscii a reggermi in piedi, la vista mi s’offuscò e divenni incapace di mangiare o bere qualsiasi cosa. Quando il giorno dopo le mie condizioni non migliorarono, fuggimmo dalla Valle della Morte più veloci che potevamo». A tutt’oggi, non si ha notizia di ulteriori ritrovamenti.
Articolo di Fabio Feminò
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Articolo di Fabio Feminò
Ingranaggi fatti di... pietra. Tubi. Apparecchi elettrici. Statue ciclopiche. Intere navi. Sono uno dei più grandi misteri della storia. Alcuni affermano che certi di questi manufatti sarebbero già spuntati fuori alla rinfusa da scavi, trivellazioni, caverne e miniere in varie parti del mondo, e lo zoologo Ivan T. Sanderson li battezzò OOPArts, cioè “Out Of Place Artifacts”, che non dovrebbero esistere lì. Infatti, spesso sono incastrati direttamente nella roccia, in strati geologici vecchi di centinaia di milioni o addirittura miliardi di anni, di gran lunga anteriori alla comparsa dell’uomo. In vari libri e siti Internet si trovano elenchi di questi reperti: monete, statuine, vasi, un martello, figurine di dinosauri. Sono sempre gli stessi, al massimo una dozzina, generalmente perché citati nei vecchi libri del mistero di Charles Fort o qualche pubblicazione analoga. Ma di solito, gli unici a occuparsene sono i “Creazionisti” che prendono la Bibbia alla lettera, e che quindi li considerano semplicemente resti di uomini come noi, vissuti prima del Diluvio Universale: poiché il Diluvio avrebbe sconvolto tutto, i Creazionisti non riconoscono la datazione basata sugli strati geologici, e attribuiscono a questi oggetti un’età di appena poche migliaia di anni, o al massimo decine di migliaia. Ma questi ritrovamenti si potrebbero vedere in diversa luce, in base a una nuova teoria formulata da Adam Frank, astrofisico dell’Università di Rochester, e Gavin Schmidt, direttore del Goddard Institute for Space Studies della NASA, centro specializzato in problemi ambientali. Secondo Frank e Schmidt, noi potremmo non essere i primi abitatori intelligenti della Terra, ma potremmo essere stati preceduti da un’intera serie di creature non-umane, forse differenti fisicamente da noi quanto gli artropodi, e con qualche codice genetico totalmente diverso dal DNA. Anche se forse in possesso di tentacoli al posto delle mani, queste creature avrebbero probabilmente fondato civiltà tecnologiche paragonabili alla nostra, consumando risorse e lasciandosi dietro lo stesso tipo di inquinamento. E sono proprio le sostanze inquinanti che potrebbero rivelarne l’esistenza. In un saggio apparso nel maggio 2018 sull’International Journal of Astrobiology, i due scienziati affermano che «Alcune tracce specifiche sarebbero uniche, specificamente molecole sintetiche e plastica. Il fato a lungo termine della plastica nei sedimenti non è chiaro, ma la possibilità che persista e resti individuabile molto a lungo è elevata. L’elemento Plutonio-244 (con una durata di centinaia di milioni di anni) sarebbe percettibile per un lungo periodo come risultato di una catastrofe nucleare. Non esistono fonti naturali di plutonio, tranne le supernove». Finora, non sono state trovate molecole di plastica o atomi di plutonio anteriori all’uomo... ma d’altra parte, nessuno li ha cercati.
La lista di Jochmans
Come già scritto in questa serie di articoli giunta al terzo capitolo, c’è invece stato chi si è imbattuto in testimonianze più concrete di queste remotissime civiltà. Si dice che la fantascienza abbia anticipato qualsiasi cosa, ma che io sappia, esiste un solo racconto di science fiction su questo tema, e cioè La stella di sotto, pubblicato nel 1968 da Damon Knight. In questa storia, un ragazzo di una tribù primitiva s’infila in una caverna e vi trova un colossale magazzino delle testimonianze di un’avanzatissima civiltà perduta, come una brocca che si colma d’acqua da sola e una scatola parlante e senziente, che fa apparire delle visioni. Purtroppo, gli OOPArts ritrovati fino ad oggi sembrano essere meno spettacolari di quelli immaginati nel racconto... ma altrettanto enigmatici e inesplicabili. L’unico ad averne compilato una lista sistematica fu lo scrittore americano Joseph R. Jochmans, purtroppo morto per problemi cardiaci una decina d’anni fa. Il suo elenco era ben più lungo di quelli attualmente disponibili sul Web, e includeva ben 220 tra manufatti e loro impronte rimaste nella roccia, partendo dalla remota antichità umana... intorno a 10.000 anni or sono... fino a centinaia di milioni o addirittura miliardi di anni, prima che sulla Terra si sviluppasse la vita quale noi la conosciamo. Per giunta, poiché molti dei ritrovamenti si riferiscono a oggetti multipli o addirittura in quantità enorme, il numero totale degli OOPArts potrebbe essere perfino incalcolabile! Di ognuno era fornita la datazione in base alla geologia. I suoi testi completi, venduti per corrispondenza, non sono più disponibili, ma un altro studioso (pur non essendo interessato all’argomento) mi ha indicato che le anteprime messe su Internet da Jochmans per stuzzicare la curiosità sono ancora in parte rintracciabili tramite il sito archive. org e la sua “Wayback Machine”, anche se si tratta di un’impresa altrettanto faticosa di mettersi a scavare nella Terra stessa. La lista degli OOPArts decisamente anteriori all’uomo comincia da pietre finemente lavorate venute fuori, in superficie o da enormi profondità, nei posti più disparati. Nel novembre 1829, presso Filadelfia, l’American Journal of Science and Arts narra che fu estratto un blocco di marmo: quando lo tagliarono in lastre, rinvennero all’interno una cavità rettangolare di circa 4 centimetri per 2. In essa c’erano due minuscole lettere perfettamente geometriche, I e U, a rilievo. Jochmans le fa risalire al Cambrio-Ordoviciano, con 500-600 milioni di anni sul groppone. Il periodico The Geologist dell’aprile 1862 riferì che in Francia era stata rinvenuta nel carbon fossile una perfetta sfera di gesso. «Quanto alla roccia in cui è stata trovata, si può affermare che è perfettamente vergine, e non presenta la minima traccia di alcun antico sfruttamento. Il tetto della cava era egualmente intatto in quel luogo, e non vi si riuscivano a vedere né fessure, né altre cavità da cui poter supporre che questa palla fosse piovuta giù dall’alto». Sempre Jochmans le attribuisce 50 milioni di anni. La compilazione di testi circostanziati fu interrotta dalla sua scomparsa. Dagli appunti di Jochmans rimasti veniamo comunque a sapere che coni e cilindri d’ossidiana, dallo scopo ignoto e reputati da Jochmans vecchi di 520 milioni di anni, corrispondenti al periodo Cambriano, spuntarono fuori in Groenlandia nel 1896; forme geometriche metalliche apparvero in Giordania presso Amman (periodo Siluriano, 440 milioni di anni) e un immenso numero di ottaedri finemente decorati vennero reperiti nello Yukon, in Canada, nel 1933. Su questi, fece in tempo a spiegare qualcosa di più: «Un esame ravvicinato mostra che le superfici ottaedriche sono metalliche, e al microscopio il metallo sembra deliberatamente intagliato e lucidato, con i segni degli attrezzi ancora visibili. Per di più, ben pochi degli ottaedri sembrano uguali. Tutti quanti sono alti e larghi meno d’un centimetro e mezzo, eppure le loro sei punte, dodici bordi o otto facce hanno curiose aggiunte e sottrazioni, che si ripetono uniformemente. Ci sono strane protuberanze metalliche, stellazioni, tacche, apici smussati o tronchi, fori e spigoli sfaccettati... tutti fatti in base a uno specifico disegno. Test compiuti sull’ignoto metallo mostrano che gli artefatti conducono l’elettricità e sono parzialmente magnetici. Ma per cosa mai potevano essere usati?».
Ritrovamenti improbabili
Il primo a scoprire i minuscoli oggetti incorporati nello gneiss fu un guidatore di slitta, certo Slim Williams, che ne cedette alcuni alla Smithsonian Institution. Di questi non esiste più traccia, ma Williams ebbe il buonsenso di tenerne altri per sé. Inoltre, gli oggettini erano sparpagliati in un’area così vasta da essere ritrovati da molte altre persone: una guardia a cavallo canadese di nome Arthur B. Thornthwaite, il geologo Hugh Bostock, e vari esploratori, finché non trovarono la via della rivista National Geographic nel marzo 1935. Dell’enorme numero di campioni recuperati, la maggior parte sono andati dispersi, ma alcuni sarebbero custoditi all’Institute of Geographical Exploration dell’Università di Harvard, e in collezioni private. Jochmans li fa risalire addirittura al periodo Adeano, 3,9 miliardi d’anni or sono. Nel 1572, all’interno di un macigno spezzato a martellate, fu trovato in Perù un chiodo di ferro lungo 15 centimetri. Il ferro era sconosciuto agli indigeni, e Jochmans afferma che avesse da 75.000 a 100.000 anni. Nel 1826, nell’Ohio, a circa 30 metri di profondità, fu dissepolta da un pozzo un’ascia di ferro ancora conficcata in un tronco d’albero. Nel 1844, un altro antichissimo chiodo fu trovato nell’arenaria di una cava presso Kingoodie, in Scozia. L’Illinois Springfield Republican raccontò nel 1851 di un ennesimo chiodo trovato in California. «Hiram de Witt, di questa città, che è recentemente tornato dalla California, portò con sé un pezzo di quarzo aurifero, circa delle dimensioni del pugno di un uomo. Il Giorno del Ringraziamento lo tirò fuori per esibirlo a un amico, quando cadde sul pavimento e si aperse in due. Presso il centro della massa fu scoperto, saldamente incastonato nel quarzo e leggermente corroso, un chiodo di ferro della lunghezza di 5 centimetri. Era interamente diritto e aveva una testa perfetta. Da chi è stato fatto questo chiodo? In che periodo fu piantato nel quarzo ancora non cristallizzato? Come andò a finire in California? Se la testa di quel chiodo potesse parlare, sapremmo della storia americana qualcosa in più di quello che probabilmente mai conosceremo». Una storia lunga fino al Giurassico, dato che Jochmans gli affibbia 150 milioni di anni. Un anno dopo, nel 1852, The Proceedings of the Society of Antiquaries of Scotland descrisse la scoperta, in un pezzo di carbon fossile, di qualcosa che sembrava la punta di un trapano. Nel 1865, fu la volta di una vite di 5 centimetri, finita in un pezzo di feldspato a Treasure City, Nevada. Le scanalature erano ancora chiaramente visibili. Jochmans la ritiene vecchia di 20 milioni di anni, risalente al Miocene. «Un altro mistero risalì dal sottosuolo dell’Illinois » scriveva Jochmans. «Nel 1851, nella contea di Whiteside, la trivellazione di un altro pozzo portò su da uno strato di sabbia profondo 40 metri due manufatti di rame: quello che sembrava un uncino, e un anello». Jochmans gli dà “solo” 200.000 anni d’antichità.
La Mecca degli OOPART
Uno dei più studiati e citati oggetti metallici inglobati direttamente nel carbon fossile è un piccolo pezzo di ferro, erroneamente chiamato “cubo di Gurlt” ma in realtà quasi del tutto informe, che misura 67 per 67 per 47 millimetri e pesa circa 785 grammi, scoperto nell’autunno 1885 in una fonderia a Vocklabruck, in Austria. È anche uno dei pochi misteri sotterranei tuttora esposti in un museo. L’11 novembre 1886 fu menzionato per la prima volta da Nature. Creduto all’inizio un meteorite, l’unica cosa che si sa per certo è che è artificiale, forse realizzato con uno stampo... ma a che scopo, non si può immaginare. A differenza dei reperti citati prima, è troppo irregolare per aver fatto parte di un congegno meccanico, o per qualsiasi altro utilizzo pratico. Jochmans lo fa risalire al periodo Terziario... 60 milioni di anni. Di forma più regolare sarebbe invece una barra di ferro trovata sempre nel carbone in Scozia nel 1852. Ma la vera mecca degli OOParts inglobati nel carbon fossile sono gli Stati Uniti, dove «Un numero del 1883 dell’American Antiquarian riferì la scoperta di un oggettino metallico trovato incorporato in carbone dell’Oligocene Superiore, datato 30 milioni di anni. Più specificamente, l’esemplare lungo circa 2 centimetri e mezzo era fatto d’una lega metallica irriconoscibile ma estremamente durevole, e sembrava una piccolissima “coppa” cilindrica chiusa ad un’estremità e aperta all’altra, che calzava alla perfezione su un pollice umano. Gli abitanti dell’Ohio lo denominarono “ditale di Eva”, e si dice che la sua impronta nel carbone in cui era incapsulato sia sopravvissuta per alcuni decenni, prima di disintegrarsi per essere stata maneggiata troppo. Sfortunatamente, anche il “ditale” preistorico è scomparso, e tutto quel che ne resta è l’originale resoconto ufficiale e pochi ritagli di giornale dell’epoca ». Ancora nel carbone fu trovato un piccolo vaso rotondo di ferro, di diametro fra 12 e 15 centimetri, più stretto alla base e più largo in cima. Lo scopritore, Frank J. Kenwood, lasciò nel 1948 un resoconto giurato: «Mentre lavoravo all’Impianto Elettrico Municipale di Thomas, Oklahoma, nel 1912, mi imbattei in un solido blocco di carbone troppo grosso per usarlo. Lo ruppi con una mazza. Questo vaso di ferro cadde dal centro, lasciando l’impronta, o lo stampo, in un pezzo del carbone. Il mio collega Jim Stull assistette alla frantumazione del carbone, e vide il vasetto cader fuori. Rintracciai la fonte del carbone, e scoprii che veniva dalle miniere di Wilburton, Oklahoma ». Dopo molti andirivieni, il ritrovamento fu annunciato solo dal Creation Research Society Quarterly nel 1971. Origine dichiarata da Jochmans, ovviamente il Carbonifero, 320 milioni di anni. Nel 1937 un’altra donna trovò nel carbone un cucchiaino. Nel 1944, in West Virginia, a uscire dal carbone fu una campanella dalla lunga impugnatura, fatta con un’inusuale lega d’ottone. È ancora in possesso dello scopritore, tale Newton Anderson, e Jochmans non si risparmia, attribuendole 325 milioni di anni.
Impronte sospette
Nel febbraio 1954, la rivista Coal Age rivelò che l’anno prima, in un giacimento di carbone di Wattis, Utah, i minatori non avevano trovato niente di strano... tranne il fatto che ancora una volta, come nel caso dei cavapietre francesi del 1820, erano stati preceduti. Qualcun altro aveva scavato a 2 chilometri e mezzo sotto una montagna dei tunnel alti e larghi un paio di metri. In superficie non esistevano più tracce degli ingressi: l’erosione li aveva cancellati. «Stando alla testimonianza degli ingegneri minerari, il carbone era di tale antichità da essere stagionato fino a diventare inutile, non più in grado di bruciare o produrre calore. Secondo i minatori, c’erano non solo gallerie ma anche stanze sotterranee». Il libro Dead Men’s Secrets, di Jonathan Gray (1988), menziona la scoperta, nell’odierna Repubblica Dominicana, di un’antichissima miniera d’oro profonda ben 4800 metripiù del massimo raggiunto da quelle odierne. In un’altra miniera di carbone dell’Illinois, nel 2007, furono scoperti i fossili di una foresta di felci di 300 milioni di anni fa... felci del tutto ordinarie, tranne per un piccolo dettaglio: qualcuno le aveva potate in forme regolari, come noi facciamo con le siepi. «Nel 1992» scrisse ancora Jochmans «un rapporto annuale del Texas State Geological Survey descrisse una bizzarra scoperta fatta a Dinosaur Flats, un’area che presenta letti di fossili e tracce di sauri che affondano in calcare del Tardo Cretaceo risalente a 70 milioni di anni fa. La “bizzarria” in questione è una serie di impronte regolarmente spaziate di una ruota dentata, che corrono lungo impressioni di zampe di dinosauro a tre punte, nel corso di alcuni metri. Le dentellature sono precisamente distanziate l’una dall’altra, a poco meno di 20 centimetri di distanza, troppo perfette per essere d’origine naturale. La micro- stratificazione della superficie rivela inoltre che il sauropode aveva attraversato quel luogo per primo... e che la ruota dentata lo seguiva da presso, parallela ai passi dell’animale, come se lo inseguisse. Il misterioso ingranaggio faceva parte di un grande ignoto automa meccanico che stava dando la caccia al dinosauro? Comunque, bastano le nette e regolari impronte dei suoi denti a indicare che qualcosa di metallico si muoveva attraverso i pianori... e poteva solo essere il prodotto di una società meccanizzata ». Dopotutto, può darsi che i creatori del robot considerassero i sauroidi un’ottima fonte di proteine a basso prezzo! Citando non meglio specificati scienziati russi, il libro Gods of Air and Darkness, di Richard A. Mooney (1975) afferma che «Alcune scoperte di scheletri di dinosauri sembrano indicare, giudicando dalla natura delle fratture e la posizione delle ossa dello scheletro, che furono uccisi con l’uso di esplosivi ad alto potenziale ». In seguito, quando sulla Terra comparvero i primi uomini, questi potrebbero essersi imbattuti in qualche rottame di robot pre-umano di milioni d’anni prima. «Nel 1888» prosegue Jochmans, «giornali scientifici americani ed europei riferirono la scoperta lungo la valle del fiume Santa Ana nella Ventura County, California, di una dozzina d’ingranaggi di pietra del diametro medio di 16,5 centimetri. La loro posizione geologica gli attribuì quasi 60.000 anni di età. La cosa curiosa di questi esemplari è che i loro rozzi denti combaciano assieme, e sembrano imitare autentici meccanismi a ruota dentata. Gli ignoti artigiani di Santa Ana vennero forse in contatto con una tecnologia più avanzata che esistette prima di loro sul pianeta?».
La sfera dell’Arizona
Fra altre delle storie più incredibili vi sono quelle del disseppellimento di monili e altri oggetti preziosi, come una sfera d’argento puro al 99%, del diametro di 22 centimetri, spuntata fuori a Globe, Arizona, nel 1875. La leggenda vuole che sia stato proprio questo “globo” a dare il nome alla cittadina. La zona era famosa proprio per le ricche miniere d’argento, ma la particolarità di questa sfera è che sulla sua superficie era inciso un mappamondo di 45 milioni di anni fa, risalente all’Eocene! E oggi, il simbolo di Globe è proprio un planisfero... Stando al solito Jochmans, «disegni apparsi sui giornali dell’epoca mostrano che sulla sfera erano raffigurati i continenti del mondo... ma non come oggi... e minuscole figure di animali da lungo tempo estinti, collocati nei rispettivi habitat. La costa occidentale del Nordamerica veniva mostrata prima che s’innalzassero le Montagne Rocciose. Laghi occupavano il Colorado, il Wyoming e lo Utah. Il sudest degli Stati Uniti appariva sott’acqua, ma il New England si protendeva nell’Atlantico ed era congiunto al Newfoundland, il Labrador e la Groenlandia. Quello che è ora il Golfo del Messico si spingeva ad ovest fino all’Arizona, dove venne trovato l’argento. Quell’area doveva essersi trovata su una costa. Sia l’Artide che l’Antartide sembravano totalmente libere dai ghiacci. Il Sudamerica non appariva molto differente da quello odierno, eccetto per il fatto di essere separato dal Centroamerica da una grande distesa d’acqua. L’Africa e la penisola arabica erano unite insieme, e al posto del Mediterraneo di oggi c’era quello che i geologi chiamano Mar Tetide, che dall’Atlantico sfociava direttamente nell’Oceano Indiano. (...) L’Himalaya era visibilmente assente. Asia sudorientale, Taiwan e Giappone insieme s’estendevano profondamente nel Pacifico, mentre l’Australia e le Indie Orientali formavano un’unica massa di terra. (...) Gli animali erano soprattutto piccoli mammiferi come i progenitori degli orsi e degli elefanti, nonché delle scimmie e altri primati. A fare la loro comparsa c’erano anche quelli che sembravano tapiri, rinoceronti, cammelli, roditori, incluso un minuscolo Eoippo con le dita, antenato di tutti gli equini esistenti. C’era un’unica figura di un Gastornis, un grande uccello incapace di volare. Creature che recano qualche somiglianza con delfini e balene erano raffigurate camminare sulla terra. Venivano inseguite da creodonti, carnivori dai lunghi denti, e da cynodictis, gli antenati del cane moderno. C’erano due notevoli esempi di strane sincronicità. Per prima cosa, nelle acque sommerse di quelli che sono oggi gli USA sudorientali, era immortalata una creatura simile a una balena, non diversa dall’estinto basilosauro. Nel maggio 1983, proprio un fossile del genere fu scoperto presso Savannah, Georgia, nella stessa posizione di quel cetaceo preistorico. In Sudamerica, dov’è situato oggi il Perù, il globo d’argento mostrava quel che sembrava un grosso pinguino. Nel 2005... 130 anni dopo che il globo fu dissotterrato... geologi peruviani trovarono il fossile di un pinguino gigante, che una volta superava il metro e mezzo d’altezza. Un quotidiano dell’Arizona di quel periodo attribuì al globo d’argento un valore di $12.000. (...). Sfortunatamente, l’oggetto scomparve intorno alla fine del secolo, venduto a un collezionista privato il cui nome o domicilio restano sconosciuti fino ad oggi».
Ritrovamenti d’oro
Nel 1844, il 22 giugno, il Times di Londra rivelò che dei cavapietre avevano dissotterrato un filo d’oro nella roccia sempre in Scozia, a due metri di profondità. Jochmans gli dà 320-340 milioni di anni. Cinquant’anni anni dopo, un altro pezzo di filo fu estratto dall’arenaria in Australia, mentre nel 1957, in Africa, ne vennero trovati ancora incastonati nel granito. Secondo quanto riportato il 13 settembre 2002 dal quotidiano russo Pravda, nel 1977 furono ritrovati altri fili in un campione di ghiaccio dell’Antartide risalente a 20.000 anni fa. «Il pezzo di ghiaccio si sciolse presto, e potemmo vedere dei fili dorati lunghi circa 2 cm e dello spessore di un capello umano. I “capelli” erano fatti di qualche metallo, avevano tutti la stessa lunghezza ed erano tagliati molto accuratamente. L’Istituto di Cristallografia dell’Accademia delle Scienze Sovietica condusse un test dei filamenti, e concluse che il materiale era una lega d’oro e argento. Dev’essere notato che nel 1984 sulla stampa apparve un rapporto secondo cui anche ricercatori USA avevano indipendentemente trovato fili dorati nel ghiaccio antartico». Un altro dei ritrovamenti più citati fu annunciato l’11 giugno 1891 dal Morrisonville Times dell’Illinois. «Un curioso oggetto è stato portato alla luce da Mrs. S. W. Culp la mattina di martedì scorso. Mentre stava spezzando un blocco di carbone, scoprì, quando questo s’aprì in due, incorporata in forma circolare una catenella d’oro di circa 25 cm di lunghezza, di antica e singolare fattura. Dapprima Mrs. Culp pensò che la catenina fosse stata fatta cadere accidentalmente nel carbone, ma quando si accinse a raccoglierla, l’idea che fosse caduta di recente fu subito resa fallace. Infatti il blocco s’era spaccato quasi nel mezzo, e la posizione circolare della catena collocava le due estremità l’una vicina all’altra, e quando il blocco si divise, il tratto centrale della catena divenne libero, mentre entrambi i capi rimasero inglobati nel carbone. Si suppone che il blocco di carbone da cui è stata presa la catena venga dalle miniere di Taylorville o di Pana e vien quasi da mozzare il fiato al pensiero di quante lunghe ere la Terra abbia trascorso a formarsi, strato dopo strato, fino a celare il monile alla vista. La catena era d’oro ad 8 carati e pesava 124 grammi». Alla morte della signora Culp, nel 1959, la catenina passò a un parente e non è più rintracciabile. Jochmans le attribuisce 250-320 milioni di anni, fino al Triassico. Sbalorditivamente simile è una storia proveniente da Beckley, West Virginia: nel 1985 a uscire dal carbone sarebbe stata una collanina placcata d’oro con un’alternanza di anelli più grandi e più piccoli, e un fermaglio per chiuderla. 125 milioni di anni, in pieno Cretaceo, per finire!
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Articolo di Fabio Feminò
Oggi il mondo è ossessionato dal riscaldamento globale causato dall’immissione di carbonio nell’atmosfera, che, secondo gli ambientalisti, dovrebbe far sollevare il livello degli oceani e porre fine alla nostra odierna civiltà. Be’, se può essere di consolazione, in un saggio apparso nel maggio 2018 sull’International Journal of Astrobiology, due scienziati hanno ipotizzato che questo sia già avvenuto milioni di anni fa... e non per cause naturali. Si tratta di Adam Frank, astrofisico dell’Università di Rochester, e Gavin Schmidt, direttore del Goddard Institute for Space Studies della NASA. L’istituto si è specializzato proprio in studi ambientali, e per questo motivo i due studiosi si sono divertiti a immaginare la possibilità che l’inquinamento atmosferico sia già stato causato, in un remotissimo passato, da un’intera serie di specie non-umane apparse sulla Terra prima di noi, ognuna delle quali con la propria civiltà avanzata. Frank e Schmidt affermano di aver preso ispirazione dalla fantascienza. «Abbiamo chiamato la nostra teoria “Ipotesi Siluriana”» scrivono «ispirandoci a un episodio del 1970 della serie televisiva Doctor Who». Poiché il Dottore viaggia nel tempo a suo piacimento, l’episodio descriveva un’antichissima razza di rettili intelligenti chiamati appunto “Siluriani”. Se creature paragonabili sono davvero esistite, la loro stirpe deve aver inquinato almeno quanto la nostra, e il saggio fa notare che la scienza offre degli indizi. «Almeno dal Carbonifero (300-350 milioni d’anni fa), ci sono stati sufficienti combustibili fossili per alimentare una civiltà industriale paragonabile alla nostra. È stato dimostrato un brusco picco globale dei livelli di carbonio nella transizione fra Paleocene ed Eocene (56 milioni di anni or sono), insieme all’estinzione del 30-50% delle specie. Nei 6 milioni di anni successivi, si verificarono almeno altri quattro picchi. Le conseguenze più evidenti furono “massimi termici” in cui le temperature s’alzarono di 5-7 gradi. Intorno a 40 milioni di anni fa, si verificò un ennesimo brusco riscaldamento. Ci sono indubbie similitudini tra questi eventi improvvisi riportati dalla geologia, e la probabile firma dell’Uomo nei tempi a venire. Inoltre, ci sono prove che l’emissione del carbonio sia stata di origine biologica».
Gli OOPART e la corsa all’oro
Frank e Schmidt non si spingono a esulare dal loro campo, ma l’esistenza di razze pre-umane potrebbe essere corroborata anche da inesplicabili ritrovamenti archeologici verificatisi sparsamente in tutto il mondo. Lo zoologo Ivan T. Sanderson li battezzò OOPArts, cioè “Out Of Place Artifacts”, oggetti che sembrano anteriori alla comparsa dell’Homo sapiens sulla Terra. I Creazionisti biblici li considerano realizzati da uomini vissuti prima del Diluvio Universale, dato che la Bibbia non fa alcuna menzione di creature preumane. Per cominciare, ci sono i ritrovamenti di oggetti di pietra e di metallo, che in effetti sembrerebbero attribuibili a uomini primitivi, pur se molto più antichi di quanto comunemente si creda. Nel 1820 The American Journal of Science and Arts raccontò che due anni prima, in Francia, in una cava di Aix-en-Provence, a 15-20 metri sotto la superficie, gli operai si accorsero che... qualcuno li aveva preceduti. Trovarono resti di attrezzi di legno pietrificati, gli stessi che usavano loro. Lo studioso Joseph R. Jochmans li fa risalire all’Oligocene, 24-36 milioni di anni fa. «A metà dell’800» scrisse Jochmans, che di OOPArts fu forse il massimo esperto mondiale, «i cercatori d’oro americani cominciarono a scavare tunnel nella Table Mountain, a nordovest di Needles, California. Nel 1853, Oliver W. Stevens giurò di aver rimosso un grande catino di pietra dal tunnel più profondo; e nel 1862, Mr. Llewellyn Pierce trovò un pestello di pietra a 70 metri di profondità nello stesso pozzo. Nel 1863, un medico di nome R. Snell rinvenne un disco di pietra che sembrava esser stato usato come macina». Quanto ai resti di legname (che senza dubbio dev’esser stato un’importante risorsa anche per le civiltà pre-umane), «Nel 1989, l’archeologo israeliano Naama Goren-Inbar riferì sul Journal of Human Evolution che in un luogo della Valle del Giordano aveva scoperto un’asse pietrificata di legno di salice, che misurava 25 cm di lunghezza per 12 di larghezza. La tavola era estremamente lucida da un lato, senza segni di attrezzi, ma aveva un bordo completamente dritto, smussato artificialmente. Le fu data un’età di mezzo milione di anni».
Misteri dell’Africa
Jochmans, pur senza avere credenziali scientifiche, raccolse un elenco di OOPArts formidabile, datandoli scrupolosamente. Ma esistono anche altre fonti, come giornali d’epoca e, negli ultimi anni, siti Internet. Passando agli oggetti chiaramente anteriori all’avvento dell’uomo e frutto di tecnologie avanzate, e che quindi vengono ignorati perfino dai Creazionisti, alcuni dei più celebri sono stati rinvenuti in Sudafrica e tuttora esibiti in un museo: si tratta di centinaia di enigmatiche sferette metalliche trovate nel corso dei decenni, menzionate spesso in pubblicazioni popolari e scientifiche. Si dice che siano formazioni naturali, ma è interessante anche la descrizione apparsa sulla fanzine Shavertron, dedita ai misteri sotterranei. «Le sfere, da 2,5 a 10 cm di diametro, sono state rinvenute alla Wonderstone Mine del Transvaal. Chi ne ha spezzate alcune ha scoperto che un tipo conteneva una sostanza spugnosa che si polverizza rapidamente al tocco. L’altro tipo era di solido metallo, azzurro con una tinta rossastra e contenente granuli di fibra bianca. Non hanno irregolarità e intorno al centro di alcune corrono tre solchi... simili alle cuciture di una palla da cricket. Roelf Marx, curatore del museo di Klerksdorp, fu sbalordito quando esibì una delle sfere con campioni di altre rocce. Dopo qualche mese scoprì che la sfera ruotava su se stessa. Marx non poté crederci e continuò a osservare. Abbastanza sicuro, la pallina era in grado di girare sul proprio asse. “Non ho spiegazione” dice Marx. “La sfera lascia tutti perplessi. Sembra fatta come in uno stampo”. Il geologo Andries Bisschoff afferma: “Non so perché ruotino... niente in natura potrebbe farle comportare così”. Le palline sono state tutte rinvenute nello stesso strato del minerale pirofillite. Calzano nella mano come se fossero state progettate apposta ». Come se non bastasse, si afferma che sarebbero così delicatamente equilibrate da sfidare gli strumenti della NASA, e producibili solo a gravità zero! Jochmans le data al periodo Archeano, da 2,8 a 3,2 miliardi di anni fa. L’Africa ha prodotto anche altri degli OOPArts più strani, come degli “alberi” fatti con una lega d’oro, con “rami” dalle forme squadrate e grandi foglie piatte come monete, rinvenuti nella roccia in Namibia nel 1899. Dato che la Namibia era allora un possedimento germanico, la scoperta fu fatta dall’ingegnere idraulico tedesco Theodor Rehbock e confermata da sei geologi. «In una località non identificata» scrisse Jochmans, «da alcune superfici rocciose si protendevano quelli che sembravano rami di alberi fossili. Ma un esame più attento rivelò che i rami luccicanti erano composti da una lega d’oro non identificata ma molto resistente. I prospettori furono in grado di ricostruire le sagome di alcuni “alberi” d’oro, che avevano chiaramente un tronco centrale, rami, e anche “foglie” circolari, e che insieme costituivano oggetti artistici artificiali, con uno schema geometrico. Ogni albero incapsulato era alto circa un metro e 20, con rami che s’estendevano fino a coprire un’area di 0,75 metri quadrati d’ampiezza. Il gruppo di tedeschi non osò scalpellare e rimuovere gli esemplari, rendendosi conto che i manufatti sarebbero crollati in pezzi e andati perduti per sempre. Furono scattate sul luogo fotografie da molti angoli diversi, e il gruppo fece dei disegni nel tentativo di ricostruire l’aspetto originale degli oggetti. Da quanto se ne sa, questi esemplari sono ancora laggiù. Il problema è che la loro posizione esatta non fu mai fissata con precisione, perché gli strumenti topografici di quell’epoca erano inaccurati. Quel che sappiamo per certo è che le note originali e le lastre fotografiche finirono nella collezione del Museo di Storia Naturale di Bulawayo, che aprì le sue porte al pubblico nel 1901». Jochmans, che fa risalire gli oggetti all’Archeano, 350 milioni di anni or sono, ipotizza addirittura che gli alberi non fossero ornamentali, ma che la disposizione di rami e foglie costituisse diagrammi di frasi di un linguaggio perduto, e che ogni albero rappresentasse... una pagina. Quali messaggi lasciati ai posteri potevano racchiudere? Non lo sapremo mai. Nel 1898, sempre nell’Africa meridionale e precisamente nella Namibia tedesca, furono ritrovati nel Kalahari cubi di un metallo sconosciuto, disposti a comporre delle forme... come mattoncini del Lego. Stavolta i minuscoli oggetti furono portati in Germania, all’Accademia di Dresda, dove vennero analizzati e radiografati. «Tragicamente» raccontò Jochmans, «tutto il lavoro di ricerca, inclusi i campioni stessi, fu distrutto durante il bombardamento Alleato di Dresda, la notte del 13 febbraio 1945. L’Accademia fu ridotta in cenere, e ci restano solo descrizioni e schizzi fatti da studiosi che esaminarono i reperti oltre 70 anni fa, e conservati nella biblioteca del Museo di Mineralogia e Geologia della Dresda attuale. Una serie di disegni mostra innaturali formazioni cubiche nella roccia ignea, simili a scatole aperte a un’estremità e impilate l’una in cima all’altra, in file orizzontali e verticali di quattro. Ogni scatola misurava da 0,15 mm a 8 mm di larghezza e altezza. Descrizioni degli studi dicono che i cubi sembravano fatti a macchina, in modo regolare e preciso, e composti di un metallo duro e resistente che l’analisi chimica non riuscì a identificare. Diversi esemplari simili erano stati raccolti da differenti località in varie occasioni, in tutta la Namibia. Comunque, quelli meglio preservati vennero rinvenuti a sudest della Walvis Bay nel 1898. I disegni raffigurano le formazioni cubiche parzialmente incapsulate nelle rocce, e si dice che le prime radiografie eseguite illustrassero il resto delle reliquie incastrate in profondità. Uno studio al microscopio degli enigmatici cubi, svolto solo due anni prima del bombardamento di Dresda, rivelò che erano stati minuziosamente lucidati. Gli ingegneri del Terzo Reich s’interessarono agli artefatti vecchi di eoni, sperando forse di applicare l’inesplicata durezza e inalterabilità degli oggetti ai propri ordigni bellici. Ma la scomparsa di Dresda in un mare di fuoco e la fine della guerra portarono le loro indagini ad un’inconcludente interruzione». Datazione di Jochmans: sempre Archeano, 3,7 miliardi di anni.
Spedizione in Indonesia
Dopo aver menzionato «sfere scolpite contenenti nuclei di quarzo», trovate a Oamaru, Nuova Zelanda, e «miscellanei contenitori in ceramica» originari del Mato Grosso, in Brasile, cui attribuisce 135-140 milioni di anni, in pieno Cretaceo, Jochmans dà maggiori dettagli su una spedizione olandese sull’isola di Giava, in Indonesia, capeggiata dai professori P. J. Veth, C. M. Kan e P. van der Velde, che nel 1877 scoprì presso il fiume Solo altri antichissimi esempi di parti meccaniche sconosciute, forse pezzi di un unico grande congegno. Alcuni esemplari furono portati ad Amsterdam, ma altri erano così pesanti che vennero nuovamente seppelliti sul posto. Non si conosce il luogo esatto, e anche il materiale giunto in Olanda andò perduto quando Amsterdam fu rasa al suolo dai bombardieri tedeschi all’inizio della II Guerra Mondiale. Tutto quel che ne resta, secondo Jochmans, è un rapporto oggi custodito negli Archivi Reali olandesi, secondo cui si trattava di «colate fossili di un plastoide simile al cemento» profondamente infisse nella roccia, e descritte come «costruzioni ben conformate ma di aspetto alquanto bizzarro, che appaiono di natura quasi meccanica, ma il cui scopo ci è totalmente incomprensibile». Ancora una volta, gli scienziati e i disegnatori descrissero «stampi di unità base cilindriche e poligonali, con molteplici flange, protuberanze, sporgenze geometriche e altri strani componenti supplementari ». Tuttavia, non pareva esserci alcuna parte mobile, e i disegni sopravvissuti sembrano raffigurare qualche tecnologia superiore alla nostra attuale comprensione risalente al Pleistocene, 1,5 milioni di anni fa. Tutte queste storie fanno venire in mente una nota barzelletta del fisico nucleare Leo Szilard, secondo cui dopo una guerra atomica, le uniche reliquie della nostra attuale civiltà sarebbero state le tazze dei gabinetti, ed extraterrestri giunti dopo la catastrofe non sarebbero mai riusciti a immaginarne l’uso...
Le rotaie impossibili
Tornando a luoghi più vicini a noi, Jochmans racconta che «Il 13 giugno 1880, un reporter dell’Inverness Courier di nome Walter Carruthers era in vacanza presso le Victoria Falls, in Scozia, ed essendo un collezionista di minerali, decise di esplorare la zona. Qualche centinaio di metri sopra le cascate, Carruthers notò bizzarre impressioni nella roccia. Si trattava di arenaria risalente all’era Cambriana. Le impressioni consistevano di due continue strisce piatte fianco a fianco, ampie circa 3,8 cm e profonde 65 millimetri, che correvano innaturalmente diritte per 5 metri, interrotte solo dall’erosione. Poche settimane dopo le curiose “strisce” furono osservate anche da William Jolly, ispettore scolastico della regione. Jolly notò che “Non c’è nient’altro cui assomiglino, tranne l’impronta lasciata da doppie rotaie di ferro piazzate insieme”. L’osservazione di Jolly fu corroborata anni dopo, quando frammenti di ruggine vennero tratti dalle cavità». Jolly trovò anche altre impronte nella stessa località, di varia lunghezza ma sempre parallele. «A che scopo servissero queste rotaie metalliche, possiamo solo indovinarlo. Quel che sappiamo, comunque, è che tutte le strisce erano perfettamente uniformi in larghezza e spessore, con bordi squadrati... il che indica una laminatura di precisione, con dei macchinari. Ma questo sembrerebbe impossibile, perché l’arenaria in cui riposano è antica di 600 milioni di anni. Chi mai dirigeva una ferriera, in un’epoca dove si suppone che solo minuscoli invertebrati dominassero il mondo?»
Viaggi nel tempo a Montauk
Un caso più recente collega i misteri del sottosuolo a quelli odierni. Si dice che esperimenti di viaggio nel tempo siano proseguiti per decenni in una base militare a Montauk, nello stato di New York. Ebbene, un ritaglio di giornale del 1990 riferisce che proprio durante scavi condotti da quelle parti, riapparvero altri giganteschi componenti metallici coperti da indecifrabili geroglifici. Jochmans gli attribuisce 65.000 anni di età, “appena” nel Pleistocene. L’articolo, accompagnato da una foto, concludeva asserendo che «investigatori non identificati hanno rimosso gli oggetti, portandoli in una località non rivelata, e da allora nessuno li ha più visti». Be’, dove dovrebbero averli trasportati, se non nella stessa base? E magari, se davvero laggiù si effettua il viaggio nel tempo come in Doctor Who, potrebbero aver inviato un emissario fino all’epoca dei loro fabbricanti... Gli archivi di Jochmans accennano che presso Salt Lake City, Utah, nel 1929, furono dissotterrati non meglio specificati artefatti di una lega di nichel e acciaio. 500 milioni di anni, periodo Ordoviciano. A partire dagli anni ’70, sempre in varie località dello Utah sono stati rinvenuti enigmatici tubi di ferro arrugginiti, incapsulati nell’arenaria. Jochmans decreta: Giurassico, 160 milioni di anni. Nel 2000 ne vennero trovati altri in Louisiana, con un diametro di 70 centimetri e una profondità media di un metro. Dal loro orientamento, pare che facessero parte di un vero e proprio acquedotto. Un acquedotto ha bisogno di valvole oltre che di tubi, e secondo il sito WND.com, il Mt. Blanco Fossil Museum di Crosbyton, Texas, ha in mostra i calchi in silicone di valvole idriche che lasciarono le loro impressioni in arenaria antica di 300 milioni di anni! «Il luogo della scoperta si trova fra Oklahoma, Kansas, e Missouri, presso un torrente. La sua posizione precisa è tenuta sotto chiave. Nessuno sa quando gli oggetti veri e propri siano stati rimossi. Sono visibili segni di scalpello, lasciati da qualcuno che li ha strappati via. Un certo Todd Jurasek fu avvertito nel 2017 dell’esistenza delle impressioni da un anziano Nativo Americano. A sua volta, Jurasek contattò il direttore del museo Joe Taylor, noto per l’abilità nel creare calchi. “C’è un ovvio problema qui” afferma Taylor. “300 milioni di anni fa, non esistevano né uomini né mammiferi. Quindi, che ci fanno moderne attrezzature idrauliche?” Jurasek intende tornare sul posto con un metal detector. “Non sappiamo se ci sono altri oggetti là sotto” dice Taylor. “Sarebbe grandioso se qualcuno leggesse di questa storia e dicesse che il nonno aveva roba del genere nel suo negozio di anticaglie... e magari è ancora lì. Ci piacerebbe proprio”». Nel 1968, altri tubicini metallici molto più piccoli, di forma ovoidale, lunghi da 3 a 9 centimetri e larghi da 1 a 4, vennero dissepolti da uno strato di gesso del Cretaceo (65 milioni di anni, secondo Jochmans) a St. Jean de Livet, in Francia, e affidati al Laboratorio di Geomorfologia dell’Università di Caen. In settembre il ritrovamento fu comunicato in una lettera alla rivista Planète, firmata Y. Druet e H. Salfati. In questo caso il loro possibile scopo è ignoto... e il Laboratorio non ne sa più nulla, né è stato possibile rintracciare gli autori della lettera. Ma l’elenco di oggetti misteriosi, basato soprattutto su quello dell’immancabile Jochmans, come vedremo è ancora ben lungi dall’essere esaurito... .
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Articolo di Frank Joseph
«L’uomo teme il tempo» soleva dire il vecchio, «ma il tempo teme la Sfinge». La famosa scultura e la Grande Piramide di fronte alla quale è sdraiata da migliaia di anni sono state a lungo guardate come le più antiche strutture monumentali sulla Terra. In effetti, i loro ultimi esami della fine del XX secolo indicano che esse sono persino più antiche di quanto ritenuto. Nel 1974, il fisico Kurt Mendelssohn, medico e collega di Albert Einstein, dimostrò che la Grande Piramide non era la tomba risalente al 2560 a.C. di qualche vanaglorioso re descritto dagli studiosi accademici. Piuttosto la Montagna di Ra venne innalzata circa sei secoli prima, proprio all’inizio della civiltà faraonica, come un massiccio progetto di lavori pubblici per unificare le numerose, frammentate tribù del Delta del Nilo nella comune causa della sua costruzione. Stessa cosa, la Sfinge – all’incirca contemporanea, secondo gli egittologi, alla Grande Piramide – è stata retrodatata almeno al 5000 a.C. – due millenni prima della I Dinastia egizia – dal geologo dell’Università di Boston Robert Schoch. Agli inizi degli anni Novanta, questi scoprì che l’erosione della Sfinge non era stata causata dagli effetti della sabbia mossa dal vento, come sostenuto dall’opinione generale, bensì dal movimento dell’acqua, quando le condizioni della Valle del Nilo erano molto più piovose, ben prima del XXVI secolo a.C. Più recentemente, nel 2009, tali estreme rivelazioni cronologiche sono state radicalmente eclissate dall’analisi con il radiocarbonio di un monumentale centro cerimoniale nel sud della Turchia. Le sue colonne a forma di T, disposte in maniera concentrica, circoli di pietra decorati con rilievi antropomorfi, zoomorfi e geometrici, hanno spinto l’incipit della civiltà indietro fino a 11.000 anni fa.
Un complesso sofisticato
Ora, anche la supremazia di Göbekli Tepe è stata superata dall’annuncio, negli scorsi mesi, di un complesso megalitico molto più grande, quasi mezzo mondo distante dall’Anatolia, di due o tremila anni più antico. Le sconvolgenti vestigia sono state trovate nell’ovest di Giava, a cinquanta chilometri da Cianjur, una città con più di due milioni di residenti; Jakarta si trova a 120 km a nordovest. Una guida di mezz’ora su strade asfaltate e non fino al villaggio di Karyamukti passa attraverso paesaggi montuosi, intervallati da risaie e fattorie che sorgono nel suolo vulcanico, coltivato con peperoncini, arachidi, ananas e frumento, quindi costeggia un’immensa piantagione di thè. Sul Monte Padang, i visitatori più intraprendenti impiegano 20 minuti a salire i circa 370 scalini di pietra, su una pendenza di 40 gradi, 95 metri fino alla sommità, che è coronata dal più grande sito megalitico del sudest asiatico. Esso comprende più di 25 ettari, inclusi 900 mq di cinque cortili rettangolari di pietra, che ascendono da nordovest a sudest, disposti su una serie di terrazze panoramiche e ordinatamente organizzati in bassi muri, partizioni interne e vie d’uscita, tutti connessi da rampe di scale. All’interno e all’esterno dei recinti vi sono decine di monoliti verticali, ma molti di più giacciono sparpagliati al suolo. L’intero complesso comprende una stima di 3.703.700 blocchi neri di andesite, ciascuno che va da uno a due metri di lunghezza, lavorati dai processi geologici in strutture poligonali di colonne a cinque, sei o otto lati (l’andesite è una roccia ignea estrusiva, un tipo di basalto formato dall’attività vulcanica). Le dimensioni medie delle colonne sono 0.3 x 0.3 x 1.5 metri. Questi blocchi dalle facce smussate pesano tra i 90 e i 600 kg, con un peso medio individuale di circa 300 kg. In altre parole, gli operai preistorici del sito trasportarono approssimativamente 1.111.110.000 kg di materiale da costruzione a 885 metri sul livello del mare, sopra i ripidi versanti del Monte Padang. Sommata al loro carico vi era una fonte non locale di andesite, che doveva essere portata lì da una cava distante, sconosciuta agli studiosi. Gli archeologi sono stati piuttosto sorpresi di trovare tracce di una sorta di adesivo, colla o forse cemento che legava alcuni dei piani superiori dei muri. Sotto, i ricercatori erano perplessi per la presenza di diversi strati di sabbia che è stata deliberatamente incorporata nell’originale lavoro dagli ingegneri preistorici, forse permettendo ai blocchi di spostarsi e scorrere l’uno sull’altro con il movimento provocato da scosse sismiche, invece di resistere rigidamente e di rompersi per la tensione. Vi è qui una possibile prova di antica costruzione anti-sismica. Giava è nota per la sua violenza tettonica, ma sembrava totalmente inconcepibile che tale popolo pre-industriale, abitante nella remota Indonesia, potesse aver realmente applicato una forma di tecnologia che il nostro mondo moderno ha solo recentemente cominciato a comprendere.
Rocce “musicali”
Contribuendo all’elevata stranezza delle pietre, la maggior parte possiede un’inusuale qualità, che potrebbe aver contribuito a garantire la loro importazione dagli antichi costruttori fino alla cima del Monte Padang. La maggior parte dei suoi blocchi e colonne di andesite risuona con un tono simile a quello di una campana, quando viene colpita con un oggetto duro. Si tratta di un raro fenomeno geologico noto come litofonia, la proprietà di alcune rocce di emettere suoni musicali in seguito a percussione. Sebbene solo poco più di una dozzina di campi con rocce litofoniche sia stata identificata nel mondo, la maggior parte è stata trovata in proprietà private od obliterata dallo sviluppo urbano. Due diversi siti battezzati ugualmente “Ringing Rocks Park” possono essere visitati negli Stati Uniti ad Upper Black Eddy e Lower Pottsgrove Township, o Stony Garden nel versante nord della Mountain Haycock, tutti in Pennsylvania. Ancora, un altro simile campo è stato scoperto nella Deerlodge National Forest nel Montana, nel fianco sudovest della Dry Mountain, nella contea di Jefferson, a sudest di Butte. L’Australia ha le sue Ringing Rocks nel nordovest del Queensland e il Cerro de las Campanas in Messico è situato su una collina nella città di Querétaro. Vi sono le pietre musicali di Skiddaw a Cumbria, Inghilterra, ma il Clach a’ Choire scozzese è più convincente per la nostra ricerca, in quanto questa “Ringing Stone of Tiree” comprende 53 “marcatori a coppa” circolari, realizzati dai musicisti del Neolitico 4500 anni fa. Essi, come i costruttori del Monte Padang di Giava, scoprirono qualcosa di mistico nei suoni di campana. Curiosamente, tutti questi vari siti producono toni molto differenti l’uno dall’altro; due siti diversi non suonano mai esattamente allo stesso modo. Durante i test in laboratorio di diverse rocce litofoniche nel 1965, il geologo della Pennsylvania Richard Faas scoprì che essi producevano una serie di toni a frequenze inferiori dell’estensione dell’udito umano e divenivano udibili solo quando interagivano tra di loro. Sebbene le rocce litofoniche producano un suono metallico, il loro alto contenuto in ferro non è responsabile di tale musica, ma piuttosto si tratta di una combinazione di densità della pietra e alto grado di stress interno. O almeno è quanto ipotizzano i geologi. In verità, oltre agli sbrigativi esami condotti da Faas, non sono stati effettuati studi per identificare la fonte della litofonia. Il perché tali rocce producano suoni rimane un enigma scientifico. Esse vennero usate dagli abitanti preistorici come parte delle loro attività cerimoniali e spirituali. Le rocce litofoniche presenti sulla prima terrazza del sito sono chiamate “pietre di gamelan”, per il loro suggestivo arrangiamento e la varietà di suoni musicali che producono (il gamelan è un’orchestra di strumenti musicali indonesiani, n.d.t.). Le note che esse producono sono state identificate come Fa, Sol, Re e La da Hokky Situngkir del Bandung Fe Institute, un’organizzazione di ricerca indonesiana.
Allineamenti a Gunung Padang
Gli archeo-astronomi hanno stabilito che almeno diverse delle pietre verticali più grandi del Monte Padang indicano un ben definito fenomeno celeste, come alba o tramonto nei solstizi d’estate e inverno e negli equinozi di primavera e autunno. Il nome del centro potrebbe, in realtà, essere derivato da questi orientamenti solari preistorici. Per esempio, la parola padang, nel linguaggio del popolo sondanese della provincia occidentale di Giava, si traduce con “luminoso”. Gunung Padang, la stessa zona archeologica, è comunemente chiamata dai nativi residenti Sundapura, o il Santuario del Sole, mentre la collina su cui sono situate le rovine (Monte Padang) è tradizionalmente chiamata Parahyang Padang: “Dove dimorano gli antenati del Sole” o “Luogo degli antenati del Sole”. Questi nomi o titoli implicano che gli abitanti originari fossero sacerdoti-astronomi e/o sacerdotesse, che allinearono alcuni dei loro monoliti con importanti posizioni solari. In quanto tali, questi Antenati del Sole erano adoratori della luce, non diversi dai costruttori dei megaliti europei, che spesso orientarono le loro pietre verticali nell’ovest della Francia e nelle isole britanniche con identiche coordinate solari. Oggi, Gunung Padang è ancora ricercato come luogo sacro da centinaia di visitatori ogni mese, molti dei quali pellegrini religiosi. Anche gli allineamenti geomantici sono evidenti. La Terrazza I è deliberatamente allineata con il vicino Monte Gede, dove il cimitero di Karuhun è considerato da innumerevoli generazioni il più antico terreno sepolcrale del paese. Cinque troni di andesite, rozzamente scolpiti, si trovano nella Terrazza II; altri sei sono nella Terrazza V. Sebbene oscurati dai loro massicci cortili, le centinaia di terrazze del Monte Padang sono esse stesse meraviglie dell’ingegneria, due metri di altezza e diametro, con un’inspiegabile somiglianza con le loro meglio note controparti agricole presso un altro sito montuoso dall’altra parte del mondo, la cittadella inca di Machu Picchu, tra le Ande peruviane.
Il misterioso Nan Madol
Ma questo parallelo sudamericano non è la sola comparazione oltremare di Gunung Padang. Non meno grande è un sorprendente, forse simile mistero, a 4.345 km a nordest di Giava, in un remoto angolo dell’Oceano Pacifico occidentale. Al largo della costa dell’isola micronesiana di Pohnpei – “costruita sopra un altare” – si trovano le imponenti rovine di un sito archeologico abbandonato da tempo. Stranamente costruito su una barriera corallina a meno di due metri sopra il livello del mare, Nan Madol – “spazi tra” – è una serie di isole rettangolari e torri colossali, ostruite da vegetazione avventizia. Novantadue isole artificiali sono racchiuse in un’area centrale di 2.6 kmq. Sono tutte interconnesse da un’estesa rete di grossi canali, ciascuno di oltre nove metri di lunghezza e più di un metro di profondità con l’alta marea. Circa 250 milioni di tonnellate di basalto prismatico – legato all’andesite di Gunung Padang – furono impiegate nella costruzione di Nan Madol. Le sue travi di pietra si ergono in una configurazione a culla per otto metri. Tra quattro e cinque milioni di colonne di pietra sono entrate nella costruzione di questa megalopoli preistorica. Queste colonne prismatiche sono lunghe tra uno e quattro metri, con qualcuna che raggiunge i sei metri. Il loro peso medio è di cinque tonnellate ciascuna, ma gli esempi più grandi pesano 20 o 25 tonnellate. Una stima di quattro, cinque milioni di colonne di basalto, travi e tronchi è stata utilizzata per costruire Nan Madol. Si tratta, in effetti, di un recinto a doppio muro comprendente 13.500 metri cubi di corallo, con un’aggiunta di 4500 metri cubi di basalto. Rimuovete tutta la copertura vegetale e i visitatori vedranno massi di basalto rudemente lavorati, in contrasto con le ordinate traiettorie delle pietre che si innalzano in imponenti torri e mura dominanti, in mezzo a un complesso di costruzioni rettangolari più piccole e laghi artificiali, interconnessi da decine di canali e numerosi scalini, talvolta vere scale, nonché distribuito su 18 kmq. La costruzione si trasferì nell’isola principale di Pohnpei, dove un recinto rettangolare di 15 metri di lunghezza per 11 metri di larghezza e, come bisettrice, un muro interno di un metro di altezza, fu scoperto in un remoto, paludoso prato posto a una certa altitudine; la sua configurazione e ubicazione sulla montagna ricordano particolarmente Gunung Padang. Sebbene i cortili gemelli dell’isola della Micronesia contengano un’area di cinquecento metri quadrati, un paio di piattaforme interne sono solo un terzo di un metro di altezza. Come a Nan Madol, massi e “assi” di basalto rozzamente tagliati vennero accatastati per costituire il recinto. Diversi altri si trovano sulla costa sudoccidentale di Pohnpei, con il più grande sulla cima di una montagna di 240 metri. La vetta è interamente circondata da mura di due metri di altezza, connesse, attraverso cammini lastricati, a diverse piattaforme terrazzate. Nessuno sa chi le edificò, quando o perché. Il mito micronesiano racconta solo che due stregoni gemelli eccezionalmente alti, chiamati Olisihpa e Olsohpa, giunsero un giorno dell’antico passato in una grande canoa dalla loro distante terra natale. Era un grande regno splendente, finché stelle cadenti e terremoti distrussero infine Kanamwayso, che affondò nel mare. Questa tradizione orale nativa sembra una variazione della famosa storia di Mu, o Lemuria, una civiltà pan-pacifica, profondamente antica e si suppone sofisticata, che esercitò una duratura influenza su Asia e America, prima della sua distruzione a causa di una catastrofe naturale. Prima dell’analoga scomparsa di Kanamwayso, Olisihpa e Olsohpa costruirono probabilmente i recinti e le scale di basalto che continuano ad adornare Nan Madol e Pohnpei. Nonostante più di cento anni di ricerche scientifiche, tuttavia, nessuna cultura nota è stata associata a tali luoghi. Contemporaneamente, il clima umido e tropicale impedisce un’accurata datazione con il radiocarbonio di entrambi i siti. Né il loro originale scopo è interamente chiaro. Niente dei siti suggerisce veri centri urbani, mancando il modo in cui provvedevano a produrre o immagazzinare il cibo. Nessuna sepoltura umana vi è stata trovata, salvo pochi scheletri di statura superiore alla media – richiamando alla mente i miti locali dei padri fondatori, Olisihpa e Olsohpa – scoperti dagli archeologi giapponesi negli anni ’30. La disposizione rettangolare di mura, con aperture e partizioni regolarmente spaziate, suggerisce una funzione cerimoniale. Ma per quale popolo e perché in questo remoto e oscuro angolo del Pacifico? Ciò nonostante, le fondamentali somiglianze di Nan Madol e Pohnpei a Gunung Padang implicano, almeno, una relazione di qualche tipo, tuttavia inconcepibile.
14.000 a.C.?
Ancora più straordinaria di tali comparazioni e della monumentale grandezza del sito indonesiano è la sua età. La prima analisi archeologica di Gunung Padang appare in un rapporto del Dipartimento per le Antichità dell’ufficio coloniale d’Olanda (Rapporten van de Oudheidkundige Dienst), il cui autore anonimo ipotizzò nel 1914 che le rovine non retrodatassero l’inizio ufficiale della storia di Giava dei primi del V secolo d.C., sebbene esse sembrassero molto più antiche. Per il resto del XX secolo, il sito non venne apprezzato dal mondo esterno, anche dopo che venne brevemente menzionato dal prolifico scrittore e archeologo olandese N.J. Krom, nel suo Under palm and banyan trees del 1946. Trentatré anni dopo, un team di Canberra del centro di ricerca archeologica dell’Australian National University tornò per il primo esame scientifico del sito. Nel fare ciò, esso stabilì che Gunung Padang fosse molto più antico di quanto precedentemente immaginato. La crescita dei licheni che coprono molti dei megaliti indicava un’antichità risalente a millenni prima della più antica cultura nota di Giava. Fino al febbraio 2012, tuttavia, non è stata condotta una valutazione del sito promossa dallo Stato, quando l’analisi al radiocarbonio ha rivelato che venne costruito e occupato per la prima volta circa 4.800 anni fa. Questa sorprendente datazione al III millennio a.C. colloca Gunung Padang esattamente nell’età megalitica dell’Europa occidentale, con implicazioni di contatti transoceanici. Comunque eretiche, tali considerazioni hanno colpito gli studiosi convenzionali, ma, mentre i ricercatori stavano portando avanti le loro investigazioni, hanno notato tracce sulla superficie del Monte Pandang di ciò che potevano essere altre strutture sotterranee. Niente meno che un sostenitore della scienza come il presidente stesso dell’Indonesia, Susilo Bambang Yudhoyono, ha fornito gli archeologi di costose unità radar per l’analisi del terreno GSSI e Multi-Channel Supersting R-8, nonché di geomagnetometri GEM-Ovenhausser. Tali strumenti all’avanguardia hanno prontamente trovato e accuratamente confermato l’esistenza di grandi e piccole camere, muri, ingressi e scale sepolti sotto le rovine, in una virtuale immagine speculare sotterranea di Gunung Padang. Secondo il leader del team e geologo Danny Hilman Natawidjaja, «le procedure in 3-D geoelettriche e georadar hanno scoperto due porte nel corridoio» di una camera delle dimensioni di 10x10x10 metri a una profondità di 25 metri. In estate e autunno, egli e i suoi venti colleghi – sismologi, filologi, archeologi, antropologi e petrografi – hanno accuratamente portato alla luce materiali organici, che sono stati inviati per i test negli Stati Uniti, in quanto gli Indonesiani erano determinati a evitare ogni apparenza di risultati politicamente motivati. «I laboratori statunitensi hanno validato la teoria dell’antica struttura di Cianjur, risalente al 14.000 a.C. o ancora più indietro» ha annunciato The Jakarta Post il 5 novembre. Dalla pubblicazione di tale report, ripetute e addizionali analisi da parte degli scienziati del Beta Analytic hanno confermato il 14.000 a.C. Il significato di questa scoperta non può essere enfatizzato, in quanto interseca l’orizzonte degli eventi dell’Era Glaciale. Anche il sito turco di Göbekli Tepe, con il suo X millennio a.C di antichità, si colloca solo dopo la fine dell’epoca glaciale, quando le condizioni ambientali erano moderatamente sufficienti a permettere lo sviluppo delle proto-civiltà. Meno distratti dalle incessanti sfide per la sopravvivenza, i nostri antenati ebbero le opportunità per una cooperazione sociale più ampia e complessa. Ma Gunung Padang prova che gli uomini fossero già in possesso di una cultura relativamente elevata duemila anni prima, mentre l’Era Glaciale era ancora in corso. Il Tempio del Sole ha radicalmente spinto indietro le origini della civiltà a livelli più remoti di tempo e spazio, in quanto i paleoantropologi, fissati con l’Europa e il Medioriente, sono riluttanti ad accettare il passaggio dell’umanità dalla barbarie alla civiltà in Indonesia. È precisamente qui che il genetista britannico Stephen Oppenheimer, di Oxford, ha tracciato gli esordi dell’umanità civilizzata con il suo controverso Eden in the East (1999), preceduto da The lost continent of Mu del colonnello inglese James Churchward (1926), che tradusse documenti di un monastero indù in cui si descriveva il primo passo dell’uomo nel Pacifico occidentale. I miei The lost civilization of Lemuria (2006) e Before Atlantis (2013) similarmente indicano l’alba dell’Homo erectus a Giava, la sua diffusione nel Pacifico e l’accelerazione dell’evoluzione, dopo l’eruzione vulcanica più disastrosa della storia. Gunung Padang è ora noto come il più antico complesso megalitico e la sua sofisticatezza rivela che non fu il primo, ma deve essere stato preceduto da centri cerimoniali più antichi. La civiltà è, dopotutto, molto più antica di quanto ancora comprendiamo.
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Articolo di Freddy Silva
«Chiesi ai nativi se questi edifici fossero stati costruiti ai tempi degli Inca. Essi si misero a ridere, sostenendo che erano stati fatti molto prima degli Inca… e che avevano avuto notizia dai loro avi che ogni cosa visibile in quel sito era apparsa tutta e soltanto in una notte». Questa la testimonianza presa dal racconto di Pedro Ciez de Leon quando s’imbatté in un tempio due miglia al di sopra del livello del mare, sull’Altipiano della Bolivia. Era l’anno 1549. Quasi 500 anni dopo il problema della ricerca degli aggettivi ancora persiste per quel che riguarda il complesso megalitico di Tiwanaku o, per essere più precisi, quel che i ricercatori e i saccheggiatori ne hanno lasciato. Tiwanaku è il più antico sito sacro ritrovato finora. La sua sopravvivenza dopo 17.000 anni è una potente testimonianza delle capacità e della conoscenza dei suoi creatori, la prova che fu costruito per durare. Tutto in questo complesso templare è incongruo rispetto a ciò che lo circonda. Il sito è composto di varie strutture cerimoniali: una piramide a gradoni, una corte semi sotterranea, una camera interrata e banchine capaci di accogliere centinaia di grandi vascelli. Un blocco di pietra in particolare da cui venne modellato il molo pesa all’incirca 440 tonnellate. L’intero complesso poggia su un lago distante 170 miglia dall’oceano, all’incirca a 3800 metri sul livello del mare, inaccessibile a qualsiasi altra civiltà. La sua parte principale, e forse più antica, è la corte all’interno del tempio di Kalasasaya, che vuol dire “Luogo della pietra eretta”, che infatti è in sintonia col sito. Anzi, ci sono almeno 99 megaliti eretti, alcuni alti almeno quattro metri e mezzo, disposti in un rettangolo di 128 per 118 metri, le dimensioni di un piccolo stadio. Poi ci sono tre pilastri che assomigliano ai lingam e che si trovano nel mezzo. La recinzione venne in parte ricostruita nel 1960, eppure la qualità e la precisione del lavoro del XX secolo sono visibilmente deteriorati rispetto al lavoro originale. E tuttavia siamo portati a credere che questa metropoli fu completamente opera di un popolo primitivo. Il che ci conduce alla questione principale: quanto è antico il tempio? Gli archeologi ortodossi, con la datazione al carbonio 14 del terreno vergine, inquadrano il complesso intorno al “tranquillo” 300 a.C. Frammenti di vasellame estratto mostrano una attività umana in loco intorno al 1500 a.C. Se da un lato è indubbio che entrambi questi test sono corretti, la datazione dello strato superficiale del suolo prova soltanto il periodo dell’ultimo popolamento, non la data della costruzione originale. A confondere le cose è un fatto ben stabilito secondo il quale tutti i templi antichi si trovano sulle fondamenta di siti ben più remoti. Nel caso di Tiwanaku, i differenti metodi di costruzione da soli dimostrano che venne costruita nel corso di svariate ere, proprio come i templi egizi. Quanto più recente è la manifattura, tanto peggiore è la costruzione che dimostra come la conoscenza non migliorò, pur se proveniente da contributi meno antichi. C’è poi la questione degli allineamenti astronomici. Si è provato che in antichità templi come Stonehenge, Carnac, le piramidi di Giza, Angkor, Luxor, ecc. erano tutti allineati, nei punti estremi in cui sorgevano e calavano il sole e/o la luna, a stelle specifiche e perfino a intere costellazioni. Sarebbe curioso se Tiwanaku fosse l’eccezione. Un indizio che prova che non lo fosse è scolpito nella Porta del Sole, una delle strutture più impressionanti del complesso. Essa presenta una serie di iconografie finemente incise nella dura roccia del portale di andesite. La sua figura centrale rappresenta una divinità solare che tiene una bacchetta in ogni mano e sulla testa una corona con 19 raggi. Nel mondo antico, i numeri erano utilizzati in modo attento per esprimere le leggi universali, anche se il 19 non ha una diretta associazione con il sole. Rappresenta, invece, il periodo di tempo necessario affinché i movimenti del sole e della luna siano in sincronia. Chiamato ciclo metonico, avviene ogni 19 anni e consente di fare le previsioni precise delle eclissi e di stilare calendari solari-lunari molto accurati. Lo stesso calcolo viene impiegato nei cerchi di pietra come Stonehenge e nel 3100 a.C. una simile conoscenza era già considerata vecchia. Una delle indagini più esaustive relative alle funzioni calendariali è presente sui rilievi della Porta del Sole e ci informa - come scrive Graham Hancock nel suo Impronte degli Dei - che «nel mondo non esisteva allora nulla di simile… ma questo calendario è anche il più antico del mondo; anzi, che ci è stato tramandato da un “altro” mondo».
Nell’Età dell’Oro
Per comprendere la relazione fra i monumenti e le stelle, è necessario avere conoscenze di archeoastronomia, cosa che il professor Arthur Posnansky aveva. Durante i suoi 48 anni di lavoro sul campo a Tiwanaku, egli raggiunse la conclusione che quel sito non era molto diverso dagli altri siti dell’antichità più remota. Di fatto, la sua antichità risaliva a tempi molto più remoti di tutti gli altri siti sulla Terra. Posnansky suppose che una componente essenziale alla disposizione della corte di Kalasasaya era l’allineamento delle sue pietre angolari, erette al sorgere e al calare del sole durante l’intero ciclo dell’anno, in particolare durante i solstizi. Fece le necessarie misurazioni, le correlò alla situazione contemporanea e scoprì che i marcatori mancavano l’allineamento con l’attuale posizione del sole di circa 18 minuti. Come ogni erudito astronomo, Posnansky era ben consapevole che l’angolo dell’inclinazione assiale terrestre cambia nel corso di 41.000 anni. Quando Posnansky ricalibrò gli allineamenti dei monoliti nel “Luogo delle Pietre Erette” per farli coincidere con il sorgere e il tramonto del sole durante i solstizi, si accorse che ciò avveniva quando l’inclinazione assiale della Terra fosse stata di 23° 8’ 48’’. Il suo lavoro venne minuziosamente rivisitato da un gruppo multidisciplinare di scienziati, cui non interessava molto far rientrare la datazione dei templi all’interno di periodi storici convenienti, perché erano più interessati alla precisione delle misurazioni. Le osservazioni di Posnansky risultarono corrette, e la data della costruzione di Kalasasaya venne fissata al 15.000 a.C., a dimostrazione che Tiwanaku poteva davvero essere stata costruita durante la mitica “età dell’oro”, quando gli uomini erano come Dèi e facevano cose apparentemente impossibili. Nei tempi antichi, l’area di Tiwanaku era conosciuta come Taypikhala, “la pietra al centro”. Il suo fondatore fu Kon-Tiki Viracocha che, come altre entità mitologiche del mondo, era un dio creatore e rigeneratore che portò la conoscenza su quelle terre. In era preistorica, le “città della conoscenza” venivano erette secondo le direttive degli Dèi creatori come Shiva, Atum e Kon-Tiki Viracocha, per proteggere e promuovere le leggi universali. A Tiwanaku non solo abbiamo una città della conoscenza, abbiamo anche un territorio sacro progettato dagli antichi agrimensori, con la passione di dar vita a cose su larga scala, che sarebbero durate molto a lungo. Se da un lato non esiste una testimonianza diretta dello scopo per cui fu costruita Tiwanaku, ciò che resta rivela un complesso di grande erudizione. È un sito calendariale, un marcatore astronomico e, vista l’iconografia raffigurante le forze maschili/solari e femminili/lunari, anche un tempio per la riconciliazione degli opposti, il vero obiettivo dietro ogni luogo degli Dèi. È indubbio che per crearlo ci volle un alto grado di conoscenza scientifica, così come è indubbio che quella conoscenza venne anche insegnata ad altri saggi che un tempo vissero in quel luogo di meraviglie. Un racconto aymara del XVI secolo, sulle origini delle grandi lastre di pietra di Tiwanaku, afferma che «esse furono trasportate per via aerea grazie al suono di una tromba».
I luoghi del Primo Tempo
Il giornalista investigativo Graham Hancock ha prodotto un numero rilevante di lavori, che dimostrano la relazione significativa fra gli antichi siti sacri e come fossero stati costruiti da coloro che avevano una comprensione attenta dei sistemi di conoscenza universale. Una delle sue osservazioni riguarda la relazione multi-livello fra Tiwanaku e il lago Titicaca, così come fra Eliopoli e la piana di Giza posta 100 gradi a est. La terraformazione primordiale associata a Tiwanaku è posizionata a nordovest del complesso templare, su una scogliera della Isla del Sol, che dall’alto assomiglia alla silhouette di un animale che emerge dalle acque blu scure del lago. Non a caso, Titicaca vuol dire “Scogliera del Leone”, che era anche il nome che tradizionalmente veniva dato all’isola. Si dice fosse il luogo della “Prima Volta”, della terraformazione primordiale creata da Kon-Tiki Viracocha grazie all’emanazione di un suono. Come Atum e Shiva, egli rappresenta la natura a tre facce del dio creatore; era anche una divinità solare che, come dicono le leggende, esisteva perfino in forma umana. Sappiamo che per gli egizi Eliopoli era la terraformazione primordiale, creata da Atum «sotto forma di grande collina che brillava come la pietra Benben nel Tempio della Fenice». E proprio come il Titicaca ha la sua Scogliera del Leone rivolta verso il sorgere del sole a est, un altro leone siede su un’altura sul fiume Nilo e sul lato opposto di Eliopoli, rivolto allo stesso sole nascente. Nei testi antichi il suo nome è Shesep Ankh, “immagine vivente” (di Atum) o, come preferiscono gli occidentali, la Sfinge. E, proprio come Titicaca, anch’essa segna lo “Splendido Luogo del Primo Tempo” o, come è chiamato dagli egizi, Zep Tepi. Per quanto riguarda “gli ombelichi della Terra”, sembra che tutti i maggiori complessi templari siano costruiti sopra o a fianco di terraformazioni primordiali. Come per Eliopoli, ognuno dei siti dei templi storici come Edfu, Kom Ombo, Philae, Carnac e Luxor è conosciuto come il “Grande Sito del Primo Tempo”. Quella era un’epoca in cui le terraformazioni primordiali venivano erette lungo il corso del Nilo, per fungere da fondamenta di templi futuri. Questi templi sono presidiati dal dio falco Horus. Si tratta per caso di una coincidenza che 7.500 miglia più in là, in Perù, su una collina che domina Cuzco (che significa “ombelico”), si erge un complesso templare costruito con megaliti ciclopici, chiamato Sacsayhuamán, che vuol dire “luogo del falcone soddisfatto”? Ovviamente, questo concetto del “Primo Tempo” riecheggia in tutto il mondo ed è associato a luoghi profondamente antichi. Ma quand’è che esattamente è sorto lo Zep Tepi? Se ricordiamo, i templi venivano eretti con lo scopo di riflettere le immagini dell’essenza di un dio creatore e, di conseguenza, dell’ordine dell’universo. Fungendo da “città della conoscenza”, esse fornivano una guida ai rituali quotidiani e istruzioni per la condotta umana. O almeno quella era l’intenzione: cioè, gli adepti avrebbero dovuto insegnare le leggi fissate nel tempio, in questo modo allargare l’istruzione e l’esperienza spirituale ai laici e creare un effetto a cascata in tutta la popolazione. Un primitivo concetto di “diffondere le regole civili”. Per quel che riguarda il funzionamento del tempio in Egitto, le regole primarie riguardavano l’osservazione dei movimenti ciclici e ordinati degli astri, come si evince dalla loro predilezione per il simbolismo “come in cielo così in terra”. Essi onoravano questo dramma cielo-terra perpetuandolo attraverso il mito, l’allegoria e il rituale. In qualche modo, consideravano l’interazione fra ciò che si trova in alto e ciò che si trova in basso, fra la vita mortale e il mondo spirituale, al pari di una rappresentazione teatrale. Da qui, il fatto che persone illustri assumevano le qualità associate agli Dèi, come Iside, Osiride e Horus, mentre gli stessi Dèi riflettevano l’essenza di specifiche forze stellari: Ra era il sole, Toth la luna, Iside Sirio, Osiride la costellazione di Orione. Gli egiziani credevano fermamente che gli Dèi dello Zep Tepi avessero stabilito il loro regno terrestre nella regione triangolare del Delta del Nilo, comprensiva di Giza, Eliopoli e, in seguito, del luogo della grande erudizione, Alessandria. I Testi del tempio di Edfu si riferiscono ai templi storici del periodo dello Zep Tepi chiamandoli “Siti del Primo Tempo”, sottolineando che i templi materiali si svilupparono molto dopo e prendendo spunto da un’astrazione: in principio ci fu la terraformazione primordiale, poi il suolo consacrato e in ultimo la dimora di dio. Il secondo testo di Edfu, La Venuta di Ra alla sua Dimora, afferma che lo spirito del (dio) Sole finalmente abitò una struttura fisica. Ciò avvenne all’alba di un mondo nuovo durante l’era antidiluviana, molto prima del regno e del governo faraonico. Qualunque progetto futuro relativo a templi, rituale, stemma reale, formule magiche e mediche poteva essere realizzato soltanto in accordo con le leggi e i principi stabiliti a quell’epoca. In altre parole, se si voleva mantenere una condizione di armonia negli affari quotidiani, era necessario osservare e imitare le leggi e le regole guida stabilite dagli Dèi ai tempi primordiali negli “ombelichi del mondo”. In un certo senso, era la loro idea di Giardino dell’Eden. Il principale dio di questa rappresentazione è Osiride, il dio dell’Oltre. Secondo la pietra Shakaba, egli fu seppellito nella “Dimora di Sokar… (poi) Osiride si manifestò sulla Terra, alla fortezza reale, nel nord del territorio verso cui si era indirizzato”. Un altro testo, questa volta inscritto sulla stele eretta fra le zampe della Sfinge, ci informa che l’area intorno a Giza è lo “splendido Luogo del Primo Tempo”, e che si staglia all’apice di un triangolo formato dal Delta del Nilo. Nell’antica iconografia, il triangolo è spesso usato per rappresentare la terraformazione primordiale. Simbolicamente, dunque, si potrebbe dire che Giza si trovi all’apice della terraformazione. La stessa stele poi ci informa che una grande costruzione di fianco alla Sfinge si chiama “Casa di Sokar”, all’interno della quale Osiride dal cielo ritornerà. Siccome Osiride e Orione si riflettono entrambi nel dualismo cielo-terra, questo può essere interpretato nel senso che lo spirito di Osiride si riunisce al mondo dello spirito in cielo, nel momento in cui Orione appare come sua immagine riflessa. E quando accadrebbe una cosa simile? Fedeli al dualismo terra-cielo, le piramidi di Giza e le terraformazioni primordiali su cui si stagliano sono lo specchio riflesso della cintura della costellazione di Orione. E siccome tutte le cose sono uguali, non c’è motivo per cui la Sfinge non debba essere allineata con la sua gemella cosmica. Questo enigmatico leone di pietra calcarea, che poggia in modo sontuoso su una rupe, sembra fissare alcune cose all’orizzonte proprio come qualcuno che guardi se stesso allo specchio ogni mattino. Nel momento del sorgere del sole durante l’equinozio di primavera (quando giorno e notte sono in perfetto equilibrio), i monumenti dello “Splendido Luogo del PrimoTempo” hanno il loro riflesso nel cielo. La Sfinge nella costellazione del Leone si alza all’orizzonte e, nel cielo meridionale, alle tre stelle della cintura di Orione corrispondono le tre piramidi. Il momento in cui ebbe luogo questo doppio e unico allineamento, il momento del “Primo- Tempo”, lo Zep Tepi, corrisponde al 10.500 a.C.
Fondamenta che giungono al mito
Lo scopo principale dietro la costruzione del tempio era di promuovere una conoscenza che durasse un certo numero di epoche, mi riferisco almeno a periodi di 4000 anni. Per gli standard moderni si tratta di un periodo incalcolabile, in particolare se pensiamo che noi, in quest’era del computer, riusciamo a mala pena a fare i conti con un quarto di anno alla volta; persino una settimana nel mondo delle e-mail sembra un secolo. La prova materiale della presenza di livelli multipli nelle strutture al di sotto delle costruzioni templari suggerisce che i siti originali si sono mantenuti, anzi sono migliorati e si sono ingranditi nel corso di migliaia di anni. Le tradizioni degli antichi egizi ci dimostrano, almeno nei tremila anni di storia conosciuta, che nessun sito poteva considerarsi sacro, a meno che non fosse costruito sulle fondamenta di templi più antichi, in particolare quelli legati allo Zep Tepi. Un tempio costruito durante un certo periodo storico e sovrapposto alle fondamenta di un altro era stabilito da un’entità preesistente riconducibile all’epoca del mito, così che questa nuova struttura apparisse come la concretizzazione della sua precedente o, come ci informano i Testi delle Piramidi: «…realizzata su quella che venne fatta durante la pianificazione iniziale». Così, la terraformazione primordiale della Grande Piramide di Giza risale al 10.500 a.C., ma i lavori addizionali conclusivi dell’involucro esterno in pietra fatti sul fulcro interno della costruzione presentano stele che fanno riferimento a specifiche stelle del 2.500 a.C. Il ben conservato tempio del Nilo ad Edfu presenta una struttura centrale che risale al 237 a.C., eppure le mura interne ed esterne datano 2575 a.C., ed è anche probabile che si trovino su fondamenta ancora più vecchie, perché Edfu è anche uno dei luoghi specificamente identificati come il “vero Grande Sito del Primo Tempo” del dio creatore. Il misterioso tempio sotterraneo ad Abydos, l’Osireion, ha due camere secondarie costruite con blocchi più piccoli, che stridono con le ciclopiche pietre di granito utilizzate per costruire la struttura centrale. Anche all’osservatore casuale risulterà chiaro come il tempio sia stato ingrandito in seguito, in accordo con le regole poste dagli Dèi creatori. Le iscrizioni sui nuovi muri perimetrali sono attribuite a Seti I, faraone del XIII secolo a.C., eppure questi muri si trovano al di fuori del perimetro originario. Più in là, esiste un’incisione, “Seti è servo di Osiride”, che dà sostanza alla leggenda, un’indicazione secondo cui il faraone era a servizio del dio. In pratica, al servizio del restauratore del tempio originario dedicato a Osiride piuttosto che al suo costruttore originario. Architettonicamente, l’Osireion ha molto più in comune con lo stile del medesimo complesso megalitico ritrovato nel perimetro del tempio della Sfinge. Allo stesso modo, anche Carnac è un importante esempio di tempio ingrandito nel corso di epoche diverse. Esso è primariamente una confusa miscellanea di direzioni, angoli, passaggi, vie e camere senza apparente coesione. Eppure ogni elemento ha il suo specifico compito. Tali “città della conoscenza” erano generalmente allineate astronomicamente, e siccome le costellazioni si muovevano secondo il ciclo precessionale, l’obiettivo dei lavori portati avanti in questi templi, negli anni che seguirono, seguiva esattamente quella direzione, con un’enfasi che mutava a ogni nuova era. Questo aiuta a demistificare la stramba cronologia di Carnac, che passa dall’11.700 a.C., sua data di fondazione come terraformazione primordiale, al 3.700 a.C. del tempio storico. Nel corso di questo lungo periodo, a causa dell’inclinazione dell’asse terrestre, le stelle focali come Sirio o il Sole equinoziale nascente si sarebbero allineati alle vie processionali di Carnac in date differenti.
Stelle Imperiture
Esistono sufficienti prove per sostenere la tesi che l’età delle fondamenta di molti antichi siti sono più remote di quanto sia comunemente accettato. Inoltre, esistono templi in zone opposte del mondo che condividono gli stessi scopi, ideologie e conoscenze e che suggeriscono un unico punto d’origine, oppure diverse fonti d’origine con un intento comune e informazioni risalenti tutte a epoche preistoriche. La specializzazione di quegli artigiani è stata tramandata come un retaggio di generazione in generazione e ancora oggi appare e scompare fra le rappresentazioni umane che oscillano fra ordine e caos, fino a riemergere misteriosamente grazie a qualche cultura invisibile. Echi eterni del monte Meru e di Eliopoli abbondano in tutti i continenti, le civiltà e i tempi. Non è insolito che tali luoghi possano esercitare un’influenza tremenda sul pellegrino, come lo schiocco di dita di un maestro ipnotista. Essendo specchi dell’universo noi ammiriamo questi templi e vediamo la nostra immagine riflessa sulla pietra. È un’esperienza condivisa da generazioni. Come se questi spazi rimanessero vivi, vegeti e pulsanti; un organismo. E non è improbabile perché i luoghi scelti dagli Dèi creatori per le loro “città della conoscenza” sono luoghi in cui le energie elettromagnetiche del pianeta si comportano in maniera diversa. Ed essendo noi di natura elettromagnetica, queste sottigliezze riusciamo a coglierle. Le forme della pietra e la disposizione servono ad amplificarne l’effetto. In tutto il mondo, i templi degli Dèi furono progettati in modo che l’iniziato potesse essere “trasformato in un dio” o in una “stella luminosa”. Gli artigiani vollero ricordarci questo, per timore dell’oblio. Per cui, quando costruirono i templi essi crearono anche i miti e i rituali per preservare la conoscenza e, in questo modo, far sopravvivere la Terra a qualsiasi cataclisma dovesse prepararsi ad affrontare.
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Articolo di Robert Schoch
Mi sono recentemente imbattuto in un articolo di Brian Hayden (professore al dipartimento di archeologia, Simon Fraser University, British Columbia) sulle attività religiose e le origini della domesticazione fra gli antichi popoli, in cui ipotizza che il sito di Göbekli Tepe (di 12.000 anni fa, nel sud est della Turchia) possa essere stato il centro rituale e il quartier generale di un’antica “società segreta” di ricchi individui appartenenti a un’élite (Current Anthropology, ottobre 2009). Poiché ho studiato Göbekli Tepe per numerosi anni, il suggerimento del professor Hayden ha immediatamente suscitato il mio interesse. Esistevano realmente società segrete, custodi di un’antica conoscenza, prima della fine dell’ultima era glaciale 12.000 anni fa e oltre? Abbiamo la prova fisica di tale società segreta a Göbekli Tepe? Cosa accadde a questa e ad altre società segrete quando avvenne il disastro provocato dai cataclismi della fine dell’era glaciale nel 9700 a.C.? La loro conoscenza e saggezza furono perdute? Oppure i frammenti di questa furono preservati e trasmessi alle generazioni successive, forse fino al presente? Alcuni giorni dopo aver letto l’articolo di Hayden mi sono trovato a pensare al notevole filosofo, maestro, mistico e “cercatore” G.I. Gurdjieff (circa 1866/1877 – 1949, vi è disaccordo sull’anno di nascita). Ero già avvezzo all’autore attraverso i suoi scritti, specialmente attraverso il libro del suo discepolo P.D. Ouspensky (1878 – 1947) Frammenti di un insegnamento sconosciuto (1949). Ma l’evento che mi ha riportato in mente Gurdjieff è stata una conferenza tenuta al Center for Symbolic Studies (Tillson, New York) il 27-28 luglio 2013, in onore del mio amico e collega John Anthony West. JAW (come lo chiamano gli affezionati) non solo mi presentò la Grande Sfinge nel 1990, innescando i miei seri studi sulle antiche culture, ma, essendo un “gurdjieffiano”, mi introdusse alle idee del profondo pensatore. Mentre fornivo una presentazione incentrata sulla Sfinge e Göbekli Tepe, uno degli altri relatori, Jason Stern (un moderatore dei gruppi di studio di Gurdjieff) pose l’attenzione su Gurdjieff e i suoi insegnamenti. Nelle successive due settimane ho riletto e analizzato vari aspetti delle sue asserzioni, chiedendomi se realmente non rappresentassero frammenti di un antico e sconosciuto (o almeno solo parzialmente noto) insegnamento. È possibile che egli, come dichiarava, avesse recuperato porzioni di un’antica sapienza che risaliva a migliaia di anni prima, forse alla società segreta di Göbekli Tepe? Il nocciolo dell’insegnamento di Gurdjieff è che la maggior parte delle persone per la maggior parte del tempo è “addormentata” (seguendo in maniera ipnotica la routine della vita quotidiana), ma attraverso il lavoro interiore è possibile trascendere questo stato, raggiungendo una coscienza “più elevata” e un potenziale più ricco. Gurdjieff stava cercando (e forse, per se stesso, lo aveva trovato) un sistema unificato che comprendesse “Tutto e Ogni cosa” (l’omnicomprensivo titolo dei suoi principali scritti) che include un universo intrinsecamente significativo e un posto e una funzione per l’umanità all’interno di tale universo.
Arte Oggettiva e Anima
Due aspetti degli insegnamenti di Gurdjieff, entrambi i quali credo possano aiutare a chiarire il significato e lo scopo di Göbekli Tepe (sebbene a mio parere il sito sia molto di più e vada ben oltre tali principi) sono: 1) Il concetto di “arte oggettiva”; 2) Le idee di Gurdjieff riguardanti lo sviluppo dell’anima umana. L’arte oggettiva è quella da cui ognuno riceve la stessa informazione, presenta conoscenza e sapienza codificate al suo interno, che a sua volta può essere trasmessa agli osservatori e ai fruitori di arte. Come esempio di arte oggettiva, alla conferenza di cui sopra Jason Stern ha citato la Sfinge. L’arte oggettiva si lega all’antico concetto di simboli e all’abilità di comprendere e trasmettere informazioni senza parole e in una forma più universale di ogni linguaggio specifico. È questo uno dei fattori coinvolti nella qualità artistica delle incredibili sculture e dei bassorilievi di Göbekli Tepe? Sospetto che i costruttori e utilizzatori del sito fossero molto più avanzati nel loro uso di arte e simbolismo di quanto lo siamo oggi. Per interpretare la loro arte dobbiamo imparare a pensare, sentire e reagire nel loro modo. Secondo Gurdjieff, uno dei più importanti compiti di un essere umano durante la sua vita fisica sulla Terra è lo sviluppo dell’anima. Un’anima immortale non è un diritto di nascita. Piuttosto, un’anima integrata «che può resistere alla forza e allo shock della morte» (per citare Jason Stern) deve essere sviluppata, un processo che Gurdjieff chiama “cristallizzazione” e che si realizza con un duro lavoro interiore. Una bellissima colonna di pietra scolpita, chiamata in maniera colloquiale “totem di pietra”, è stata trovata a Göbekli Tepe. Dalla cima alla base mostra le teste e le braccia di tre figure, progressivamente più piccole discendendo lungo la scultura. Le teste e facce delle due figure superiori sono danneggiate e poco chiare, ma la terza è nitida. E questa terza figura apparentemente sta tenendo qualcosa tra le braccia, che assomiglia vagamente a un vaso o ciotola, ma che potrebbe anche essere una testa, forse simbolica di una donna che partorisce. Infatti, l’intera scultura può essere interpretata come rappresentante una generazione che dà alla luce la successiva, che a sua volta dà alla luce la seguente – un lignaggio di antenati e discendenti. Ma un’altra caratteristica della scultura sono due serpenti, ciascuno su un lato della colonna, che si innalzano dalla base della statua. I serpenti, che gettano la propria pelle e quindi rinnovano loro stessi, sono spesso usati per simbolizzare la vita eterna. Potrebbe questa antica scultura illustrare i due grandi principi di Gurdjieff dell’arte oggettiva e dello sviluppo o cristallizzazione della psiche, dell’anima? Questo concetto di cristallizzazione, di integrazione dei componenti dell’anima, è un tema trovato tra diverse antiche tradizioni indigene successive di tutto il mondo, incluse le tradizioni sciamaniche e l’antico concetto egizio dei numerosi corpi psichici o aspetti umani, che devono essere tenuti insieme in modo da assicurare un’esistenza continuativa al di là dell’esistenza fisica terrena.
Antiche fratellanze
Gurdjieff fu molto chiaro sul fatto che i suoi insegnamenti non originarono da lui. Egli insisteva «che i principi e metodi di lavoro per la creazione di sé erano conosciuti nell’antica Babilonia» e i vari metodi che insegnava a realizzare il lavoro interiore erano derivate «da diverse fonti che andavano dall’Abissinia all’Estremo Oriente» (J.G. Bennett, Discorsi sui Racconti di Belzebù). Da giovane, Gurdjieff si convinse «che vi fosse davvero un qualcosa che la gente in passato conosceva, ma adesso questa conoscenza è stata dimenticata» (Gurdjieff, Incontri con uomini straordinari). Il padre di Gurdjieff veniva da una famiglia greca stanziata in Turchia, da lì si spostò in Georgia e successivamente in Armenia, dove sposò una locale e dove nacque suo figlio, G.I. Gurdjieff. Il padre era un ashokh (poeta) che, attuando prodigiose imprese mnemoniche, portò avanti la tradizione, trasmessa oralmente attraverso innumerevoli generazioni, di recitare a memoria storie e poemi. Quando era ancora un ragazzo, alla fine del XIX secolo, Gurdjieff udì suo padre recitare l’Epopea di Gilgamesh, inclusa la parte concernente la storia di un grande diluvio. Anni dopo Gurdjieff si imbatté in Gilgamesh in un altro contesto, come racconta nel seguente passaggio: «Un giorno lessi in una rivista un articolo in cui si riferiva che tra le rovine di Babilonia furono trovate alcune tavolette con iscrizioni che, secondo gli studiosi, avevano almeno 4.000 anni. La rivista pubblicava anche le iscrizioni e il testo decifrato – era la leggenda dell’eroe Gilgamesh. Quando realizzai che si trattava della stessa leggenda che avevo così spesso ascoltato da bambino da mio padre e particolarmente quando lessi in questo testo il ventunesimo canto (sul grande diluvio) della leggenda quasi nella stessa forma di esposizione dei canti e racconti di mio padre, provai una tale eccitazione come se il mio intero destino futuro dipendesse da tutto ciò. E fui colpito dal fatto, per me inspiegabile, che tale leggenda era stata custodita dagli ashokh di generazione in generazione per migliaia di anni ed era giunta fino a noi quasi immutata» (Gurdjieff). L’Epopea di Gilgamesh è antica di oltre quattromila anni e Gilgamesh, come figura storica, risale probabilmente alla prima metà del III millennio a.C., forse al 2700 a.C. circa. Ma non fu solo la leggenda del diluvio che Gurdjieff ascoltò da suo padre! «Vi fu un’altra leggenda che udii da mio padre sul “diluvio prima del diluvio”, che dopo questo evento acquistò per me un particolare significato. In questa leggenda veniva detto, anche in versi, che molto, molto tempo fa, qualcosa come settanta generazioni prima dell’ultimo diluvio (e una generazione era contata come un centinaio di anni), quando vi era terra arida dove ora c’è acqua e acqua dove ora c’è il deserto, esisteva sulla terra una grande civiltà… Gli unici sopravvissuti del più antico diluvio erano membri della fratellanza dei passati Imastun (uomini sapienti), che avevano costituito un’intera casta diffusa su tutta la terra…» (Gurdjieff, 1969). Accettando la data del 2700 a.C. per Gilgamesh, se il “diluvio prima del diluvio” accadde settemila anni prima, avrebbe avuto luogo nel 9700 a.C., che è esattamente la fine dell’ultima era glaciale e l’epoca delle parti più antiche di Göbekli Tepe, nonché molto vicina alla datazione di Platone della distruzione di Atlantide. È una semplice coincidenza? O gli Ashokh realmente raccontavano eventi che accaddero alla fine dell’ultima era glaciale? Un importante evento di plasma solare potrebbe vaporizzare grandi quantità di acqua da laghi e oceani, che a loro volta potrebbero precipitare come pioggia continua e causare un’estesa inondazione. E che dire della Fratellanza di Imastun? Se fosse stata reale, uno dei suoi luoghi di incontro potrebbe essere stato Göbekli Tepe? La Fratellanza di Imastun non è proprio l’unica antica società “segreta” che Gurdjieff menziona nei suoi scritti. Egli parla anche dei Sarmoung, «una famosa scuola esoterica che, secondo la tradizione, venne fondata a Babilonia nel 2500 a.C. e che esisteva da qualche parte in Mesopotamia fino al VI o VII secolo d.C. Si dice che questa scuola possedesse una grande conoscenza, contenendo la chiave di molti misteri segreti» (Gurdjieff). Infine, egli dichiarò di aver visitato il monastero principale della Fratellanza di Sarmoung, situato in un luogo ignoto nell’Asia centrale. Il racconto di Gurdjieff non è nient’altro che una fantasiosa allegoria? Forse, ma solleva la questione di una conoscenza esoterica trasmessa da una società segreta lungo il corso di migliaia di anni.
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qualcuno saprebbe elencarmi dei film anni '70 - '80 e '90 dove compaiono , anche se velati, riferimenti alla Massoneria?
Che io sappia, anche in Indiana Jones e Ladyhawke qualcosa dovrebbe comparire
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Articolo di Fabio Feminò
Secondo gli ambientalisti, oltre a provocare gigantesche estinzioni di piante e animali, stiamo consumando troppe risorse terrestri. In particolare, il libro I limiti dello sviluppo, di Autori Vari (1972), punto il dito su vari metalli, affermando che si sarebbero esauriti presto. Non e ancora avvenuto, e forse non accadra mai. Anzi, ci sono indizi che una massiccia estrazione di alcuni elementi trovati negli strati geologici in quantita molto superiori a quelle naturali si sia gia verificata decine o centinaia di milioni d’anni fa, a opera di razze non-umane che avrebbero abitato la Terra prima dell’avvento dell’Uomo. Adam Frank, astrofisico dell’Universita di Rochester, e Gavin Schmidt, direttore del Goddard Institute for Space Studies della NASA, hanno indicato numerosi indizi dell’esistenza di remotissime civilta fondate da queste razze in un saggio apparso nel maggio 2018 sull’International Journal of Astrobiology. Riguardo all’odierna civilta umana, Frank e Schmidt scrivono che «le quantità di alcuni elementi in circolazione, come piombo, cromo, antimonio, terre rare, platino e oro, sono ora molto più grandi delle loro fonti naturali». Allo stesso modo, fanno notare che la concomitanza fra ecatombi di creature viventi e consumo di metalli sembra essere accaduta piu volte. «La grande estinzione alla fine del Permiano (252 milioni d’anni fa) fu preceduta da un picco nella presenza di nichel. Durante il Giurassico (183 milioni di anni) e il Cretaceo (132-93 milioni di anni) altre estinzioni di massa videro incrementi nella concentrazione di metalli (inclusi arsenico, bismuto, cadmio, cobalto, cromo, nichel, vanadio) e di zolfo. Il “massimo termico” della transizione fra Paleocene ed Eocene (56 milioni di anni or sono), oltre a estinzioni di massa, vide un picco d’abbondanza di molti metalli (inclusi vanadio, zinco, molibdeno, cromo)». Come tutti gli scienziati che accampano ipotesi fantascientifiche, Frank e Schmidt mettono prudentemente le mani avanti, dichiarando che «Pur essendo tentati di leggere qualcosa in questi eventi, dev’essere ricordato che la maggior parte delle cose accadute 50 milioni di anni fa resteranno per sempre alquanto misteriose». Tuttavia, gli indizi lascerebbero presumere che civilta anteriori all’uomo abbiano scavato anch’esse delle miniere, costruito oggetti (forse gioielli fatti di molibdeno e vanadio, invece di oro e argento), e lasciato rottami ridotti poi in pulviscolo atomico.
Il vaso di Dorchester
Ma non tutti: alcuni manufatti sepolti tra le rocce potrebbero essersi mantenuti intatti, e lo zoologo Ivan T. Sanderson li battezzo OOPArts, cioe “Out Of Place Artefacts”, trovati anch’essi in strati geologici anteriori alla comparsa dell’Homo sapiens sulla Terra. E fra la panoplia di queste “cose” emerse dagli abissi terrestri, il piu celebre manufatto metallico fu senza dubbio quello scaturito a Boston, nel Massachusetts, e che il 5 giugno del 1852 ebbe l’onore di essere menzionato nientemeno che nel prestigioso Scientific American. «Pochi giorni fa una potente esplosione è stata prodotta nella roccia alla Meeting House Hill, nel quartiere di Dorchester. Lo scoppio ha prodotto un’immensa quantità di pietrame, scagliando piccoli frammenti in tutte le direzioni. Tra di essi è stato raccolto un vaso metallico in due parti, per la frattura provocata dall’esplosione. Rimesse insieme le due parti, queste formano un vaso a forma di campana, alto 11,4 cm, 16,5 cm alla base, 6,3 cm alla sommità e di circa tre millimetri di spessore. Il corpo di questo vaso assomiglia nel colore allo zinco, o a una lega metallica in cui c’è una considerevole percentuale d’argento. Sui lati vi sono 6 figure d’un fiore, o un bouquet, splendidamente intarsiato nell’argento puro, e attorno alla parte bassa del vaso una pergola, o tralcio, intarsiata anch’essa nell’argento. Il cesello, l’incisione e l’intarsio sono squisitamente eseguiti dall’arte di un abile artigiano. Questo strano e sconosciuto vaso era saltato fuori dalla dura roccia puddinga, 4,63 metri sotto la superficie. Adesso è in possesso del Signor John Kettell. Il Dr. J. V. C. Smith, che ha recentemente viaggiato in Oriente, e ha esaminato centinaia di curiosi utensili domestici, disegnandoli anche, non ha mai visto nulla che assomigli a questo. Egli ha fatto un disegno e preso accurate misure, da sottoporre ad esame scientifico. Non vi è alcun dubbio che questa curiosità sia saltata fuori dalla roccia, come sopra detto; ma vuole qualche scienziato dirci per favore come sia arrivata lì? L’argomento è degno d’investigazione, in quanto non vi è inganno nel caso». Il vaso si ignora che fine abbia fatto, ma ne circola una fotografia, non si sa se autentica (dato che mostra un oggetto intatto, non spezzato in due), pubblicata per la prima volta nel libro di Brad Steiger Worlds before Our Own (1978). Steiger scrisse di aver ricevuto una lettera dal suo attuale proprietario, di nome Milton R. Swanson, residente nel Maine: «Il vaso era stato donato all’Harvard College, ma a causa della sua origine misteriosa lo relegarono in un armadio. Finalmente un supervisore se lo portò a casa, e me lo vendette appena prima di morire. Nel corso degli anni l’ho fatto esaminare da cosiddetti esperti, e nessuno se n’è mai spuntato con una risposta. La sua età e uso sono del tutto inesplicabili. È quasi nero, ma il metallo è composto d’ottone con zinco, ferro e piombo. L’intarsio è in puro argento, e ho dovuto metterci sopra della lacca per proteggerlo. Il Museum of Fine Arts di Boston ha il migliore e più completo laboratorio del mondo, creato in cooperazione col MIT. Sono riuscito a fargli compiere ogni sorta di esame per due anni. Ancora nessuna risposta, quanto al suo periodo o origine». Dopo il decesso di Swanson nel 2005, ogni traccia dell’oggetto e andata persa. In base a questa foto, il mistero e ulteriormente infittito dalle dichiarazioni di un ricercatore italiano, Michele Manher, apparse sulla rivista Archeomisteri, gennaio-febbraio 2004, secondo cui «Le incisioni sul vaso riproducono piante estinte del carbonifero superiore. La piccola pianta disegnata per 6 volte sui fianchi del vaso sarebbe una Sphenophyllum laurae, risalente a 320 milioni di anni fa. Si tratta di piantine veramente piccole, delle stesse dimensioni, per esempio, del trifoglio. I ramoscelli che decorano il resto del vaso sarebbero invece di Sphenopteris goldenbergi, una pianta le cui foglioline erano davvero minuscole, paragonabili a quelle del nostro origano, cioè di qualche millimetro ciascuna ». Chi poteva fabbricare e decorare vasi metallici, 320 milioni d’anni or sono?
Il cuneo di Aiud
Nel 1983 il libro Enigme in galaxie, di Florin Gheorghita, fu il primo a rivelare che nella primavera 1974, nei pressi della cittadina di Aiud, in una cava di sabbia sulle sponde del fiume Mures, in Romania, furono disseppellite da 10 metri di profondita le ossa di un rinoceronte lanoso... e un ennesimo oggetto metallico inesplicabile, una specie di indefinibile cuneo molto ossidato, lungo 20,2 cm, largo 12,7 cm, alto 7 cm, con al centro un foro circolare del diametro di 4 cm, e con un foro perpendicolare piu piccolo. Aveva una forma perfetta, e faceva certamente parte di un meccanismo, ma nessuno e riuscito a immaginare quale. Il mistero fu ulteriormente infittito dal fatto che l’aggeggio, pesante 2,3 kg, era quasi del tutto composto di alluminio, metallo scoperto e prodotto solo nell’800. Ci sono anche ben 11 altri diversi elementi, come cadmio, nichel, bismuto e cobalto, anch’essi scoperti nel’700-800. L’oggetto di Aiud si trova fortunatamente al sicuro nel Museo di Storia della Transilvania a Cluj- Napoca (con un altro grosso buco moderno, evidentemente nel punto in cui venne prelevato del materiale per le analisi), e pare che nel frattempo se ne siano trovati altri.
La vite di Lanzhou
Dagli archivi di Joseph R. Jochmans, un defunto studioso autore dei piu approfonditi testi su questo settore, veniamo a sapere vagamente di OOPArts di gran lunga piu remoti nel tempo, come «ceramiche intricatamente modellate» rinvenute in Canada nel 1899, e risalenti al Cretaceo... 70 milioni di anni fa... «microscopici filamenti tubolari di natura artificiale» scoperti in Germania nel 2008 e provenienti dal Devoniano, 400 milioni di anni or sono, nonché «micro-sculture in lega di corindone» reperite nella Baia di Hudson, Canada, nel 1872, e originarie del Proterozoico, antiche di 1,2 miliardi di anni. Jochmans menziono anche, di sfuggita, che nel 1984, in Nepal, sarebbe stato reperito in strati del Triassico, 200-225 milioni di anni or sono, un cilindro di solido acciaio con intorno dei lucidi anelli d’ottone. Anche in questo caso non si ha la minima idea della sua origine o scopo. Recentemente, un altro minuscolo manufatto metallico e stato trovato in Cina dentro un piccolo sasso. Nessuno sa cosa sia. Jochmans la fa risalire al Miocene, 20-30 milioni di anni nel passato. Le uniche notizie sono riportate dal Lanzhou Morning News del 26 giugno 2002, secondo il quale «una pietra non comune di un collezionista di Lanzhou ha attirato enorme attenzione da molti esperti. Il sasso a forma di pera è estremamente duro e ha un misterioso colore nero. Misura circa 8 per 7 cm e pesa 466 grammi. La parte più sorprendente della pietra è il suo contenuto, una barretta metallica di 3 cm a forma conica, con la chiara filettatura di una vite. La vite di metallo era chiusa ermeticamente nel nero materiale roccioso. Inoltre, la larghezza del filetto rimane coerente alla sua impronta. Una delle ipotesi dice che questa pietra potrebbe essere una reliquia di una civiltà preistorica. Un’altra teoria è che si tratti di un meteorite, e che possa averci portato testimonianze di una civiltà extraterrestre ».
Una pietra del cielo
Dato che gli esseri pre-umani avrebbero presumibilmente eretto case e grattacieli come noi, esistono anche ritrovamenti di possibili antichissimi materiali da costruzione, usati da chissa chi e chissa quando. «Negli anni ’60» scrive l’ufologo Scott Corrales, «mentre il francese Louis Pauwels stava dando i ritocchi finali al suo classico Il mattino dei maghi, il suo co-autore, Jacques Bergier, ricevette da Miguel Cahen, uno dei direttori della compagnia mineraria Magnesita S.A., un esemplare di uno strano cristallo trovato ai confini della misteriosa regione dell’interno del Brasile nota come la “terra proibita”. All’analisi, questo si rivelò un frammento di carbonato di magnesio “di straordinaria trasparenza, con proprietà molto curiose nello spettro infrarosso, e che polarizzava tali radiazioni”, specifica Pauwels nel libro L’homme éternel, del 1970. Dato che secondo i testi di mineralogia quel cristallo non sarebbe dovuto esistere, Bergier si rivolse all’Ufficio Nazionale di Ricerche Aeronautiche francese, che stabilì che “poteva solo essere di origine artificiale”. Nessun ulteriore esame fu possibile, perché nessun altro materiale simile venne localizzato». Nel 1990 il geologo e archeologo italiano Angelo Pitoni, mentre lavorava per la FAO in Africa, ha rinvenuto in Sierra Leone un particolare tipo di pietra azzurra perfettamente trasparente, con sottili venature bianche, che ha battezzato Skystone. Ironicamente, gli indigeni la chiamavano... Kryptonite! Agli esami di laboratorio e risultata anch’essa una pietra sintetica, composta dal 77% di ossigeno, 20% di carbonio, e per il resto da silicio, calcio, sodio. Sembra artificiale pure il suo colore. «Pitoni» conclude Corrales, «parla anche di caverne nella stessa zona, che contengono mummie molto antiche e sono sorvegliate con zelo dai nativi, e della loro possibile origine “atlantidea”».
I diamanti neri
Un’altra ipotesi ancor piu fantastica viene presentata sempre da Joseph R. Jochmans, autore assai interessato all’idea di trovare qualche modo per ricevere testimonianze del passato direttamente dai nostri predecessori. «In Brasile e Africa centrale, si trova un particolare tipo di diamanti chiamati carbonados che sono simili alla pomice, scuri e talmente pieni di minuscole bollicine da non poter essere tagliati e levigati per ricavarne gemme. La loro conformazione generale è quanto mai diversa dagli altri tipi di diamanti che esistono al mondo, tanto che Stephen Haggerty, un geologo della Florida International University, ha concluso che i carbonados sono “totalmente incompatibili con un’origine naturale”. L’età di questi particolari diamanti è stata calcolata tra 2,6 e 3,8 miliardi d’anni fa. A causa della tettonica a placche e della deriva dei continenti, durante quel remoto periodo il Sudamerica e l’Africa erano uniti insieme, e dato che i carbonados non si trovano da nessun’altra parte che in quell’unica località, Haggerty sospetta che facessero parte di un’unica massa. E poiché non tutti i frammenti sono dello stesso colore... andando dal nero al grigio al verde al rosso... ciò è indicativo che dovevano essere racchiusi in qualche sorta di contenitori. Questi ignoti forzieri si sono completamente disfatti nel corso degli eoni, ma l’ineguale colorazione dei frammenti diamantiferi testimonia la loro passata esistenza. Forse i carbonados furono creati con uno scopo eoni fa... e se è così, è possibile che recassero dei dati nella loro matrice cristallina?».
Pavimenti… preistorici!
Altri ritrovamenti inquietanti sono quelli di antiche pavimentazioni. Lo stesso numero dello Scientific American che riferi del vaso di Dorchester racconto che a Fairmont, Virginia, era stata scoperta «una parte d’una strada regolarmente lastricata in macadam, lungo la sponda di un fiume. La sua ampiezza è di circa 4 metri e 80, e il letto di pietre sembra spesso circa 5 centimetri. La scoperta è stata resa possibile dal dilavamento del fianco d’una collina, che copriva parzialmente la strada. Quando e da quale gente sia stata tracciata questa via è attualmente ignoto, ma è la prova dell’esistenza di una popolazione in qualche precedente era del mondo, altrettanto progredita nella civiltà, o almeno nell’arte delle costruzioni stradali, di noi stessi». Sulla fanzine Shavertron, un certo Vaughn M. Greene parlo di un possibile ingresso sotterraneo vicino al pozzo di un ascensore nella diga Hoover, presso Las Vegas. Gli addetti alla costruzione della diga scoprirono «un pavimento intarsiato con segni dello zodiaco ». Il libro di Frank Edwards Strangest of All (1962) racconta che nel 1936 Tom Kenny, residente a Plateau Valley in Colorado, stava scavando una cantina quando, a tre metri dalla superficie, scopri un pavimento di piastrelle di 12 centimetri di lato. Jochmans gli da 20 milioni di anni, in pieno Miocene. A Blue Springs, Kentucky, degli operai scoprirono dapprima le ossa di un mastodonte a 4 metri di profondita, poi, un metro piu sotto, trovarono un altro lastricato artificiale simile a una strada. Nel 1952, nella contea di Nye, in California, uno scavatore di pozzi di nome Frederick G. Hehr trovo una catena di ferro assai corrosa che sporgeva dalla parete di un burrone, in mezzo al nulla. Sotto di essa c’erano «gli indubitabili frammenti di una strada lastricata». Verdetto di Jochmans, ancora 20 milioni di anni. Il ritrovamento meglio documentato avvenne nel 1969 in Oklahoma, lungo una strada fra Edmond e Oklahoma City, e le piastrelle erano un metro sotto la superficie. Sull’Edmond Booster del 3 luglio 1969, il geologo Durwood Pate commento: «Sono certo che sia un’opera artificiale perché le pietre sono disposte in perfette linee parallele, tutte rivolte ad est. La superficie è molto liscia. È tutto troppo ben ordinato per essere una formazione naturale». Un altro geologo di nome Delbert Smith dichiaro semplicemente al Tulsa World del 29 giugno: «È stato messo lì, ma non ho idea da chi». Jochmans lo data al Pleistocene, “appena” 200.000 anni fa.
La scrittura dei piccoli esseri
Fra i manufatti misteriosi non mancano neanche i possibili esempi di antichissima scrittura. Uno dei casi piu impressionanti di una possibile antica scrittura incastonata nella roccia fu investigato personalmente da Joseph R. Jochmans. La roccia verdastra si chiama olivina, e viene estratta per scopi industriali dai picchi chiamati Two Sisters, nello stato americano di Washington. «Nel 1961, un geologo dell’University of Washington di Seattle (che preferisce rimanere anonimo) fece un’escursione nella regione e raccolse vari campioni di minerali, incluso un pezzo d’olivina poco più grande di una palla da baseball. Quando più tardi ne scrutò la superficie al microscopio, notò nella roccia qualcosa di totalmente inaspettato... la presenza di centinaia di figurine metalliche intagliate con precisione, che formavano file di simboli tridimensionali. I simboli, tutti lunghi e alti meno di un millimetro, avevano minuscole braccia piegate ad angolo retto in varie configurazioni, e si ripetevano regolarmente a indicare una scrittura di tipo alfabetico. Il geologo concluse che erano fatti di qualche sorta di cristalli ferrosi artificiali. Ma quale fosse il significato complessivo, non seppe dirlo. Una cosa di cui il geologo fu certo è che quel pezzo fosse stato rotto da una massa più grande. Le file di lettere finivano bruscamente, e dovevano essere proseguite sulla superficie della vena madre. Ma dove poter riportare alla luce la parte rimanente di quel messaggio incredibilmente antico?». Da allora, il geologo non fece altro che cercare i pezzi mancanti, ma invano. I simboli richiamano alla mente la lettera T, la L, croci, cubi. Nel 1997, ormai anziano, dono la roccia a Jochmans. «Non trovò alcun duplicato della sua scoperta originale. Il suo più grande timore era che le attività minerarie potessero star distruggendo importanti reliquie dell’ignoto passato. Oggi, mentre scrivo questo, il campione è su uno scaffale accanto al mio tavolo. Una recente perizia geologica svolta nel 2009 indica che i più antichi strati di olivina nelle fondamenta del massiccio, profonde due miglia, sarebbero vecchi almeno 4,1 miliardi di anni. Quel pezzo faceva forse parte di un affioramento di questa olivina primordiale? L’impossibilità di trovare alcuna roccia simile mostra che veniva da una fonte molto rara e molto antica. È possibile che vita intelligente... esseri tanto avanzati da aver sviluppato una forma di comunicazione scritta, e che sapevano forgiare la loro scrittura alfabetica in forme metalliche... possa essersi evoluta e aver abitato la Terra primeva, così tanto tempo fa?» La pietra alfabetica e altri ritrovamenti di micro-artefatti citati prima fanno pensare che dovettero essere opera di creature minuscole, dotate inoltre di vista “a raggi X” per percepire anche le parti nascoste dei caratteri metallici. L’oggetto potrebbe oggi trovarsi in possesso della vedova di Jochmans. La sua morte ha impedito ulteriori analisi.
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Articolo di Angelo Virgillito
Cosa ci spinge a scavare nel nostro passato? E il desiderio di conoscenza o semplicemente l’inconscia reazione a un antico principio oppure a un futuro gia vissuto, per vivere un presente, con una diversa consapevolezza? Nella vana ricerca di risposte ci rendiamo conto che il tempo e lo spazio sono concetti relativi, sui quali l’uomo moderno puo soltanto fantasticare, congetturando tesi e ipotesi poste ai confini della stessa esistenza umana. Scopriremo mai la Storia della nostra genesi? Forse si! Ma non sara merito dell’uomo terrestre, perché egli vive racchiuso in quei concetti religiosi e paradigmi materialistici ai quali e stato spinto a credere. Soggiogato nel corso della sua evoluzione dalle imposizioni religiose e sociali, ha dovuto riadattarsi perdendo, con il trascorrere del tempo, la propria connessione con l’unicita dell’essere. Di conseguenza, ogni concetto filosofico o di natura scientifica che sia, sul “chi siamo” o da “dove veniamo”, se pur esternato con un’impeccabile e audace retorica, distorce senza chiarire ogni brandello di memoria che lega l’uomo al suo passato, facendolo allontanare sempre piu dalla sua condizione primeva.
Il popolo venuto dal cielo
In molti, e sin dall’epoca classica, si sono cimentati nel vano tentativo di spiegare la provenienza della razza umana. Hanno cercato la genesi dell’uomo nei concetti filosofici e metafisici; altri hanno svolto ricerche empiriche e scientifiche per carpirne i segreti, ma ben poche sono state le risposte. Molte tesi proposte da eminenti studiosi arrancano con caparbieta per dimostrare l’infondatezza della teoria degli antichi astronauti, altre si spingono a congetturare i piani sottili dei concetti metafisici. Eppure, ancora oggi, esistono culture che custodiscono gelosamente un’altra storia, un altro Principio, sulle origini della razza umana, che si pone in netto contrasto con quanto ipotizzato dalla scienza ufficiale. Ad accendere forti dubbi e perplessita negli studiosi di tutto il mondo sono i voluminosi documenti, in parte riportati alla luce durante scavi archeologici, che narrano le cronache di un popolo, o forse piu di uno, disceso dal cielo, che dono agli uomini parte della loro conoscenza, raggruppata nelle antiche credenze, che sono state tramandate da una generazione all’altra da tutte le culture del pianeta. Sumeri, Egizi, Maya, Aztechi, Indiani dell’India, le antiche tribu africane dei Dogon, gli aborigeni australiani, solo per citarne alcune, custodiscono nelle loro tradizioni culturali e religiose un patrimonio antropologico che racconta la storia della loro discendenza ancestrale, che non e quella ipotizzata dall’ortodossia canonica e tutte si concretano nella frase: a creare l’uomo moderno furono gli dei che dal cielo scesero sulla Terra.
Il Dna saltellante
Per meglio comprendere un siffatto panorama ancestrale dovremmo spaziare tra le migliaia di studi, condotti in questi ultimi decenni da eminenti scienziati, che coprono l’intero contesto dello scibile umano. Tuttavia uno degli argomenti piu spinosi sul quale si dibatte da decenni e la strana sequenza del Dna umano. Il genetista orientale Sam Chang, ad esempio, considerato uno dei maggiori sostenitori della teoria non terrestre dell’uomo, insieme alla sua équipe, dopo anni di studi e ricerche, ha ipotizzato che alcuni particolari geni, definiti “geni spazzatura”, che costituiscono circa il 98,5% del genoma umano e le cui sequenze non sono codificanti, risultano essere del tutto inattaccabili da un punto di vista farmacologico e, di conseguenza, non possono essersi evoluti naturalmente sulla Terra, ma sarebbero di provenienza non terrestre. Molti commentatori, infatti, alla luce di ultime scoperte nel campo della genetica sostengono che una parte cospicua del nostro DNA, in altre parole quella definita erroneamente dalla scienza “Dna spazzatura”, e composta di elementi genetici mobili (trasposoni e retrotrasposoni), detti anche “DNA saltellante”, in grado di riscrivere e attivare – o disattivare – dei codici genetici. Il microbiologo William Brown ritiene che, attraverso specifiche disposizioni conformazionali, il Dna Satellite si colleghi al “Campo Morfico”, scoperto dal biologo inglese Rupert Sheldrake, secondo cui ogni specie, e ogni membro di ogni specie, attinga alla memoria collettiva della specie, si sintonizzi con i membri passati della specie e, a sua volta, contribuisca a un nuovo sviluppo della specie, comportando una sorta di “risonanza” fra gli individui e i gruppi della specie. Ad esempio, nel caso umano sono evidenti nei sottogruppi, nelle razze, nelle etnie, nelle gens, nelle famiglie, ecc… Tuttavia, membri della comunita scientifica che hanno analizzato la teoria della risonanza morfica, enunciata per la prima volta dal Rupert Sheldrake, secondo il quale tale risonanza implica un universo non meccanicistico governato da leggi che sono esse stesse soggette a cambiamenti, hanno sentenziato che le sue affermazioni sconfinino nella pseudoscienza.
Il gene che cambia tutto
La notizia risale a qualche anno addietro e in breve tempo si e diffusa in tutte le sedi accademiche e scientifiche del pianeta, accendendo la fantasia di molti ricercatori, che hanno avviato una serie di analisi parallele per scoprirne la particolarissima struttura e capire il perché, rispetto al resto dei geni che costituiscono la doppia elica del nostro genoma, tali genispazzatura sono delle roccaforti inaccessibili. Si e anche ipotizzato che il loro nucleo sia composto da matrici sulle quali insistono tutte le informazioni che stanno alla base della Creazione, compreso l’uomo. Si tratta di una teoria molto allettate, concettualmente molto fantasiosa, eppure, da quanto ricavato dalle cronache semitiche, quando gli antichi dei iniziarono i primi esperimenti per creare dei servitori che sostituissero gli Anunna(Ki) nel faticoso lavoro nelle miniere africane, fallirono miseramente, nonostante il loro elevato grado di conoscenze. Ma i ricercatori si sono spinti oltre. Uno studio internazionale, pubblicato agli inizi del 2012, patrocinato dal Ministero della Scienza e della Tecnologia della Repubblica Popolare Cinese con il supporto finanziario della National Science Foundation della Cina (sviluppato dopo la scoperta dei microRNA, di cui l’acronimo miRNA, piccole molecole endogene di RNA non codificante, a singolo filamento, e definiti dal corpo scientifico come “geni spazzatura”), ha dimostrato l’esistenza di un particolare gene, il MIR 941, apparso improvvisamente nella struttura genetica umana tra i 6 milioni e un milione di anni fa, che giustificherebbe il passaggio dell’ominide del genere Homo Erectus a Sapiens e che si ritiene sia la causa che ridisegno la struttura celebrale e gli organi interessati al linguaggio (corde vocali, laringe ecc.). Pur ammettendo che il gene MIR 941 fu innestato in un periodo compreso tra i 6/1 milioni di anni fa, chi o cosa ne determino la causa? Gli scienziati preferiscono non rispondere a questa domanda, perché non hanno testimonianze, quindi dati sugli eventi di quel lontano passato; eppure una tesi, largamente condivisa, sostiene che l’improvvisa comparsa di questo gene nella struttura del genoma umano sia uno dei tanti “indirizzamenti” compiuti da una razza superiore per permettere all’Erectus di evolvere secondo determinate specifiche genetiche e conformanti alla “fisica” della Creazione. Le difficolta sono innumerevoli e mettono in evidenza le agguerrite problematiche avanzate dagli accademici e dagli scienziati che supportano le teorie profuse dalla scienza ortodossa in contrapposizione ai ricercatori che avallano la teoria degli antichi astronauti.
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Il ritrovamento di lame di 400.000 anni fa pone una questione: la manifattura delle lame non è un'esclusiva capacità degli uomini moderni?
Gli archeologi dell'Università di Tel Aviv hanno scoperto migliaia di attrezzi lunghi e taglienti alla grotta di Qesem presso Tel Aviv.
La scoperta, annunciata lunedè scorso, pone la questione se la manifattura delle lame non è un'esclusiva capacità degli uomini moderni, nata per opera dell'Homo Sapiens nel corso del Paleolitico superiore, 30-40.000 anni fa. La produzione di migliaia di lame significa che si trattava di oggetti di uso comune già 400.000 anni fa.
Il Prof. Avi Gopher, il Dr. Ran Barkai e il Dr. Ron Shimelmitz del TAU's Department of Archeology and Ancient Near Eastern Civilizations dichiarano di avere scoperto che l'industria Amudiana di produzione delle lame risale al basso Paleolitico, tra 200.000 e 400.000 anni fa, come parte del complesso culturale Acheulo-Yabrudiano.
Quel gruppo di ominidi, geograficamente limitato, viveva nei territori degli attuali stati d'Israele, Libano, Siria e Giordania. La tribò includeva ominidi risalenti al genere Pan (il comune scimpanzé ed il bonobo), i loro antenati e quelli di un lignaggio poi estinto.
Le lame, recentemente descritte nel Journal of Human Evolution, sono il prodotto consapevole di un'evoluzione produttiva, afferma Barkai.
Dalla scelta del materiale grezzo ai modi di produzione, si rivela una consapevolezza ed un metodo sofisticato, che non si pensava potesse risalire se non a diverse migliaia d'anni dopo.
Benché lame siano state trovate in antichi siti archeologici in Africa, Barkai e Gopher dicono che quelle da loro scoperte nella grotta di Qesem sono diverse, perché si presentano come il prodotto di una tecnologia più sofisticata.
Secondo i ricercatori del TAU, questa fu forse la prima volta che si produssero oggetti con tecniche standardizzate, in modo da ridurre al minimo gli sprechi del materiale grezzo.
La Prof. Cristina Lemorini dell'Università della Sapienza, Roma, ha condotto un'attenta analisi al microscopio dei segni sulle lame ed esperimenti per determinare quali attrezzi fossero usati per la loro lavorazione.
"Nelle grotte è evidente che si accendeva quotidianamente il fuoco, cosa nuova per le conoscenze archeologiche, " ha detto Barkai. Infatti non si sapeva che la cultura degli Amudiani conoscesse il fuoco. E' anche evidente una suddivisione degli spazi all'interno della grotta di Qesem. Ciascuno spazio aveva una precisa funzione d'uso.
Le prede di caccia, ad esempio, erano macellate in un posto ben preciso, cotte e poi condivise tra il gruppo, mentre le pelli venivano lavorate in un altro luogo.
fonte www.antikitera.net/news.asp?id=10904&T=2
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Si sa se ha un nome?
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l'Universo è talmente vasto
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Manuel Fernandez Munoz
Esistono numerose prove documentali, archeologiche, bibliche e tradizionali che indicano una verità scomoda per la Chiesa: Gesù aveva fratelli e sorelle in carne e ossa e che questi hanno avuto un ruolo importante nei primi tempi del Cristianesimo.
I PRIMI INDIZI
Da quando ho visitato per la prima volta la Terra Santa nel 2002, ho cercato scuse per tornare, ed è proprio una di queste scuse che ha piantato il seme per questo articolo. Come molti altri luoghi in Israele, Nazareth risuona in me con la promessa di quelle enclavi dove si può andare per riconnettersi con il sacro. Salendo la collina su cui sorge la cittadina, troviamo sulla destra la Basilica dell’Annunciazione, inconfondibile con la sua cupola centrale a forma di faro, che cerca di trasmettere il messaggio che Gesù è cresciuto in questo luogo fino all’inizio della sua vita pubblica. Il solenne edificio è diviso in due livelli. Nella basilica superiore, dove si trova l’altare maggiore, sono esposte diverse immagini della Vergine con le relative dediche, donate principalmente da Paesi a maggioranza cattolica. Ma forse la parte più interessante dell’edificio si trova al piano inferiore. Scendendo verso la cripta, protetta da un traliccio nero, si trova la casa dove si suppone abbia vissuto la Vergine Maria e dove le apparve l’angelo Gabriele per portarle la buona novella di Gesù (Luca 1; 2638). Dopo aver esaminato ogni dettaglio della stanza, prima di tornare nuovamente al piano superiore, ho voluto fermarmi a riposare all’estrema sinistra del recinto, dove uno strano mosaico sotto i miei piedi ha attirato prepotentemente la mia attenzione. Le tessere, che per qualche motivo cercavano di passare inosservate, rivelavano una leggenda in lingua greca che recitava: «A Conone, diacono di Gerusalemme». Dopo qualche minuto, quando il frate francescano che mi faceva da cicerone venne a prendermi, indicai con il dito il mosaico e gli chiesi chi fosse questo Conone di cui non avevo mai sentito parlare. Con voce nervosa e occhi agitati, l’uomo mi afferrò per la spalla e mi allontanò senza dire una parola, il che non fece che aumentare la mia curiosità, incidendo nella mia memoria un nome che avrei presto cercato al mio ritorno all’Hotel King David di Gerusalemme. Secondo Alban Butler, agiografo del XVIII secolo, San Conone nacque in Galilea, più precisamente a Nazareth. Nel 249 d.C., dopo essere andato in esilio in Panfilia (Turchia), fu arrestato dall’esercito dell’imperatore Decio, che aveva appena proclamato un editto di persecuzione contro i cristiani. Il prefetto romano gli propose di fare un sacrificio agli dei per la protezione dell’imperatore in cambio della sua vita, che il santo rifiutò. Il funzionario volle allora conoscere il suo nome e il suo lignaggio, al che il santo rispose: «Mi chiamo Conone e appartengo alla famiglia di Cristo».
I SEI FRATELLI DEL MESSIA
Dopo questa curiosa dichiarazione, il prefetto gli fece piantare dei chiodi nei piedi e lo fece correre davanti a un carro trainato da cavalli fino a fargli perdere i sensi; a quel punto ne approfittò per ucciderlo ferocemente. I primi cristiani, per esaltare la sua memoria - intorno al IV o V secolo - realizzarono un mosaico in suo onore proprio nel luogo in cui si suppone abbia vissuto prima di trasferirsi in Panfilia, cioè a Nazareth, accanto alla casa della Vergine Maria. Sebbene si possa sostenere che, quando Conone proclamava di appartenere alla famiglia di Cristo, intendesse in realtà professare la fede cristiana, ciò è in contrasto con quanto affermato dai padri della Chiesa primitiva, che nelle loro cronache affermano che Conone era figlio di uno dei fratelli di Gesù. Pertanto, il fatto che Conone fosse in realtà un nipote di Cristo potrebbe aver innervosito i governanti curiali romani, che sembrano più a loro agio nel cercare di inculcare nella mente dei loro fedeli la figura di un Gesù sofferente e solitario, accompagnato solo dalla madre nei momenti più tragici della sua vita. Forse per questo avrebbero cercato di occultare il mosaico, nascondendolo sotto i tralicci per non dover rispondere a domande scomode come la mia. Tuttavia, nonostante i biechi interessi ecclesiastici, nella Bibbia troviamo diversi riferimenti ai fratelli di Cristo. Matteo, che fu con Gesù durante tutto il suo ministero, scrisse nel suo Vangelo i nomi dei fratelli uno per uno: «Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda»; e si chiede anche: «Le sue sorelle non sono forse tutte con noi?» (13; 54-55). Anche Egesio, storico giudeo-cristiano del II secolo, riporta i nomi delle sue sorelle: Salomè e Susanna.
LA GRANDE BUGIA DELLA CHIESA
Giulio Africano, che compilò le sue Cronache intorno all’anno 220, chiamò i parenti di Gesù con il curioso appellativo di “Desposini”, e li collocò principalmente nella regione di Khokhaba - Giordania - oltre che a Nazareth, dove quasi cinquant’anni dopo troviamo Conone. Sia Egesio che Eusebio di Cesarea, vescovo del IV secolo, raccontano che l’imperatore Domiziano, spaventato come Erode dalla venuta del Messia, emanò un editto di persecuzione contro i discendenti del re Davide, motivo per cui molte spie indicarono due nipoti di Giuda, il fratello di Gesù, come di stirpe davidica e legati anche al Movimento Nazareno. Dopo essere stati arrestati, furono immediatamente portati davanti a Cesare, che chiese loro se fossero davvero discendenti di Davide, al che entrambi affermarono di esserlo. Poi chiese loro quali fossero i loro beni e il loro patrimonio. Essi, mostrando i calli sulle mani, risposero che erano solo due poveri contadini che vivevano del duro lavoro di coltivazione di un piccolo appezzamento di terra che possedevano e che guadagnavano appena il necessario per vivere. In seguito l’imperatore volle sapere di Cristo, che tipo di regno fosse il suo e quando sarebbe tornato, così gli spiegarono che il regno dei cieli non era un luogo terreno, ma angelico, e che il loro prozio sarebbe tornato alla fine dei tempi per giudicare i vivi e i morti, ripagando ciascuno secondo le sue opere. Sminuendoli, Domiziano li liberò e ritirò l’editto di persecuzione contro i discendenti di Davide. Sia i Vangeli che i primi Padri della Chiesa, con Egesippo, Eusebio di Cesarea, Giulio Africano e Tertulliano in testa, non avevano problemi a considerare che Gesù avesse fratelli e sorelle in carne e ossa. Anche San Paolo, il divulgatore del messaggio di Cristo tra i pagani, nomina i fratelli del Messia nelle sue lettere, incontrandone almeno uno, secondo le sue stesse parole: «Dopo tre anni salii a Gerusalemme... ma non vidi nessuno degli apostoli, tranne Giacomo, il fratello del Signore» (Galati 1, 18-19). In realtà, la maggior parte dei parenti di Gesù era ancora in vita quando questi testi furono scritti, quindi osare negare la loro esistenza sarebbe stato assurdo. Tuttavia, man mano che le prime generazioni di giudeo-cristiani si estinguevano, e con loro i parenti del Signore, i dogmi dei nuovi dottori della Chiesa romana venivano a imporsi, talvolta in modo assurdo e ripugnante, sulla realtà storica. Dopo aver elevato Yeshua-Gesù al rango di Dio nel Concilio di Nicea del 325, si sono dilettati a inventare ogni sorta di imbroglio su sua madre. Con il dogma della verginità perpetua di Maria - introdotto nel Concilio Lateranense, ma difeso fin dall’alba del III secolo - secondo cui ella non avrebbe mai smesso di essere vergine prima, durante o dopo il parto, le parole dei primi narratori cristiani e degli amici intimi di Gesù divennero meno importanti delle elucubrazioni dei papi successivi, che, inutile dirlo, non conoscevano né Cristo né nessuno dei suoi apostoli. Subito dopo che i parenti di Gesù dall’altra parte del Giordano si espressero contro il dogma della verginità perpetua di Maria, furono drasticamente e definitivamente denigrati e messi a tacere. Epifanio di Salamina, un vescovo del IV secolo, si scagliò contro di loro come anti-dicomariani per aver sostenuto, non a caso, che dopo aver dato alla luce Gesù, Maria ebbe altri figli con suo marito Giuseppe. Tuttavia, nonostante le critiche del difensore dell’ortodossia cattolica, nella Bibbia troviamo non solo i nomi dei fratelli di Gesù, ma anche indicazioni sufficienti per pensare che Maria abbia avuto altri figli carnali. Nel testo di Luca 2:7 troviamo questa affermazione: «E Maria diede alla luce il suo figlio primogenito». Il termine primogenito - prototokos - è composto da due parole: proto, che significa primo, e tokos, che significa generare. Pertanto, la parola primogenito significa “primo figlio”. Nella cultura ebraica, questa parola veniva usata per dare la preminenza a una prole rispetto a un’altra. Pertanto, il fatto che l’evangelista l’abbia usata in questo contesto e che i capitoli successivi (8; 19) nominino i fratelli di Gesù, può solo indicare che Maria doveva avere più figli. Altrimenti Luca avrebbe usato la parola unigenito - monogenes, figlio unico - come ha fatto Giovanni nel suo Vangelo per assicurarci che Gesù era l’unico figlio di Dio: «Dio ha voluto così il mondo da mandare il suo figlio unigenito» (3, 16).
PROVA DEFINITIVA
Fino all’invenzione della stampa nel 1436 e alla successiva traduzione dei Vangeli in volgare nel 1522, la gente non era in grado di contrapporre ciò che la Chiesa diceva e faceva a ciò che Gesù diceva e faceva. Tuttavia, verso la metà del XVI secolo, nonostante molti vescovi vietassero ai loro parrocchiani di leggere la Bibbia, la gente cominciò a mettere in discussione alcuni dei dogmi imposti da Roma. Ad esempio, se Maria non ha mai conosciuto un uomo, perché in Matteo 1:25 leggiamo che dopo la nascita di Gesù, San Giuseppe conobbe in senso biblico sua moglie, dalla quale nacquero gli altri figli nominati nel tredicesimo capitolo di quel Vangelo? Ci sono numerosi passi dell’AT in cui la parola “conoscere” è usata per indicare relazioni intime tra marito e moglie: come quando Adamo conobbe Eva (Genesi 4:1); o quando Caino conobbe sua moglie, che diede alla luce suo figlio Enoc (Genesi 4:17). Infastiditi dalle domande della gente, dal Vaticano fu promulgata una nuova bufala per cercare di mantenere la loro impostura - anche se, secondo l’ottavo comandamento, non dovrebbero mentire - affermando che la parola “fratello”, in greco adelphos, non significava fratello, ma cugino o parente stretto. Sebbene Gesù e i suoi discepoli parlassero aramaico, i quattro Vangeli e le lettere che compongono il Nuovo Testamento sono stati scritti in greco, una lingua in cui esistono parole corrispondenti per i cugini - anepsios - e persino per i parenti stretti - syngeneis -, quindi la scusa della Chiesa cade di peso. Inoltre, dobbiamo sottolineare che i primi Padri della Chiesa, per far capire che i Desposini erano parenti di Gesù, aggiungevano l’aggettivo “carnale” alla parola “fratello” ogni volta che si riferivano a loro. Se non fosse per l’assurdo dogma della verginità perpetua di Maria, che non compare affatto nella Bibbia, nessuno avrebbe problemi ad ammettere che Gesù aveva fratelli e sorelle, come era consuetudine in una famiglia ebraica del primo secolo.
SALOME, SORELLA DI GESÙ
Seguendo le orme dei parenti del Signore, la mia ricerca mi ha portato nel quartiere armeno di Gerusalemme, dove si trova la bellissima Cattedrale di San Giacomo. Nel Nuovo Testamento troviamo due persone che rispondono al nome di Giacomo: una è il figlio di Zebedeo e fratello di San Giovanni, noto come Giacomo il Maggiore; e dall’altra parte abbiamo quella che sarà senza dubbio una delle figure più scomode, insieme a Maria Maddalena, per il cristianesimo romano: Giacomo il Giusto, fratello di Gesù. Quasi inosservata a un occhio inesperto, la cattedrale armena si trova dietro un robusto muro che nasconde un piccolo cortile, dove un traliccio impedisce il passaggio di turisti e fedeli al di fuori delle ore di culto. Dietro le tre magnifiche arcate si trova la porta principale, da cui si accede al cuore della chiesa. È sotto l’altare maggiore che si suppone sia stato giustiziato San Giacomo Zebedeo intorno all’anno 47 d.C., la cui testa è sepolta nella navata centrale sul lato sinistro, mentre il resto del corpo fu portato a Compostela. Ma ciò che ha attirato la mia attenzione, il motivo per cui ero venuto in questo luogo, è stato inginocchiarmi davanti alle spoglie di Giacomo il Giusto, fratello dell’ultimo re d’Israele, Gesù, il mio re, le cui reliquie si trovano anch’esse qui. Sia Eusebio di Cesarea che Clemente di Alessandria (II secolo) forniscono buoni resoconti della vita e delle opere di quest’uomo straordinario. Anche se sappiamo che all’inizio della sua vita pubblica, la famiglia di Gesù era riluttante al movimento messianico che stava fondando (Marco 3:21), la situazione sembra essere cambiata man mano che Gesù veniva abbracciato da un numero sempre maggiore di persone. A Pentecoste, tutta la sua famiglia faceva già parte del nucleo duro della Chiesa di Gerusalemme. Secondo Egesippo ed Eusebio di Cesarea, oltre alla sorella Salomè - Marco 15,40 - un’altra delle donne ai piedi della croce, insieme alla Maddalena, era la zia Maria, moglie di Cleofa, fratello carnale di San Giuseppe e quindi zio paterno di Gesù (Giovanni 19,25). Cleofa, secondo alcuni esegeti, era anche uno dei due uomini a cui Gesù apparve sulla strada di Emmaus. Solo dopo averlo visto risorto, Cleofa iniziò a credere in lui. Eppure, nonostante quello che Roma vorrebbe farci credere, non fu Pietro a succedere a Gesù nella guida della Chiesa, ma Giacomo il Giusto, che sarebbe stato anche uno dei primi a vederlo risorto. L’intero compendio di scritti patristici afferma che Giacomo fu scelto dagli apostoli per sostituire il fratello alla guida del gruppo da lui stesso avviato. Eusebio di Cesarea afferma che, come Cristo, Giacomo fu consacrato al Signore fin dal seno materno e che era solito trascorrere intere giornate in ginocchio nel Tempio, chiedendo perdono a Dio per le offese del suo popolo. La sua grande pietà attirò l’attenzione di molti ebrei, che iniziarono ad aderire in massa al movimento nazareno. Il meritato protagonismo di Giacomo, però, suscitò la gelosia del sommo sacerdote Anania che, approfittando del fatto che il procuratore Festo era morto e il suo successore non si era ancora insediato, convocò Giacomo davanti al Sinedrio per rinunciare pubblicamente al fratello. Tuttavia, pur sapendo di essere in pericolo di vita, Giacomo dichiarò a gran voce che Gesù era veramente il figlio di Dio, e il Sinedrio non esitò a lapidarlo gettandolo dal pinnacolo del Tempio.
IL LIGNAGGIO DEL MAESTRO
Dopo la morte di Giacomo, tutti gli apostoli e i discepoli, nonché coloro che avevano legami di sangue con Gesù, si riunirono nuovamente per scegliere il nuovo successore di Cristo. Tuttavia, non fu scelto Pietro, ma il figlio di Cleofa e cugino di Gesù, Simeone, che era anche l’erede al trono di Davide. Dalla morte di Simeone nel 107 fino al 135, quando Gerusalemme divenne una polis romana, tutti i capi nazareni erano di stirpe davidica e imparentati con Cristo. Dopo la rifondazione di Gerusalemme nella nuova Aelia Capitolina e l’esilio di tutti gli ebrei dalla Terra Santa, la discendenza originaria di Gesù cadde nell’oblio.
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Josè Sanchez Oro
La giungla del Petén in Guatemala nasconde una macro-città maya chiamata El Mirador. Q uesto sito archeologico, invaso da una vegetazione lussureggiante e a malapena scavato, è al centro dell'attenzione dei Mormoni che ritengono sia stato abitato da una civiltà con radici ebraiche proveniente da Gerusalemme. La Chiesa dei Santi degli Ultimi Giorni finanzia da decenni lo studio di questo sito alla ricerca di prove definitive. L'autore ha viaggiato in questo angolo remoto in cerca di risposte.
STORIA NASCOSTA DELL’AMERICA
D’altra parte, se c’è una persona legata a El Mirador è il suo principale studioso, Richard Hansen, un archeologo americano che ha trascorso quattro decenni a portare alla luce segreti. Hansen è il miglior ambasciatore dell’enclave presso il mondo accademico e colui che ha ottenuto i finanziamenti necessari, sufficienti e costanti per garantire che lo studio della città non venga mai interrotto. In linea di principio, tutto il lavoro di questo ricercatore è scrupolosamente scientifico, ma la biografia di Hansen ha un’altra sfaccettatura che aggiunge una dimensione insolita al suo lavoro: è un mormone. È cresciuto in una famiglia dell’Idaho appartenente alla Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni e non sembra aver mai abbandonato questa fede. I Mormoni sono una comunità religiosa influente con oltre 15 milioni di membri in tutto il mondo. Negli Stati Uniti sono un movimento ben radicato che ha una grande influenza sull’economia, la cultura e la politica del Paese. Tra le tante attività che svolgono per diffondere le loro dottrine c’è anche il finanziamento di campagne archeologiche. L’interesse per questo studio del passato umano non è semplicemente altruistico o scientifico. Risponde all’urgente necessità di confermare le radici del loro credo religioso, basato sul cosiddetto Libro di Mormon. Quest’opera sarebbe stata tradotta in inglese, nel XIX secolo, da Joseph Smith da antichi scritti di antichi abitanti dell’America precolombiana. Una delle parti più sconcertanti del Libro di Mormon è Nefi. Si dice che questo personaggio fosse un profeta e un cronista vissuto a Gerusalemme intorno al VII secolo a.C.. Dopo aver subito alcune vicissitudini e persecuzioni, Nefi ricevette dalla rivelazione divina l’ordine di costruire una nave e di salpare con i suoi parenti verso un territorio inesplorato che oggi i mormoni identificano come America. Una volta giunto in questo continente, genericamente chiamato “Terra della Promessa”, Nefi prosperò e fondò una civiltà. Tuttavia, diversi clan guidati da altri membri della sua famiglia finirono per innescare violente spaccature interne. I Nefiti si scontrarono così con i Lamaniti fino a interrompere ogni forma di convivenza reciproca. Nefi istituì quindi un governo retto dalle usanze ebraiche, costruì un Tempio simile a quello di Salomone, anche se più modesto, e fece progredire economicamente il suo popolo. La storia di questi Nefiti si estende fino all’epoca di Gesù, poiché poco dopo la sua resurrezione il Messia cristiano fece loro visita. L’intero resoconto di questi eventi fu accuratamente inciso su lastre d’oro, ma nell’anno 385 diverse tribù ostili nelle vicinanze troncarono la feconda vita dei discendenti di Nefi. Uno degli ultimi sopravvissuti di questa comunità riuscì a fuggire in Nord America e a seppellire le preziose tavole d’oro nel luogo in cui sarebbe poi nata New York. Secondo le credenze mormoni, solo nel XIX secolo il passato aureo fu rivelato a Joseph Smith, che fondò la Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni. Il Libro di Mormon è sempre stato messo in discussione dai più scettici nei confronti di questo movimento religioso. Essi accusano l’opera di essere una completa finzione priva del minimo rigore storico. Questo dubbio ha portato i Mormoni a cercare di trovare prove archeologiche che confermino le affermazioni più audaci del testo e contraddicano le conoscenze accettate. John E. Clark, professore di antropologia presso la Brigham Young University, importante università mormone, ha tenuto una conferenza nel 2005 presso la Foundation for Apologetic Information & Research (FAIR), in cui ha riassunto in modo eloquente la posta in gioco: «La conferma dei dettagli storici del Libro di Mormon avvalorerebbe il resoconto di Joseph Smith su come si sono svolti gli eventi, convaliderebbe la sua profezia e convaliderebbe l’origine divina sia del libro che della Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni. Questo ci porta alla sconcertante possibilità di poter verificare le affermazioni di Joseph Smith attraverso la scienza, una possibilità che i critici hanno a lungo intaccato». Il Libro di Mormon è la pietra angolare del mormonismo; distruggete questa pietra e tutto ciò che sostiene crollerà. Data l’importanza dell’argomento, la possibilità stessa di provare la storicità e l’autenticità del libro diventa un obbligo morale. A tal fine, membri di spicco dell’organizzazione sono da decenni alla ricerca della mitica città dei Nefiti, di cui non si conosce l’esatta ubicazione, ma che molti collocano in diverse zone dell’America centrale o meridionale. Tra i siti candidati per tale metropoli ci sarebbero le giungle dello Yucatán, dove l’abbondanza di rovine urbane ancora da portare alla luce alimenta le più grandi speranze.
I MORMONI DI INDIANA JONES
L’antropologo Hampton Sides ha dedicato a questa quasi ossessiva indagine un saggio molto critico, “This is not the place” (Non è questo il luogo), nel suo libro “Americana: dispatches from the new frontier” (Americana: Dispacci dalla nuova frontiera). Secondo Sides, «l’opinione prevalente nei circoli intellettuali mormoni è che l’azione principale del Libro di Mormon non sia avvenuta nel nord di New York, ma in Mesoamerica. Nell’ultimo mezzo secolo, la Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni ha cercato di verificare questa nuova teoria. Nel corso degli anni, la Chiesa e i ricchi benefattori mormoni hanno investito, secondo una stima prudente, circa dieci milioni di dollari in ricerche archeologiche in tutta l’America centrale, in quella che potrebbe essere la più ambiziosa ricerca di una civiltà scomparsa dopo la ricerca di Troia da parte di Schliemann». A stimolare questi finanziamenti multimilionari è la cosiddetta teoria del “Modello di Limitazione Geografica”, secondo la quale i membri dei Santi degli Ultimi Giorni postulano che la narrazione del Libro di Mormon si sia svolta in uno spazio geograficamente molto delimitato nelle Americhe. Diversi riferimenti all’interno del testo alludono ripetutamente a una stretta lingua di terra tra due mari. Ad esempio, Alma 22:32 afferma che «la distanza dal mare orientale a quello occidentale, sulla linea tra Abbondanza e il paese di Desolazione, era soltanto di un giorno e mezzo di viaggio per un nefita; e così il paese di Nefi e il paese di Zarahemla erano quasi circondati dall’acqua, essendovi fra il paese a settentrione e il paese a meridione una stretta lingua di terra». Altri passi del libro (Alma 50:34; 52:9; Hel. 4:7; Morm. 3:5; Ether 10:20) insistono sulla stessa descrizione. Da qui, gli studiosi mormoni ipotizzano che l’unica caratteristica geografica del continente americano coerente con questi dati sia l’Istmo di Tehuantepec, l’area terrestre più stretta tra gli oceani Pacifico e Atlantico all’interno degli Stati messicani di Oaxaca e Veracruz. Hampton Sides dissente radicalmente da questa visione delle cose e sottolinea che gli archeologi più importanti di oggi descrivono «le teorie mormoni come palesemente assurde, viziate da procedure e persino razziste». Il Museo Nazionale di Storia Naturale dello Smithsonian e la National Geographic Society sono stati talmente assediati dalle ricerche degli appassionati mormoni nel corso degli anni che entrambe le istituzioni hanno rilasciato dichiarazioni ufficiali in cui si afferma che il Libro di Mormon non è un testo storico e che non ci sono prove che indichino l’esistenza di una civiltà ebraica nell’antica America.
LA POLEMICA È SERVITA
Come se non bastasse, queste indagini, più o meno vestite con abiti scientifici, sono accompagnate da altre attività ricreative, come i tour promossi da questa chiesa. Negli anni ‘70 è nata l’agenzia Book of Mormon Tours, che organizzava viaggi, escursioni e crociere attraverso l’America centrale e il Messico meridionale, con destinazioni privilegiate a Tikal, El Mirador e nello Stato messicano di Tabasco. In seguito si sono aggiunti molti altri operatori turistici, dando vita a un’attività redditizia. Gli archeologi mormoni guidano questi gruppi ed espongono possibili corrispondenze o somiglianze tra lo stile di vita dei Maya e quello dei leggendari Nefiti. Un’altra agenzia di viaggi specializzata in mormoni, la Liahona Tours, che ha iniziato a operare nel 2001, ha persino portato i clienti a El Mirador, in Guatemala, sostenendo che questa potrebbe essere stata la città dell’Abbondanza, dove Gesù apparve e predicò ai Nefiti quando mise piede in America dopo la sua crocifissione. Al contrario, L.D.S. Guided Tours ha optato per la città maya di Dzibanché, nel Messico meridionale, per lo stesso scopo. Sia le elucubrazioni archeologiche mormoni che la proliferazione di questo tipo di itinerari turistici hanno consolidato la convinzione, tra i Santi degli Ultimi Giorni, che Nefi sia realmente esistito e abbia patrocinato un’importante comunità che, in un modo o nell’altro, avrebbe mantenuto relazioni con gli altri popoli precolombiani della Mesoamerica. Dato che Richard Hansen è un mormone e un archeologo e fa parte di questa scuola di pensiero, il suo ampio lavoro su El Mirador mira, in ultima analisi, a dimostrare l’esistenza in buona fede dei Nefiti? Hansen si è certamente formato alla Brigham Young University di Provo (Utah, USA), come detto, istituto privato di istruzione e ricerca di proprietà della Chiesa dei Santi degli Ultimi Giorni. Come parte della sua formazione archeologica, Hansen ha partecipato al forum della New World Archaeological Foundation (NWAF) tenutosi presso l’università nel 1979. Dal 1953 la NWAF si dedica alla ricerca di prove storiche a sostegno delle rivendicazioni del Libro di Mormon. È stata anche la prima istituzione a sponsorizzare gli scavi di Hansen a El Mirador e a pubblicare il suo “Excavations in the Tigre Complex El Mirador, Peten, Guatemala”. Ben 308 pagine di reperti, stampate sotto il marchio NWAF, che riassumono le campagne di scavo condotte tra il 1979 e il 1982. Tuttavia, Hansen ha sempre separato la sua fede dalla sua dedizione professionale. Almeno nelle sue dissertazioni accademiche e nelle analisi dei reperti di El Mirador, non ha mai fatto alcun riferimento diretto o indiretto a questo mitico insediamento che si suppone provenga dalla Gerusalemme precristiana. Anche se, d’altra parte, è pienamente consapevole che una simile confessione danneggerebbe irrimediabilmente la sua reputazione. L’archeologo mormone F. Richard Hauck, fondatore dell’Archaeological Research Institute, ha pubblicato nel 1988 il libro “Deciphering the geography of the Book of Mormon” (Decifrando la geografia del Libro di Mormon). L’anno successivo incontrò Hansen a Città del Guatemala e gli raccontò il motivo della sua visita: «Sto testando sul campo le teorie che ho esposto in quel libro. Sono appena tornato dagli altopiani di Coban, dove ho documentato ed esplorato una serie di sistemi di trincee di fortificazione che soddisfano tutti i criteri geografici del Libro di Mormon per le fortificazioni di Manti».
SCOPERTA NELLA GIUNGLA DEL GUATEMALA
Hansen lo rimproverò aspramente per la sua audacia, dicendogli: «Perché mai hai pubblicato quella ricerca? Sai cosa può causarti questo nel mondo accademico? Avresti potuto tenere per te tutti quei dati e applicare un’archeologia più cauta e, anni dopo, dopo aver stabilito una correlazione archeologica con tutte le analisi geografiche, avresti potuto mostrare ciò che avevi teorizzato senza correre il rischio di essere escluso dalla comunità archeologica ». Hauck controbatte al collega facendo notare che ciò implicherebbe un’assenza di onestà intellettuale: «A cosa serve una teoria se non viene messa a disposizione del mondo per essere vista e valutata? Supponiamo che io abbia fatto come dici tu, che abbia nascosto la mia ricerca fino a quando non l’ho dimostrata vera e che poi, quando non più preoccupato della censura, abbia dichiarato al mondo: “Voilà! Guardate qui...”. Se facessi come suggerisci, la gente non avrebbe motivo di esaminare i principi alla base di questa ricerca geografica e archeologica. Che credibilità avrebbe allora questo lavoro?». La domanda che ci poniamo è: Hansen sta seguendo intimamente il consiglio dato all’amico Hauck? Il tempo lo dirà, ma per il momento sono altri appassionati mormoni ad approfittare del lavoro dell’archeologo americano per cercare di corroborare la reale esistenza dei Nefiti. Così, già nel 1980, Hansen pubblicò un primo rapporto archeologico su questa formidabile città maya nel libro “El Mirador, Peten, Guatemala. Un rapporto provvisorio”. Ebbene, V. Garth Norman, archeologo di spicco della New World Archaeological Foundation, non tardò a commentare che «sembra esserci l’opportunità di indagare su un’antica città risalente all’epoca del Libro di Mormon, quando le culture Nefita, Mulechita e Lamanita, insieme a quelle dei Giarediti sopravvissuti, si fusero dai loro piccoli inizi per costituire una civiltà a tutti gli effetti che si diffuse su gran parte della “terra del sud” (Mesoamerica meridionale?) al tempo di Cristo». Se il fiume Usumacinta è il fiume Sidone, come molti studenti di geografia del Libro di Mormon credono, allora possiamo avere il privilegio di considerare la scoperta di El Mirador come una delle “grandi città” dei Nefiti di cui si parla nella regione di Zarahemla (Hel. 7:22; 8:5, 6)”.
TECNOLOGIA ALL’AVANGUARDIA
Molto più recentemente, Kirk Magleby, direttore esecutivo di Book of Mormon Central, si è affrettato a scrivere un articolo intitolato “Quattro modi in cui le nuove scoperte Maya possono essere collegate al Libro di Mormon”. Magleby si riferiva allo studio tramite LiDAR (Light Detection And Ranging) completato nel 2018 da Richard Hansen e Fernando Paiz, che prevede la scansione della giungla del Petén dall’alto con raggi laser per produrre mappe tridimensionali ad alta risoluzione. In questo modo è possibile distinguere le strutture naturali del paesaggio da quelle create dall’uomo da antiche civiltà. Questa tecnica di imaging digitale ha rivoluzionato l’archeologia mesoamericana, rivelando le rovine nascoste dalla vegetazione con una precisione senza precedenti. Dal 2004, questo sistema ha identificato più di 60.000 strutture individuali associate a circa 51 città nel bacino di El Mirador, che sono state presentate alla VII Convenzione mondiale sull’archeologia maya, tenutasi il 15 febbraio 2019 ad Antigua Guatemala. Alla luce dei risultati accumulati dal progetto LiDAR, Magleby scrive entusiasta che «i primi critici hanno liquidato il Libro di Mormon dicendo che non c’erano antichità nelle Americhe, né città in rovina, edifici, monumenti, iscrizioni, tumuli o fortificazioni in rovina, che dimostrassero l’esistenza di un popolo come quello descritto dal Libro di Mormon ». Invece, sulla base «delle nuove prove provenienti dalle pianure Maya, queste grandiose descrizioni non sono poi così inverosimili. I dettagli di questa storia confermano decine di versetti del Libro di Mormon che descrivono popolazioni dense, economie sofisticate, reti stradali, agricoltura su larga scala, uso intensivo della terra, paesaggi soggetti a disastri e guerre prevalenti. Anche le affermazioni secondo cui “l’intera superficie della terra” era coperta da persone ed edifici potrebbero essere più di un’iperbole». Secondo Magleby, «la correlazione tra questi nuovi dati scientifici e il Libro di Mormon è semplicemente sbalorditiva».
GESÙ CRISTO IN AMERICA
Un altro dei passi più controversi del Libro di Mormon racconta della visita di Gesù Cristo risorto alla comunità nefita. Poiché molti credono che i discendenti di Nefi vivessero allora in America, la predicazione di Cristo implicherebbe la venuta del Messia in America appena un anno dopo la sua crocifissione. Il Libro di Mormon afferma questo evento epocale come segue: «Ed ecco, vi mostrerò che alla fine del trentaquattresimo anno, grandi favori furono manifestati a coloro che erano rimasti del popolo di Nefi, così come a coloro che erano stati salvati da quelli che erano chiamati Lamaniti, e grandi benedizioni furono riversate sulle loro teste, al punto che poco dopo la sua ascensione al cielo, Cristo si manifestò veramente a loro; e mostrò loro il suo corpo ed esercitò il suo ministero in loro favore; e un resoconto del suo ministero sarà fatto in seguito. Perciò, per il momento, concludo ciò che ho detto. (3 Nefi 10:18-19)». Il Libro di Mormon descrive quell’apparizione in modo prodigioso, notando che «videro un Uomo che scendeva dal cielo; aveva una veste bianca; scese e si fermò in mezzo a loro. Gli occhi di tutta la folla erano puntati su di lui e nessuno osava aprire la bocca, né l’uno né l’altro, per chiedere che cosa volesse dire, perché pensavano che fosse un angelo che era apparso loro» (3 Nefi 11:. Gesù istituì il battesimo, pronunciò un sermone simile a quello sul Monte, diffuse la Legge di Mosè, guarì i malati, benedisse i bambini e fondò una Chiesa. La ricerca archeologica dell’antica città nefita dove avvenne questo incontro è stato un altro compito che ha impegnato molti studiosi mormoni.
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Eliot Stein
«Lascia che ti chieda una cosa”, ha detto l’archeologo Stéphen Rostain. “Cosa sai della storia dell’Amazzonia?» Ci ho pensato un attimo e proprio mentre aprivo bocca per rispondere, Rostain mi ha svelato un piccolo segreto: «Tu non sai niente, perché la storia che pensiamo di conoscere è sbagliata. È una storia fatta da cosiddetti cronisti che raramente vedevano ciò che descrivevano. È una storia di bugie. Conosciamo qualcosa dai tempi coloniali, ma è una storia di sfruttamento della terra, tortura e schiavitù. Non è una bella storia. Ma questa, la scoperta di un vasta culla urbana ci permette di comprendere meglio i primi attori di questa storia: gli indigeni. Ci costringe a ripensare l’intero passato umano dell’Amazzonia». Il giorno precedente, Rostain e il suo team avevano pubblicato i risultati di uno studio durato quasi 30 anni e che aveva scosso il mondo. Utilizzando la tecnologia di scansione laser aerea (Lidar), Rostain e i suoi colleghi hanno scoperto una rete di città perduta da tempo che si estendeva su 300 km quadrati nell’Amazzonia ecuadoriana, completa di piazze, siti cerimoniali, canali di drenaggio e strade che furono costruite 2.500 anni fa e avevano rimase nascosto per migliaia di anni.
Hanno inoltre identificato più di 6.000 piattaforme di terra rettangolari ritenute case ed edifici comunali in 15 centri urbani circondati da campi agricoli terrazzati. «Era davvero una valle perduta di città», ha detto Rostain, direttore delle indagini presso il Centro nazionale per la ricerca scientifica in Francia. «È incredibile », ha aggiunto. Secondo Rostain, l’aspetto più sorprendente di questo agglomerato urbano, che si trova nella valle Upano, nell’Ecuador orientale, è la sua sorprendente rete stradale. Le strade delle città erano progettate per essere perfettamente diritte, collegandosi tra loro ad angolo retto e unendo le diverse città come un’autostrada preistorica. I più grandi erano larghi 10 metri, mentre uno si estendeva per 25 km. «Dato il terreno collinare, questa rete stradale era ancora più avanzata di quelle moderne», ha detto Rostain. Non solo si ritiene che questa rete dimenticata di città sia più antica di oltre 1.000 anni rispetto a qualsiasi altro sito amazzonico complesso conosciuto, ma le sue dimensioni sconcertanti e il livello di sofisticatezza suggeriscono una società altamente strutturata che sembra essere persino più grande delle famose città Maya del Messico e dell’America Centrale in generale. Secondo Rostain e il suo team, a partire dal 500 a.C. circa, le culture Kilamope e successivamente Upano iniziarono a costruire le loro case su piattaforme rialzate organizzate attorno a piazze. Le dimensioni di questa antica città coprono un’area paragonabile all’altopiano di Giza in Egitto. La datazione suggerisce che queste società prosperarono e si espansero per circa 1.000 anni fino a quando i siti furono misteriosamente abbandonati tra il 300 e il 600 d.C., un periodo più o meno contemporaneo all’antica Roma. Sebbene sia difficile stimare quante persone vivessero contemporaneamente in queste città collegate, l’archeologo Antoine Dorison, che ha lavorato con Rostain sui ritrovamenti di Lidar e co-autore dell’articolo, ha affermato che al suo apice avrebbe potuto ospitare ben 30.000 persone. Altre stime suggeriscono che il numero avrebbe potuto essere di centinaia di migliaia. Se fosse vero, ciò lo renderebbe paragonabile alla popolazione stimata della Londra di epoca romana. «Questa scoperta ha dimostrato che esisteva un equivalente di Roma in Amazzonia», ha detto Rostain. «Le persone che vivevano in queste società non erano semi-nomadi persi nella foresta pluviale in cerca di cibo. Non erano le piccole tribù dell’Amazzonia che conosciamo oggi. Erano persone altamente specializzate: scavatori, ingegneri, agricoltori, pescatori, sacerdoti, capi o re. Era una società stratificata, una società specializzata, quindi c’è sicuramente qualcosa di Roma». Eppure, se non fosse stato per due sacerdoti, il mondo non avrebbe mai saputo di questa “Roma amazzonica” perduta da tempo. Come spiegò Rostain, negli anni ‘70, un prete locale di nome Juan Bottasso si imbatté in un tumulo dall’aspetto strano costruito in cima a una piattaforma nella Valle Upano. Poco dopo, Bottasso ricevette la visita di un altro prete di Quito, di nome Pedro Porras, e Bottasso gli disse: «Voglio mostrarti una cosa». I due cavalcarono fino al tumulo e Porras, apparentemente curioso di ciò che aveva visto, ne organizzò uno scavo rozzo e pubblicò le sue scoperte su un giornale ecuadoriano. Il sito fu poi dimenticato per circa 15 anni finché Rostain, che negli anni ‘80 stava scavando un sito Maya in Guatemala, scoprì la pubblicazione del sacerdote e partì per l’Ecuador. Con l’aiuto di un collega ecuadoriano, Rostain iniziò a scavare i tumuli nel 1996. Due anni dopo, il suo collega abbandonò il progetto («Non tutti amano lavorare in Amazzonia », ha detto Rostain), ma Rostain continuò a farsi strada attraverso il giungla per altri sette anni, scoprendo strade, altri siti e quelli che pensava fossero centinaia di tumuli. «Era diverso da qualsiasi cosa avessi visto prima. In Amazzonia non si costruisce con la pietra, come nel territorio Maya o Inca. Era solo un’architettura di terra». Rostain è tornato a vivere in Ecuador nel 2011 e nel 2015 l’Istituto Nazionale per il Patrimonio Culturale dell’Ecuador ha finanziato un’indagine aerea della valle con Lidar, che ha trasformato il modo in cui gli archeologi conducono ricerche nelle giungle e ha rivelato prove precedentemente sconosciute dell’esistenza dei Maya e di altri preistorici. Società colombiane. Quando Rostain e Dorison hanno ricevuto i dati nel 2021 e hanno iniziato a esaminarli attentamente, Rostain si è reso conto di essersi completamente sbagliato: «Non c’erano centinaia di tumuli, ma almeno 6.000 e probabilmente molti, molti di più». Una delle domande più intriganti che Rostain e i suoi colleghi hanno cercato di capire è cosa ha portato questa società a progettare strade perfettamente diritte attraverso la topografia montuosa della regione. «Perché dovresti costruire queste strade diritte profonde cinque metri quando puoi facilmente camminare attraverso le colline?» si chiese Rostain. «Penso che le abbiano costruite per imprimere nella terra la loro identità, il loro rapporto con la Terra. Sono strade simboliche, come altre strade nelle Ande, in particolare la famosa Qhapaq Ñan degli Inca, che è ancora considerata da molti discendenti Inca come una strada vivente ancora oggi ». Rostain e il suo team hanno anche identificato molte altre caratteristiche delle città Upano che sono sopravvissute a quello che lui chiama il “contatto catastrofico” del mondo precolombiano con gli Spagnoli. Il sistema di trama ortogonale delle città di campi drenati e terrazze rispecchia quello ancora utilizzato dalla popolazione indigena Cariña del Venezuela. L’analisi dei grani di amido dei numerosi vasi decorativi e dipinti trovati rivela che i primi residenti della zona coltivavano fagioli, manioca, patate dolci e mais, proprio come fanno oggi i residenti indigeni della zona. In effetti, il terreno vulcanico altamente fertile della Valle Upano (che avrebbe potuto consentire a queste società di prosperare e avrebbe potuto portare al suo improvviso collasso se il vicino vulcano Sangay fosse eruttato) consente ancora ai moderni agricoltori indigeni di raccogliere il mais tre volte l’anno. E alcune microtracce rinvenute nei siti sono identiche a quelle della moderna chicha (birra di mais fermentata). «Sono profondamente colpita dalla profonda saggezza degli indigeni amazzonici», ha affermato Carla Jaimes Betancourt, archeologa specializzata nelle Americhe presso l’Università di Bonn. «La loro straordinaria comprensione del loro ambiente, unita alle loro pratiche penetranti per modificare il paesaggio, ha creato un patrimonio bioculturale unico che dura fino ad oggi ed è nostro dovere preservarlo. Credo che queste città serviranno da esempio, offrendo ispirazione per il futuro attraverso la loro armoniosa integrazione con il mondo naturale». Come Machu Picchu e tanti dei famosi siti maya, Rostain è fiducioso che i viaggiatori un giorno saranno in grado di sperimentare da soli le città della Valle Upano, ma come ha detto: «Devi essere paziente. È ancora un luogo dimenticato con pochissimi turisti». Eppure, quando arriverà quel giorno, dice che i visitatori si divertiranno. «È un bellissimo paesaggio. C’è il fiume Upano che taglia come un coltello nel terreno ed è largo 2 km. Ci sono scogliere verticali e foreste alte 100 metri e a 30 km di distanza puoi vedere l’imponente vulcano Sangay. Capisco perché il popolo Upano scelse questo luogo e perché lo scelgono oggi », ha affermato lo studioso. Per oro Rostain è semplicemente felice di aver restituito qualcosa all’Ecuador durante questo momento difficile della sua storia moderna. «Sono innamorato dell’Ecuador e penso che una tale scoperta dia un po’ di orgoglio al popolo ecuadoriano. Per tanto tempo hanno sofferto un po’ il confronto con il Perù. L’Ecuador non aveva la sua Roma. Ora penso che ce l’abbiano».
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Adriano Forgione
I siti turchi della remota cultura Tas Tepeler , la cui scoperta è iniziata con Gobekli Tepe poco più di 25 anni fa, stanno stravolgendo la storia e la consapevo lezza del processo civilizzativo umano , confermando una storia perduta e dimenticata dell’uomo risalente ad oltre 10 millenni fa. Ma i reperti sinora emersi, ancora non compresi dagli archeologi, dimostrano inequivocabilmente che quelle genti furono i primigeni Portatori di Civiltà, responsabili della nascita della grande tradizione egizia.
KAHARAN TEPE E IL CIGNO
A settembre 2023, a Karahan Tepe è stata portata alla luce una scultura di 2,3 metri di altezza raffigurante un uomo con fallo eretto seduto su una panca di pietra ornata da un leopardo, risalente all’8.500 a.C. ca. Potrebbe essere una delle più antiche sculture umane a tutto tondo conosciute, soprattutto di quella dimensione. Karahan Tepe è al centro di un complesso di circa 20 siti che ospitavano migliaia di esseri umani durante l’Età della Pietra, fino a 12.000 anni fa, tutt’ora in fase di scavo. Si attendono molte sorprese da questo luogo, che fa parte di quei siti turchi che stanno riscrivendo la storia della civiltà e che vengono, nella fase più antica, associati a una cultura sconosciuta che è stata denominata “Tas Tepeler” della quale ancora si sa pochissimo e che prende il nome da un lembo di 200 chilometri di terra brulla che custodisce nel cuore dell’Anatolia un vasto numero di siti preistorici tra cui il più noto è Göbekli Tepe. Secondo Necmi Karul, archeologo dell’Università di Istanbul, responsabile degli scavi, queste scoperte indicano un livello di sofisticazione superiore ed avanzato tra le popolazioni neolitiche, sia nell’architettura che nell’arte. Le prove indicano la presenza di una cultura e un credo religioso sofisticati, frutto di un percorso culturale ancora più remoto e di cui ancor non se ne conosce l’origine. Inoltre, l’assenza di artefatti bellici suggerisce che queste antiche comunità potrebbero aver vissuto pacificamente con il loro ambiente. Karul ha sottolineato che questi ritrovamenti aprono un nuovo capitolo nella comprensione di questi antichi siti, di cui molti aspetti rimangono un mistero. Il particolare del fallo eretto della statua appena ritrovata è molto importante in quanto è certamente legata a un culto ben organizzato. Lo dimostra il luogo di ritrovamento, un tempio o un sito cultuale, come provato dal ricercatore inglese Andrew Collins. Infatti, il recinto scoperto era allineato, attraverso il suo asse nord-nordest, alla levata della luminosa stella Deneb nella costellazione del Cigno (Cygnus), e attraverso di essa verso l’ingresso settentrionale della “Fessura Oscura” della Via Lattea, vista nel lontano passato come punto di ingresso e di uscita delle anime nel e dal mondo terrestre. La conferma di questa ipotesi deriva dalla presenza, accanto all’uomo seduto con fallo eretto, della statua di avvoltoio. Questo avvoltoio era posizionato esattamente in corrispondenza di ciò che sembra essere il punto più sacro del sito stesso, forse un altare, contrassegnato da un anello di pietra e due vassoi, probabilmente con la funzione di offertori. Questo anello segnava la posizione del corrispondente celeste dell’avvoltoio, la costellazione dell’uccello stellare, oggi chiamata Cygnus, il Cigno. Nella mitologia sumera Cygnus era l’avvoltoio-pantera Imdugud (alias Anzu), nel mito greco era uno dei tre avvoltoi noti come uccelli Stinfaliani, e nel cielo armeno Cygnus era la costellazione dell’avvoltoio Angegh. Fin dai tempi preistorici, l’avvoltoio è stato simbolo assoluto di nascita, morte e resurrezione, conducendo, in quanto psicopompo, le anime dei defunti nel mondo celeste. Gli avvoltoi erano le creature primarie coinvolte nella ritualità della “sepoltura celeste”, lo spolpamento dei corpi umani deceduti che così, simbolicamente, venivano preparati per il viaggio dell’anima nell’aldilà ascendendo al cielo. Qualcosa che è stato quasi certamente praticato in siti come Göbekli Tepe e Karahan Tepe fino a 11.000 anni fa, e che era presente nelle credenze e nelle pratiche astrali della cultura Tas Tepeler in Anatolia. Questo, a mio avviso, avrebbe compreso l’allineamento dei recinti di pietra verso l’ascesa di Cygnus, volta considerato l’avvoltoio celeste. La relazione tra il concetto di fallo eretto, l’avvoltoio e leopardo in forma di antico mitema deriverebbe proprio dalla remota cultura Tas Tepeler.
LEOPARDI E FALLO ERETTO
Questi simboli insieme, legati al culto della resurrezione-rigenerazione dell’anima, non sono stati ritrovati solo in questo recinto a Kaharan Tepe ma anche a Göbekli Tepe, incisi sulla nota “Stele dell’Avvoltoio” (la colonna a T con la presenza di diverse simbologie, tra cui un avvoltoio e un uomo con fallo eretto), e più recentemente a Sayburç, anche’esso parte della regione di Tas Tepeler. È stato scoperto nel 2021, dopo che il Museo Archeologico di Sanliurfa era stato informato che gli abitanti del villaggio avevano usato parti di colonne a T per costruire i muri dei loro giardini. Gli archeologi hanno portato alla luce edifici circolari a pozzo, con pilastri a T nella roccia calcarea come in altri siti simili, anche se l’urbanizzazione dell’area rende difficile il lavoro di scavo. Lungo il muro perimetrale di uno di questi, che ha un diametro di circa 11 metri, un team di ricercatori dell’Università di Istanbul, in collaborazione con il Museo Archeologico di Sanliurfa, guidato da Eylem Özdo an, ha identificato un pannello formato da substrato roccioso, alto 1 metro. Su di esso è scolpito un affascinante rilievo a cinque figure, caratterizzato sia da animali che da esseri umani. Alla destra del disegno tre figure, costituite da un uomo in posizione frontale che tiene la mano destra sul fallo e la sinistra sul ventre, affiancato su entrambi i lati da due leopardi. È la figura più in evidenza e quindi la più importante della scena. I due leopardi ai lati sono identici, con la bocca aperta, i denti visibili e la coda sollevata. Attorno al collo dell’uomo sono incise alcune linee triangolari che disegnano un collare. Alla sinistra di questa scena si trova un’altra figura umana, con le spalle rivolte alle altre tre figure, che mostra il proprio fallo eretto mentre affronta un toro con grandi corna, tenendo sollevato il suo braccio sinistro e nella mano destra a sei dita un serpente capovolto. Una scena fondamentale perché questa può essere spiegata attraverso l’eredità simbolica che ci giunge dal passato e che ne fa una chiave per comprendere le nostre origini. Lo vedremo tra breve. Diverse statue appartenenti alla cultura Tas Tepeler sono state trovate nella stessa postura del rilievo di Sayburç. La statua di Urfa-Yeni Mahalle che si trova nel museo di anlıurfa, una statuetta maschile trovata a Karahan Tepe, e le statuette trovate a Göbekli Tepe, Harbetsuvan Tepesi, Nevali Çori e Kilisik. Tutte sono rappresentazioni simili della forma maschile con fallo eretto. Inoltre, alcune di esse presentano la medesima decorazione al collo costituita da “V” parallele, il che suggerisce la presenza di una collana, e confermando che questa identificava probabilmente un simbolo di potere spirituale all’interno di tale civiltà. Non sappiamo se queste raffigurazioni identifichino divinità, semidei, portatori di civiltà, antenati, sciamani o guide. Forse tutto questo insieme ma è abbastanza chiaro che alla base di questo remotissimo culto vi fosse un concetto divino di morte e resurrezione- rigenerazione. L’avvoltoio, il leopardo e il pene eretto lo provano senza ombra di dubbio; il primo porta le anime al cielo, il secondo è simbolo della forza solare associata alla rigenerazione (il nome latino è leopardus, dove “pardus” indentifica la “pantera” ma anche il “paradiso”) e il terzo è simbolo di resurrezione. Pertanto queste statue e bassorilievi, seppur associabili a un individuo importante della comunità, indicano nel loro significato profondo una divinità della resurrezione- rigenerazione.
SHEMSU HOR, DNA E PELLI DI LEOPARDO
In precedenti articoli dedicati ad Akhenaton e al suo collegamento con una remota tradizione primordiale cui si era legato e che, sembra, avesse voluto far riemergere dalle nebbie del passato, avevo chiarito l’ormai provato, anche geneticamente, legame tra l’Egitto e l’Anatolia turca. Nel 2017, infatti, un team internazionale di scienziati, guidato da ricercatori dell’Università di Tubinga e dell’Istituto Max Planck per la scienza della storia umana, ha recuperato e analizzato con successo il DNA antico di mummie egiziane risalenti al periodo compreso tra il 1400 a.C. e il 400 d.C.. I risultati hanno mostrato che il DNA dell’antico Egitto era costituito da circa il 50% di DNA natufiano, il 30% di DNA neolitico anatolico e il 20% di DNA neolitico iraniano (presumibilmente proveniente dagli Zagros) la catena montuosa più prossima. In poche parole, le prove genetiche indicano proprio la regione in cui troviamo la cultura Tas Tepeler. Un legame che, dunque, si concretizzò in un’emigrazione di un popolo dall’Anatolia in Egitto proprio in epoca neolitica remota. Esistono forti legami, almeno in termini di simbolismo e mitologia, tra la cultura Tas Tepeler e l’Egitto. Addirittura il prof. Martin Sweatman, professore di Ingegneria Chimica dell’Università di Edimburgo, allarga queste analogie a tutta l’Eurasia e al Nord Africa nel suo libro “Prehistory Decoded”. Voglio però concentrarmi specificamente sui legami culturali tra Göbekli Tepe e l’Antico Egitto, che sono particolarmente forti. Queste due culture sono separate da quasi 500 miglia e, cosa più importante, da 6.000 anni di storia. Eppure le loro somiglianze sono inquietanti tanto supportare l’idea che gli abitanti di Göbekli Tepe e di tutta la civiltà Tas Tepeler fossero gli antenati diretti degli antichi Egizi. Come d’altronde le analisi genetiche dimostrano. È noto che i siti della cultura Tas Tepeler furono abbandonati, coperti e sepolti dai suoi stessi abitanti, per un motivo sconosciuto intorno al 9000 a.C.. Dove si diressero queste persone ce lo dice proprio la genetica: attraversarono tutto il Levante passando per quelle che oggi sono Siria, Libano, Israele e Giordania, lasciando lì le loro tracce cultuali, ed entrarono definitivamente in Egitto. Sono loro i primi Shemsu Hor, gli Spiriti Venerabili portatori di civiltà e custodi del sapere primordiale, di cui gli antichi Egizi hanno memoria? Se non completamente furono certamente parte di questo collettivo, essendo i simbolismi sacerdotali più antichi d’Egitto coincidenti con quelli di Tas Tepeler, e pertanto da lì devono derivare. Se osserviamo tutte i recinti templari scoperti in Turchia e relativi alla cultura Tas Tepeler notiamo che il simbolismo zoomorfo la fa da padrone: volpi o canidi, uri o tori, anatre, rapaci, cinghiali, leopardi e una nutrita serie di altri animali tutti rappresentati insieme sulle colonne a T o alla base interna dei recinti. Trattasi certamente di allegorie della divinità, espressioni e qualità di quest’ultima che avevano anche un corrispettivo astronomico, in una forma avanzata di pensiero sciamanico. In nessun’altra cultura storicamente conosciuta tale simbolismo zoomorfo si manifesta nella stessa abbondanza e con gli stessi principi tranne che in un solo luogo: l’antico Egitto. I sacerdoti solari egizi, dunque, più specificamente quelli del Basso Egitto, che avevano il loro centro di culto ad Iunu-Eliopoli dovrebbero essere i diretti discendenti di quegli antichi sacerdoti-sciamani di Tas Tepeler. Ce lo conferma un particolare rivelatore: i pilastri a T di Göbekli Tepe. Gli studiosi sono tutti concordi a considerare i pilastri centrali dei templi di Tas Tepeler, quelli più alti e importanti, delle stilizzazioni antropomorfe di sacerdoti. La parte alta che forma la T del pilastro è la testa, che vista di profilo potrebbe persino considerarsi una stilizzazione di un cranio allungato-dolicocefalo (si pensi ai crani dei sacerdoti di Malta e Tenerife), mentre il corpo è decorato con braccia affiancate e mani ben in vista sulla parte frontale, e con paramenti sacerdotali. Questi ultimi sono certamente collane (come già descritto), cinture e soprattutto una pelle animale sulla parte frontale inferiore, sotto la cintura, di cui si riconoscono la coda e le zampe. La stessa veste del Gran Sacerdote egizio che portava una pelle di leopardo o di pantera (nella tradizione amarmiana) con coda e zampe che pendevano proprio dalla parte inferiore. Il leopardo, lo stesso animale rappresentato spesso dalla civiltà Tas Tepeler. Dobbiamo pensare quindi che la pelle animale sui pilastri-sacerdoti di Göbekli Tepe sia una pelle di leopardo e che questa tradizione sia stata importata direttamente dagli Shemsu Hor di Tas Tepeler all’antico Egitto. Essa già in questo nucleo civilizzativo precedente dovette identificare i Sacerdoti- Saggi primordiali anche definibili come civilizzatori fondatori o Guardiani-Vigilanti, data la loro centralità nei templi-recinto quali pilastri primari. Ciò conferma un percorso civilizzativo ancor più antico.
L’AVVOLTOIO E IL FALCO
Abbiamo detto del Pilastro dell’Avvoltoio (Pilastro 43) a Göbekli Tepe che rappresenta uno dei principali e noti ritrovamenti legati alla sapienza simbolica di questa remota civiltà. Al di là del suo significato astronomico ancora dibattuto vi si riscontrano la figura di un rapace (avvoltoio), di uno scorpione, di serpenti, di un uomo con pene eretto e senza testa e di anatre. Tutti simbolismi di rigenerazione importanti anche nell’antico Egitto. Il loro insieme, come a Göbekli Tepe, è stato riscontrato su un vaso scoperto ad Abydos, nella tomba pre-dinastica di colui che è chiamato Re Scorpione. La ragione di questa associazione è dovuta alla presenza del simbolo dello scorpione preceduto dal falco Horus. E, poiché il simbolo di Horus normalmente precede i nomi dei faraoni in epoca dinastica, si pensa che questo vaso sia appartenuto al Re Scorpione. Il vaso mostra nella parte inferiore anche un’oca, che in Egitto è simbolo del Figlio del Sole, l’Uomo Divino (Sa-Ra) ma soprattutto è animale totemico del dio Geb (è il suo geroglifico e talvolta viene raffigurato con un’oca sulla testa) divinità della terra e dell’abbondanza, una terra limacciosa e umida, quindi feconda. Dunque tutti questi elementi sono correlati e questo vaso sembra simbolicamente richiamare proprio il Pilastro 43 di Göbekli Tepe, persino nel loro “allineamento” verticale, con una sola differenza, il rapace del Pilastro è un avvoltoio mentre sul vaso è un falco. Non possiamo sapere se il falco sostituì l’avvoltoio quando questa cultura raggiunse l’Egitto, ma il nome Shemsu Hor per i Seguaci di Horus farebbe pensare che questo collettivo portò con sé questo simbolismo dalla sua patria originaria. Lo suggerirebbe anche una testa proveniente da Nevali Çori, oggi al Museo di Urfa, che mostra un avvoltoio, a mo’ di protezione, dietro la nuca di un individuo, proprio come appare nella nota statua di Chefren al Cairo. La figura dell’avvoltoio e l’associazione alla grande Dea restò però fondante, dato che in Egitto rimase animale totemico della Dea, Mut specificamente (e di Nekhbet) rappresentata sul copricapo di tutte le Dee, Iside compresa, in quanto associate all’anima e al suo processo psicopompico di elevazione celeste. È per questo che ritroviamo la dea Mut in forma di avvoltoio, sul soffitto interno (quindi legato al volo celeste) di tutti i templi, che stringe lo Shenu, l’anello dell’eternità, così come sulla maschera amarniana di Tutankhamon accanto alla dea cobra Uadjet simbolo del risveglio.
OSIRIDE E MIN
Torniamo al dio anatra Geb. Questi indentificava la “terra limacciosa” (l’anatra vive in quell’habitat) e quindi associato alla rigenerazione. A Göbekli Tepe l’anatra è rappresentata proprio alla “base” di alcuni pilastri a T, il che suggerisce il medesimo significato. A causa della sua stretta connessione con l’elemento vegetale, Geb viene raffigurato con la pelle verde o nera, prorio il colore della terra limacciosa del Nilo e della sua capacità vegetativa. Geb, secondo la cosmogonia eliopolitana, governò il fecondo mondo antico fin quando non ne ebbe abbastanza; allora il suo posto venne preso da Osiride, che è caratterizzato allo stesso modo, nero o verde, dio della rinascita e della germogliazione. E questo ci riporta alle rappresentazioni degli uomini con fallo eretto nella loro mano destra della cultura Tas Tepeler perché, come sappiamo, il fallo eretto è uno dei simboli della resurrezione del dio crisalide Osiride e del suo analogo Min. A questi dei venivamo sacrificati dei Tori bianchi. E ciò ci ricorda proprio quanto rappresentato nel rilievo del recinto di Sayburç. Tutto ciò ha un significato ancor più profondo che, a breve, sveleremo. Sono proprio gli egizi più antichi a presentare una simbologia del tutto identica dell’uomo con la mano destra sul fallo eretto. Si tratta di una statuaria molto antica che poi è scomparsa dall’arte egizia classica. Presso l’Ashmolean Museum di Oxford sono conservate le statue più antiche associate al Dio Min, trovate a Koptos da Sir W.F. Petrie nel 1893, risalenti al 3500 a.C.. La postura del dio è quasi la medesima di quelle della Turchia, con una mano sul fallo eretto. Se non sapessimo che sono state trovate in Egitto e appartenenti alla storia predinastica del Paese del Nilo, potremmo essere portati a pensare che si tratti di reperti provenienti dalla Turchia ispirati da quella remota cultura. E forse non ci sbaglieremmo neanche troppo, perché oramai appare chiaro che tra il nono e sesto millennio a.C. sacerdoti discendenti di questa tradizione primordiale, con il loro immutato bagaglio simbolico e mistico, entrarono in Egitto dando vita a quello che sarebbe divenuto il centro spirituale di Iunu-Eliopoli. Petrie nel 1873, lo aveva già intuito quando la scoperta della cultura primordiale di Tas Tepeler era ancora lontana di oltre un secolo nel futuro. Le statue di arcaiche di Min erano così insolite che le assegnò a “invasori orientali” fondatori dell’Egitto dinastico. Si era avvicinato molto alla verità senza avere le informazioni che abbiamo oggi. Si era sbagliato solo sul termine “invasori”, essendo questi dei sacerdoti che portarono la sapienza in Egitto prove nendo dalla grande piana di Harran in Turchia prima di chiunque altro. Vi si stabilirono. Anche Osiride-Min, come tutta la originaria sapiente religione egizia dello Zep Tepi, il Tempo Primevo, sarebbero derivazione di una tradizione sciamanica complessa che risale a un’epoca prediluviana.
OSIRIDE-ORIONE E IL TORO
Tutto ciò ci permette di definire l’altra parte del rilievo di Sayburç. Nel rapporto di ricerca della Oxford University l’archeologo Eylem Özdoga ha scritto che nei «rilievi di Sayburç, (…) le figure formano una narrazione, con le due singole scene che sembrano essere collegate tra loro. (…) Le figure erano senza dubbio personaggi degni di descrizione. Il fatto che siano raffigurati insieme in una scena progressiva, tuttavia, suggerisce che vengano raccontati uno o più eventi o storie correlate. Nelle tradizioni orali, storie, rituali e forti elementi simbolici costituiscono il fondamento delle ideologie che modellano la società oltre la spiritualità ». Giusta descrizione ma, ovviamente, non sanno spiegare chi o cosa queste scene rappresentino. Dopo quanto descritto sinora credo di poter decodificare chiaramente la scena. Se la parte destra è oramai chiaro che rappresenti una forma primordiale di Osiride che risorge, dove i simboli di resurrezione sono il fallo eretto e i due leopardi, corrispettivo delle due correnti elettromagnetiche maschile e femminile di Ida e Pingala che si elevano (i leopardi sono rampanti, con coda verso l’alto, e sono uno maschio, con fallo, e l’altro femmina), come nella Paletta di Narmer al Museo del Cairo, la parte sinistra della scena dell’Uomo con il toro (uro) richiama non solo il sacrificio del toro sacro ad Osiride, ma soprattutto il corrispettivo astronomico del dio: Orione. L’individuo è esattamente nella postura antropomorfa di Orione, come viene rappresentata quale cacciatore celeste con un arco in mano. Nel cielo Orione “caccia” il Toro, la costellazione che gli si fronteggia. Dunque il rilievo di Sayburç non celebra la caccia terrena e quindi la vittoria dell’uomo sulla natura come affermato dagli archeologi, ma la testimonianza più antica di sapienza che considera il cielo una metafora dei poteri che dominano il mondo con il “cacciatore celeste” Orione che ha la meglio sulle forze infere, rappresentate dal toro-uro, e quindi sulla morte. È la versione primordiale di Osiride-Orione come la si ritroverà proprio in Egitto.
LA TESTA E LA CAMERA DI RESURREZIONE
Questo spiega anche la presenza dell’uomo senza testa nel Pilastro 43 dell’avvoltoio di Göbekli Tepe, dove questo rapace (l’anima-Dea) sembra accompagnare con le sue ali la testa dell’individuo in ascesa verso il cielo, in un atto di unificazione con i poteri divini. È un dato di fatto che la cultura Tas Tepeler presentasse un complesso “culto del cranio”, certamente identificato come la sede dei poteri divini nell’uomo, il mezzo di comunicazione con la divinità (attraverso la pineale) e simbolo di “elevazione” (il termine “Decollare” vale sia per tagliare la testa che per ascendere al cielo). Molte teste di pietra sono state ritrovate nei siti di questa cultura, ma la scoperta più importante in tal senso è la testa di una divinità nella camera sotterranea di Kaharan Tepe chiamata “Santuario dei Pilastri”, aposta davanti a 12 colonne falliche. Codificazioni e aspetti, quelli del cranio e della Camera Sotterranea, che ritroveremo proprio in Egitto associati al culto di Osiride, dio del Mondo Sotterraneo e della resurrezione. La testa del Dio Osiride era la reliquia massima venerata ad Abydos, il suo luogo ancestrale. La “Camera Sotterranea” invece era codificata nella Quinta Ora del viaggio di Ra nella Duat, come “Camera di Resurrezione” di Osiride-Sokar, una struttura ovale al di sopra della quale , sul “Colle primordiale”, svetta proprio la testa di Osiride.
TUNICHE E SACERDOTI SERPENTE
Le correlazioni che abbiamo riscontrato a Göbekli Tepe, Kaharan Tepe e in tutti i siti della cultura primordiale Tas Tepeler con l’Egitto sono innumerevoli ed è impossibile citarle tutte in quest’articolo. Ma la loro mole impone un ripensamento verso quelle che sono le origini della grande tradizione egizia che i sacerdoti del Nilo dichiaravano essere frutto di un percorso remotissimo, e lo si è visto, e di un collettivo di saggi definiti “Spiriti Venerabili” e Shemsu Hor. In Egitto sono state trovate statuine arcaiche predinastiche di Dee caratterizzate da volto di serpente e decorazioni di piume. Uno degli appellativi che identificava il sacerdote era “Djehuty”, variante del nome del dio della sapienza Thoth. Sapienza il cui simbolo era il serpente eretto, associato al geroglifico “Dj” (da cui Djed. Ad Abydos in un rilievo del tempio di Seti I Djeuthy-Thoth sostiene due bastoni-serpente). Da qui l’appellativo di “Sacerdoti-Serpente”, legato non solo ai sacerdoti egizi ma anche al collettivo che portò la sapienza ovunque nel mondo dopo la catastrofe. La presenza del simbolo del serpente associato alla sapienza è ripetuto infinite volte sui reperti della cultura Tas Tepeler, essendo animale totemico primario. Potete quindi immaginare il mio senso di meraviglia quando per la prima volta ho visto alcune decorazioni a Kaharan Tepe, risalente al 11.500 a.C., quindi certamente prediluviano (la catastrofe avviene nel 10.800 a.C. ca.) poste sui contrafforti del recinto sacro appena scavato, che fa da ingresso alla camera sotterranea della testa di “Osiride”, e che raffigurano individui vestiti con una tunica. Sì, avete letto bene, sacerdoti vestiti con tuniche nell’11.500 a.C. in Turchia, un fatto assolutamente straordinario. La loro intera silouette mostra anche la presenza di una coda, come per le pelli sacerdotali dei pilastri. Gli arti non presentano artigli ma sono ben squadrati quindi è molto probabile che si tratti proprio della raffigurazione di una tunica sacerdotale con ampie maniche e pelle di leopardo. Gli individui però sono privi di testa. È nel Capitolo XLIII del Per em Ra, il Libro dei Morti egizio, che leggiamo: «A dirsi dall’Osiride giustificato: Io sono il Grande (wr) figlio del Grande, la Fiamma figlia della Fiamma, la cui testa gli è restituita dopo che questa è stata tagliata». Era infatti del sacerdote Sem vestire la pelle di leopardo per officiare la cerimonia dell’apertura della Bocca che garantiva i poteri di Osiride allo spirito del faraone deceduto. Esiste però un altro rilievo, sempre a Kaharan Tepe, su un pilastro posto in orizzontale (appoggiato a terra in antico) in cui un identico individuo senza testa, e con tunica, presenta il suo corpo prolungarsi come un serpente (foto sotto). Siamo finalmente davanti alla scoperta del luogo di origine della tradizione sacra degli Irin-Vigilanti primordiali, i Serpenti-Piumati, i Grandi Venerabili Luminosi Shemsu Hor, portatori prediluviani di civiltà. La mia ricerca ha trovato finalmente coronamento e la storia non potrà essere più la stessa.
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