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La storia nascosta
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Apro il forum condividendo la relazione che Francisco de Chaves scrive al re Carlo V per denunciare l' inganno con cui Francisco Pizarro diede il via alla conquista dell' impero degli Inca.
Seguono una presentazione al testo con contestualizzazione "sui generis".
Il testo della relazione si trova in sei immagini su una pagina Fb d' appoggio, pubblica. Chiedo scusa per la bassa qualità delle immagini e per il metodo di condivisione poco ortodosso.
Si prega Accesso a partecipare alla conversazione.
"(...) E V.M. sappia che gli indios non capirono ciò che accadde ai loro superiori nella piazza di Caxamarca e ancora oggi non lo sanno perché questo inganno non è venuto a loro conoscenza e per spiegare ciò che non riescono a comprendere alzano gli occhi al cielo e dicono che fu prodigio e vendetta di non so quale loro Dio per punire le colpe del re e del suo popolo;(...)"
dalla relazione di F. de Chaves al Re di Spagna Carlo V, 5 Agosto 1533.
È possibile riscrivere la storia?
Spesso si dice che sia sufficiente che passi qualche decina d' anni, qualche generazione, per far venire alla luce i retroscena che a caldo vengono celati per la convenienza di pochi; le vicende adattate e falsificate (normalmente ad opera del vincitore di turno) finiscono nei libri di storia ma, si dice, immancabilmente i segreti e le losche trame sono destinati ad essere scoperti, rivelati, rendendo giustizia alla verità: sarà così?
Manco per niente.
Se è vero che la storia insegna qualcosa, l' insegnamento è che le menzogne sono dure a morire, durissime in alcuni casi: buon esempio potrebbe essere la vicenda della caduta dell' impero Inca e del suo ultimo re Atahualpa sconfitti dai conquistadores spagnoli capitanati da Don Francisco Pizarro.Vediamo come e perché.
Tutti conosciamo l' epica conquista del Perù degli Inca per mano di Francisco Pizarro: poco più di centocinquanta uomini con pochi cavalli e pochissimi archibugi, in una memorabile battaglia, ebbero la meglio su un esercito di circa trentamila indios agli ordini del figlio del sole, il grande Atahualpa, ultimo imperatore Inca, per gli spagnoli il "cacique Tavaliba".Siamo nella prima metà del 1.500 e dopo le "eroiche gesta" di Cortez (la conquista dell' impero azteco) molti avventurieri solcano l' oceano Atlantico ed organizzati alla bell' e meglio esplorano il nuovo continente nel tentativo di emulare i successi del primo "grande" conquistatore: Pizarro fu uno di loro.
Francisco nasce dall' unione extraconiugale tra un colonnello spagnolo e una serva, prende il cognome del padre ma vive con la madre, non impara a leggere e scrivere ma si dà da fare come custode di maiali. Poco più che venticinquenne prende parte alla più grande spedizione transoceanica fino ad allora organizzata (2.500 coloni imbarcati su una flotta di 30 navi); è il 1502 e devono passare ancora trent' anni perché l' ormai non più tanto giovane Francisco si faccia ingolosire dai racconti degli indigeni che narrano di un paese ricco d' oro e argento che si affaccia sul Pacifico a sud di Panama: lo spagnolo ha infatti 55 anni quando, finanziato dal Re e benedetto dal Papa, alla guida di un manipolo di avventurieri diventa una leggenda conquistando il Perù Inca.
Corre l' anno 1532 e con la doppia missione di conquistare ed evangelizzare, ma soprattutto deciso ad arricchirsi, Pizarro sbarca in Perù, scala le Ande e si arrocca a 2.700 metri di quota nella piccola città di Cajamarca in attesa di fronteggiare l'esercito del più grande impero che l' America precolombiana avesse mai visto.
Quando arriva Pizarro l' impero degli Inca è alla massima estensione, copre quasi interamente la fascia costiera pacifica del sudamerica; i suoi abitanti vengono descritti come selvaggi ma costruiscono meraviglie come Machu Picchu, non usano la ruota ma hanno un sistema viario di 10.000km che attraversa le Ande.
Due culture si incontrano ufficialmente per la prima volta: il sovrano Inca era incuriosito dagli stranieri e per niente intimorito dai racconti su di essi, se avesse voluto li avrebbe fatti sparire dalla faccia della terra con uno schiocco di dita mentre erano impegnati nell' impervio tragitto verso Cajamarca; lo spagnolo cercava di ingraziarsi uno tra Atahualpa e il fratello Huascar, entrambi eredi al trono, freschi della guerra per la successione dopo l' improvvisa morte del padre Huayana Càpac.
Pizarro sarà stato pure un ignorante guardiano di maiali ma conosceva bene l' efficacia del "divide et impera", e la sua strategia, superata Cajamarca, si dimostrerà un successo.
Il 16 Novembre 1532, 30.000 indios armati (è la stima più bassa disponibile sul mercato) si appostano fuori dalle mura di Cajamarca mentre il divino sovrano Atahualpa fa il suo ingresso nella piazza triangolare della città seduto sul trono da parata (la papamobile del tempo), anticipato da uno stuolo di servitori adoranti e seguito dallo stato maggiore dell' esercito.
Manco a dirlo, si fa sotto, Bibbia alla mano, uno dei preti che accompagnano la spedizione di Pizarro: questa storia che l' indigeno con le piume in testa credeva di essere Dio doveva finire e dovevano finire anche i sacrifici umani in onore degli dei pagani.
Il prete voleva e doveva convincere Tavaliba che il Perù fosse proprietà del Dio cristiano e che lui e il suo popolo si sarebbero dovuti convertire. Per farlo, come da prassi (si veda il Requerimiento) veniva letta una formula usata per lavarsi la coscienza prima dell' assoggettamento, come quando lanciano i volantini prima di bombardare.
Il messaggio era di questo tono: Dio è il proprietario generale della baracca, ha mandato Cristo sulla terra, che ha incaricato San Paolo, che ha creato la chiesa, che ha ceduto i diritti alla corona, che li ha dati ai conquistadores, arrendetevi o sono affaracci vostri; più letteralmente, arrendetevi oppure: «vi diciamo che con l’aiuto di Dio noi andremo potentemente contro di voi, e vi faremo guerra in tutti i luoghi e i modi in cui potremo, e vi assoggetteremo al giogo e all’obbedienza della Chiesa e delle Loro Maestà, e prenderemo voi e le vostre mogli e i vostri figli e li faremo schiavi.» Amore cristiano.
Atahualpa rimane "leggermente" allibito e chiede al prete (Pizarro aveva una specie di traduttore indio al seguito) come facesse a sapere tutte queste cose, chi gliele avesse dette. "È tutto qua dentro!" dice il prete brandendo la Bibbia; ottima risposta!
Insomma, letto e chissà come tradotto questo editto, il tonacato emissario divino viene avanti baldanzoso e porge al sovrano Inca il libro con dentro la parola di Dio: Atahualpa lo prende in mano, lo avvicina all' orecchio ma, per tutti i soli della galassia!, non sente niente, forse il Dio cristiano era diventato muto? Forse gli spagnoli volevano farsi beffe di lui?
Gira e rigira la Bibbia, ma non sa neanche come si apra un libro, non ne ha mai visto uno: sta bene in terra -avrà pensato- e lo lancia al suolo. Mal gliene incolse.Questo affronto da il via ad una mattanza che si conclude dopo il tramonto, migliaia di indigeni periscono sotto i colpi dei meglio appostati e meglio armati temerari spagnoli: Atahualpa viene catturato, l' impero è ostaggio di Pizarro che lo conquista in un amen.
L' Inca verrà giustiziato mesi dopo, non prima di aver tentato di comperare la propria libertà facendo riempire d' oro e argento due stanze di discrete dimensioni (6,90 per 5,33 all'altezza di m. 2,83) come riscatto: grazie accettiamo, ma ora muori.(Gli spagnoli si vantarono di aver convinto Atahualpa a convertirsi prima di morire: l' Inca però si fece battezzare esclusivamente per non morire arso o decapitato, sarebbe stato uno spargimento di sangue che avrebbe compromesso il suo "status divino" e l' accesso all' aldilà: subì quindi un cristianissimo garrotamento)
Questo a grandi linee è il racconto ufficiale, quello che fanno studiare a scuola e che si trova anche nei testi più aggiornati.
Ma c'è un "ma" che mette in dubbio il coraggio e l' eroismo dei conquistadores.
Clara Miccinelli, una studiosa italiana che ha raccolto ed ereditato una sorta di archivio storico, a metà degli anni 80 pubblica un libro sulla antica scrittura Inca portando come fonti alcuni documenti originali in suo possesso. Questo testo desta la curiosità di alcuni studiosi tra cui un' altra italiana, la dottoressa Laura L.Minelli, docente di storia e civiltà precolombiane all' università di Bologna, che incontra la signora Miccinelli e ottiene il permesso di analizzare le sue "antiche scartoffie" trovando di estremo interesse alcuni testi e lettere contemporanei e immediatamente successivi alla conquista del Perù.
Si tratta di due manoscritti e pochi altri documenti redatti e raccolti da un gruppo di gesuiti che si impegnarono nel tentativo di difendere la popolazione locale dai soprusi dei conquistatori spagnoli. Attraverso tali documenti intendevano far arrivare "più in alto possibile" la vera storia della conquista, macchiata dall' inganno e pertanto illegittima, la condizione di schiavitù e violenza a cui dovevano sottostare gli indigeni e, visti i pericoli di sterminio e il gusto dei preti per i falò, tramandare per quanto possibile la cultura Inca, i suoi miti e i testi popolari anche attraverso l' originale metodo di scrittura fatto di cordicelle annodate (quipu).
Il più attivo tra questi gesuiti fu un meticcio di nome Blas Valera, figlio di un soldato spagnolo al seguito di Pizarro e di una mezzosangue Inca (il termine Inca individua la stirpe dei re, la stirpe divina, non il popolo che era semplicemente la "gente del Tahuantinsuyu"). Blas crebbe incarognito per aver visto il padre uccidere la madre e fu educato ad entrambe le culture d' origine grazie al nonno materno e lo zio paterno Luis.
Una volta entrato nella Compagnia di Gesù la sua determinazione nella tutela degli indios lo portò presto in conflitto coi vertici della chiesa (l' inquisizione era particolarmente attiva), a tal punto che con un pretesto venne messo di fronte alla scelta tra abbandonare l' ordine dei gesuiti o morire giuridicamente. Il prete non si spretò: ufficialmente dunque Blas Valera muore nel 1597, in realtà vivrà ancora più di vent' anni.
A questo punto, da fantasma, ripara in Perù e proprio in questo periodo scrive "Exsul immeritus Blas Valera populo suo", un testo che si rivolge sia agli indios che agli spagnoli e a cui è allegata una relazione, spunto e tema di questo post, diretta al Re di Spagna Carlo V e firmata da tale Francisco de Chaves, compagno d' armi di Pizarro e presente a Cajamarca il giorno della battaglia: nella lettera de Chaves racconta al Re la sua verità sulla conquista, ed è una versione disonorevole e delegittimante, giudicherete dopo averla letta.
Purtroppo le fatiche di Blas furono vane, la stretta censura applicata dai governanti dell' epoca non permise ai manoscritti di arrivare ai rispettivi destinatari.La relazione fu scritta da de Chaves nel 1533, l' autore in seguito la consegnò a Luis Valera che la diede al nipote Blas. Il gesuita data il manoscritto a cui è allegata la relazione al 1618 e da quel momento se ne perdono le tracce fino al secolo scorso quando riappare in Spagna; l' ultimo passaggio di mano noto è certificato da una lettera che accompagnava il manoscritto quando venne donato dal Duca d' Aosta (in occasione delle nozze-1930) all' amico commilitone maggiore Riccardo Cera, zio della signora Miccinelli, che in passato gli aveva salvato la vita.
I documenti Miccinelli sono stati sottoposti ad analisi di autenticità attraverso l' esame del radiocarbonio, l' esame della carta e dell' inchiostro usato, il confronto delle grafie dei redattori con quelle di altri testi autentici e, non ultimo, attraverso l' esame incrociato con altri due documenti dell' epoca trovati in Spagna che citano e fanno riferimento ai manoscritti in possesso della studiosa italiana.
Nonostante la provata autenticità, la storia narrata nella lettera di de Chaves viene ancora trattata come poco più che una curiosità, i testi non hanno modificato la narrazione della conquista e passeranno magari altri cinquecento anni prima che i fatti come raccontati dal testimone oculare Francisco de Chaves possano diventare ufficiali e condivisi.
I più strenui difensori dell' incancrenita versione ufficiale sono sempre gli uomini della chiesa che a distanza di secoli ancora combattono contro quella che viene definita la "Leggenda nera dei conquistadores", a loro dire una storia esagerata sullo sterminio degli Indios messa in giro dai protestanti (impegnati nella devastazione del nordamerica) in modo da screditare i rivali cattolici e contemporaneamente giustificare se stessi dalle accuse di sterminio dei cosiddetti pellerossa.
In rete si trovano dozzine di articoli che negano e minimizzano le stragi perpetrate dagli spagnoli e che riducono a poco più che un piccolo particolare, quando non ad una storiella inventata, il modo in cui fu ottenuta la vergognosa vittoria di Pizarro quel giorno a Cajamarca.
La dottoressa Minelli anni fa ha pubblicato un libro sull' analisi dei "documenti Miccinelli", ecco cosa si legge in un passaggio dell' introduzione:"Sorvolo sul dibattito sorto su questi documenti che, come affermano Domenici e Domenici (2003: VIII) di accademico ha spesso avuto il nome ma non le forme: certo è che appena allora mi resi conto che la minaccia anonima di morte, che avevo attribuito ad uno squilibrato, si stava realizzando ma in forma più sottile e metaforica: significava la mia eliminazione come studiosa e la condanna al silenzio degli scomodi documenti, cioè il rifiuto in blocco sia dei manoscritti come “falsi”, sia dei miei interventi con cui intendevo porli sul tappeto della discussione, sia delle mie pubblicazioni e dei miei articoli volti a controbattere le accuse di falsità".
Fortunatamente non è calato il silenzio sui "documenti Miccinelli" e questo post vuole continuare l' opera di diffusione; eccovi, nelle immagini, la traduzione della relazione di Francisco de Chaves.
Le sei immagini con la relazione di Francisco de Chaves sono tratte dal libro "Exsul immeritus Blas Valera populo suo e historia et rudimenta linguae piruanorum. Indios, gesuiti e spagnoli in due documenti segreti sul Perù del XVII secolo" a cura della dottoressa Laura Laurencich Minelli ed edito da CLUEB.
Buona lettura.
Link alle immagini: www.facebook.com/photo.php?fbid=14996827...06404&type=3&theater
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Docente di storia moderna presso l'universita' di Roma la sapienza e ' tra i pochi professori e storici che hanno avuto il coraggio di aprire un varco tra il muro di omerta' e le falsita' che hanno accompagnato il "risorgimento" italiano.
Dietro ogni decisione politico-economica di uno stato a sovranita' limitata c'e' sempre una potenza,ecco in due righe quelle premesse che portarono il destino della "nazione" italia fino ai nostri giorni ed oltre:
Questo e' un inizio, seguiranno altri fatti non fuffe che dimostrano come i politici devono rendere conto del loro operato,sopratutto all'estero.
L'ostilità inglese destabilizzò il Regno di Napoli
Fin da quando salì al trono nel novembre del 1830, Ferdinando II concepì la presenza del Regno delle Due Sicilie sullo scacchiere europeo come quella di un'entità politica in crescita. Benedetto Croce, nella Storia del Regno di Napoli (Adelphi) notava che, nelle intenzioni di Ferdinando II, il regno doveva essere un organismo politico «nelle cui faccende nessun altro Stato avesse da immischiarsi, tale da non dar noia agli altri e da non permetterne per sé». Così, proseguiva Croce, il figlio di Francesco I «guardingo e abile si avvicinò alla Francia, si liberò della tutela dell'Austria, che aveva sorretto e insieme sfruttato la monarchia napoletana, e mantenne sempre contegno non servile verso l'Inghilterra che era stata la protettrice e dominatrice della sua dinastia nel ventennio della Rivoluzione e dell'Impero». Ma l'Inghilterra riteneva che l'aver difeso i Borbone ai tempi di Acton e di Napoleone le desse i titoli per poter ottenere una totale subalternità da parte di Ferdinando II. E dava segni di fastidio per quel «contegno non servile» di cui parlava Croce.
Fu così che Ferdinando II nel 1834 firmò (inconsapevolmente) la condanna a morte del suo regno. Quell'anno, 1834, nel pieno della «prima guerra carlista» (1833-1840), Ferdinando rifiutò di schierarsi a favore di Isabella II contro Carlo Maria Isidro di Borbone-Spagna nel conflitto per la successione a Ferdinando VII sul trono iberico. Dalla parte di Isabella, figlia di Ferdinando VII, e contro don Carlos, fratello del re scomparso, erano scese in campo Francia e Inghilterra, che considerarono quello del regime borbonico alla stregua di un vero e proprio atto di insubordinazione. Londra ci vide, anzi, qualcosa di più: il desiderio del Regno delle Due Sicilie di elevarsi, affrancandosi da antiche subalternità, al rango di medio-grande potenza. E da quel momento iniziò a tramare per destabilizzarlo. La storia di questa trama è adesso raccontata da un importante libro di Eugenio Di Rienzo, Il Regno delle Due Sicilie e le Potenze europee (1830-1861) , che sarà presto pubblicato da Rubbettino.
Un bel pezzo di storia nascosta dall'accordo tra massoneria reazionaria europea e il vaticano gia' all'indomani della "presa " di porta pia.
Gli ultimi secondi del video sono dedicati a garibaldi in visita a londra, da notare come gia' all'epoca funzionasse la propaganda mainstream.
NO FAITHS NO PAIN
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Una volta preso possesso dell'ex regno delle due sicilie la cosidetta casa reale soffoco' le giuste richieste delle masse contadine nel sangue, sostitui' la corruzione borbonica con quella "italiana", diede nuova linfa vitale alla mafia, trasferi' le fabbriche esistenti al nord, relegando a protagonista di secondo piano tutto il meridione, cosa che ancora oggi possiamo toccare con mano.
Un altro che non ha paura della "scomunica" patriottica e' Pino Aprile,anche lui instancabile ricercatore di documenti, registri e testimonianze di quel periodo. Giornalista e scrittore, ha collaborato con eminenti firme della sua categoria come Sergio Zavoli,ricevendo per il suo libro TERRONI premi e riconoscimenti anche all'estero.
Continua la storia della nostra dipendenza politica,economica,militare,culturale con la potenza di turno, continuiamo ad essere governati da una schiera di "servi" e "maggiordomi" sia al governo che all'opposizione, "servi" e "maggiordomi" che all'occorrenza si trasformano in cani da guardia.
NO FAITHS NO PAIN
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E' già abbastanza difficile cercare di spiegare in modo semplice quello che già vedono i nostri occhi, che a volte non c'è bisogno di andare a cercare chissà quali documenti nascosti e sempre di difficile attribuzione.Converrai che falsificare una lettera sia più semplice che copiare uno stile pittorico.
Io stesso già da piccolo falsificavo le firme dei mie genitori e in genere mi bastano dieci minuti per capire il senso di una scrittura e riprodurla.
Ci sono però ancora persone che si ostinano a vedere questi affreschi come romani, databili al I secolo dopo Cristo, di Villa Boscoreale a Pompei.
Che la battaglia tra Dario e Alessandro il macedone non ricalchi nello stile pittorico e nella stessa modalità costruttiva quella del tardo medioevo, da paolo Uccello a Raffaello e anche Leonardo da Vinci.
Che siano poi presenti oggetti come questo, un globo con meridiani, un orologio solare il cui perfezionamento non è avvenuto prima del 1500.
Insomma, cosa vuoi che ti scriva.
Voglio dire, la storia non mi sembra molto nascosta.
Come può l'acqua memoria serbare se dalle nuvole cade? (poeta del dugento)
Ci sposiamo sessiamo insieme sessista bene perché no (progetto anti gender 2016)
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Tratto dal sito : Il Labirinto del Novecento
L'Italia rimase neutrale durante il primo anno di guerra (si giustificò affermando che l’Austria e la Germania non erano state aggredite: le condizioni della Triplice Alleanza erano difensive e quindi non potevano essere applicate). Ma all'interno del paese si formarono vasti schieramenti favorevoli alla guerra e il governo si convinse che quella fosse l'occasione per ottenere importanti vantaggi territoriali. Rifiutata l'offerta austriaca del Trentino in cambio della neutralità e ricevuto il rifiuto da parte dell'Austria di cedere Trieste (porto principale e vitale per l'Austria)) l'Italia aprì trattative con LONDRA che si conclusero con la ratifica di un accordo segreto (25 aprile 1915). L’Intesa avrebbe finanziato con prestiti ingenti lo sforzo militare dell’Italia, dichiarandosi disponibile a riconoscerle, in caso di vittoria, il Trentino, la Venezia Giulia, ma anche l’Alto Adige e la Dalmazia, l’egemonia sull’Adriatico e dunque una specifica influenza sull’Albania e sul Montenegro, oltre a eventuali concessioni coloniali in Turchia e in Africa a spese dell’Impero Ottomano e della Germania.
Inoltre si iniziarono a gettare le basi per il primo dopoguerra, basi che avrebbero portato l'europa vista in chiave anti-bolscevica ,ma in verita' contro il miglioramento delle condizioni di vita di milioni di persone (contadini,operai,piccoli artigiani)verso una seconda apocalisse, in italia si comincio' a finanziare e a sostenere politicamente quello che per primo cambio' i suoi punti di vista da convinto pacifista a irriducibile interventista e quindi un soggetto facilmente manovrabile,benito mussolini,che allungo' ulteriomente la saga dei politici creati ad arte in funzione coloniale.
NO FAITHS NO PAIN
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Detto questo, caro il mio Pyt, cosa puoi dire? Quello che ti va, sempre che sia attinente all' argomento del forum: quindi va benissimo quello che hai scritto, gli spunti che hai dato sono parecchio interessanti ma purtroppo non sono in grado di ragionarci adeguatamente vista la mia totale impreparazione sull' argomento pittura e simili. Quindi se vuoi e se hai o avrai del tempo, un approfondimento è graditissimo (visto anche che per ora non si è vista la seconda parte -che avevi mezzo preannunciato- del tuo interessante pezzo pubblicato sul vecchio LC :popcorn: )
Per quanto riguarda la possibile falsificazione degli scritti (credo tu faccia riferimento alla relazione de Chaves), da quello che ho potuto capire la lettera ha passato tutti i test di autenticità riguardo alla data di stesura ma è chiaro che la certezza che sia effettivamente stata scritta da questo signor Francisco non c'è.
Ma: visto anche il ritrovamento di altre carte che fanno riferimento ai fatti come narrati da de Chaves, vista la pretestuosa accusa (rapporti carnali con una maggiorenne) che portò, caso unico per l' epoca, addirittura alla morte giuridica di B.Valera in modo da farlo tacere, vista anche la plausibilità di tutto il resto delle accuse che il gesuita muove agli spagnoli, la mia valutazione è che la relazione sia autentica. Se invece hai da specularci su, ti ascolto con molto interesse, lo sai.
Tornando al tuo post, ad esempio, mi piacerebbe sapere dove è raffigurato il globo coi meridiani, di che epoca è, cosa potrebbe significare e quali strade potrebbe aprire la sua raffigurazione in un epoca in cui non dovrebbe essere esistito...
Insomma, se vuoi, c' hai da scrivere.
Ciao! :wave:
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Parlando sempre del primo conflitto mondiale,ecco un resoconto delle truppe straniere in particolare inglesi e francesi, inviate sul fronte italiano dopo la disfatta di caporetto, a parte il rispetto per chi e' morto o rimasto ferito nel corpo e nella mente, questo aiuto complico' le cose a guerra finita, se da una parte ci rese ancora piu' dipendenti dalle politiche anglo-francesi e purtroppo per noi in prospettiva futura anche di quelle della nascente potenza nordamericana, dall'altra determinarono in maniera significativa le trattative dopo il cessate il fuoco.Il famoso patto segreto di londra non fu rispettato in toto,anzi l'italia fu osteggiata da u.s.a. e francia ancor prima dell'inghilterra,la spartizione di colonie e territori fu appannaggio dei nostri "padroni".
Tratto dal sito fiammecremisi "del corpo dei bersaglieri" quindi addirittura da chi l'unita' d'italia la volle e l'applico' con la forza,un resoconto delle truppe straniere arrivate in aiuto dell'italia dopo caporetto:
INGLESI:
Nel novembre 1917, per parare le conseguenze di Caporetto, arriva in Italia il corpo di spedizione britannico B.E.F. (British Expeditionary Force Italy, XI corpo d'armata .(div. 5-41°) e XIV c.d.a. (div.7-23-48°)) su 715 treni e numerose autocolonne. La divisione inglese è su 3 brigate di 4 battaglioni cadauna (12 in totale l'equivalente dell'Italiana) a cui si aggiungono mitraglieri, mortai, genio e logistica. Tra gli ufficiali Edoardo VIII futuro Re. Dal 30 novembre i soldati si schierano sul Montello. Ma gia dalla primavera del '17 erano arrivate in rinforzo 10 batterie (40 cannoni Howitzer 6 inch) della Royal Garrison Artillery aggregate alla III armata.
Con l'anno nuovo, vista la relativa calma e il rafforzamento italiano, l'XI corpo è riportato in Francia e il XIV dislocato sull'altopiano d'Asiago. La tattica inglese che precede le offensive prevede una guerra notturna continua di pattuglie. La staticità della trincea, dicono loro, tende a tradursi per gli uomini in uno stato di passività. I "raiders" riportano notizie sulla dislocazione del nemico, prigionieri, e stato del terreno. La difensiva sulla quale si trova la linea prolunga nel tempo queste sortite che si protraggono fino a metà Giugno. La natura mossa del loro fronte favorisce anche questa tattica. Le fila degli inglesi sono falcidiate intanto dalla spagnola che provoca 480 morti e molti ricoveri. La battaglia del Solstizio (Giugno) si combatte anche sugli altipiani, dove la furia austriaca è contenuta a prezzo di notevoli perdite per loro (50% dei caduti dell'intera campagna italiana). Si racconta che sul torrente Ghelpac nel settore di Cesuna, occupato dai soldati britannici, in particolare Ghelpac Park nome dato alle trincee più avanzate (attuali cave di marmo) il 15 giugno 1918, gli austriaci riuscirono a sfondare le linee inglesi tenute dal I\V battaglione del reggimento Gloucester. Un contrattacco inglese, favorito dalla sbornia colossale degli austriaci che si erano bevuti le riserve di rhum inglese catturate, frenarono l’avanzata imperiale, determinando il fallimento dell’attacco. Dopo la battaglia riprendono i raid notturni contro le postazioni della terra di nessuno e quelle avanzate per catturare prigionieri. In prima linea si usano sempre più frequentemente potenti riflettori, puntati sulle trincee, che accecano l'avversario e impediscono la vista di chi viene all'assalto. La parte dell'altipiano su cui operano gli Inglesi è quella infatti del Kaberlaba, Cesuna e limitrofe ben note agli odierni sciatori. I raid notturni erano anticipati dai colpi precisi d'artiglieria e non si svolgevano quindi come colpi di mano inaspettati. "
FRANCESI:
Se noi fino a questo momento eravamo convinti di aver condotto la nostra guerra (anche guerra di liberazione di terre irredente), potevamo ricrederci, poiché per i francesi il nostro era un loro sottofronte, noi una sub colonia, e se non interferirono fu solo perché fino a Caporetto le cose erano andate come previsto.
Nei primi anni di guerra in Italia di Francesi se ne vide pochi, consiglieri, qualche squadriglia aerea e molta artiglieria (60 pz). Nella primavera del '17, visto il nostro logoramento e la nostra incapacità di dare una svolta positiva al conflitto (ma a casa loro era anche peggio) promisero in caso di bisogno 10 divisioni. I loro artiglieri (120 mm), inseriti nella II armata erano sul Globokak il 24 ottobre 1917 e dal quel momento anche un reggimento faceva bisogno per noi al Piave. Il 30 ottobre Foch era già in Italia per concordare gli aiuti. Il 6 novembre già molti uomini del contingente erano schierati nel Bresciano e Vicentino. Il contingente francese, (in totale alla fine coi supporti circa 133.000 uomini div. 64 e 65, XXXI corpo del gen. Rozée d'Infreville e Chasseurs des Alpes div. Alpine 47 e 46) uomini, fu il maggiore apporto alleato a sostegno dell'esercito italiano nel 1917. La spedizione, decisa anche grazie al decisivo aiuto americano in Francia, avrebbe condizionato (credevano) la condotta delle successive operazioni militari dopo l'allontanamento di Cadorna (allontanamento da loro caldamente imposto) e le scelte politiche conseguenti al nostro asservimento. I francesi se ne stavano per lo più in disparte, criticando gli italiani per la loro povertà contadina e per la loro esagerata "devozione" alle pratiche cattoliche . Le osterie di paese, che recavano cartelli sul tipo "vietato sputare per terra" o "la persona educata non bestemmia" rafforzavano l'impressione di dover aiutare un popolo sottosviluppato. Nessuna remora nemmeno nel pretendere razioni alimentari "speciali", poiché consideravano quelle italiane misere al palato. In tal modo la nostra sussistenza prendeva atto che ai francesi non doveva mancare il pesce, quasi ogni giorno e che, soprattutto, non mancasse il baccalà. Anche sul tabacco avevano da ridire. Fortuna volle che nel veneto questo fosse uno dei piatti più diffusi, guerra permettendo. Va pure precisato che la nuova gestione dell'esercito Francese, similmente a quella italiana, prevedeva anche alcune migliorie, in particolare per i turni al fronte che erano meno pesanti. Si faceva una settimana in trincea e poi pieno riposo in retrovia, quando ancora gli italiani erano soliti "riposare" lavorando. Il 20 novembre 1917 arrivavano le ultime divisioni (XII corpo del gen. Nourisson div. 23 e 24) con la certezza di "dover salvare l'Italia da una disfatta generale", convinzione che li indusse a scavare trincee nei pressi di Custoza.!!
STATUNITENSI:
Allarmati dal disastro militare di Caporetto, nel dicembre del 1917 arrivarono in Italia altri americani. Non erano truppe combattenti come in Francia, ma giovani volontari dell’”American Red Cross” che avevano firmato un ingaggio semestrale come conducenti di autoambulanze. In gran parte studenti universitari, erano ansiosi dì assistere «in prima fila» a quello che la stampa degli Stati Uniti, con un cinismo giustificato solo dalla lontananza, esaltava come «il più grande spettacolo del mondo». Si trattava di un piccolo contingente. In tutto circa 200 uomini, con compiti di natura assistenziale-propagandistica. In pratica erano stati mandati in Italia per infondere coraggio a chi combatteva in prima linea, per tirare su il morale dopo la catastrofica ritirata, per dire che tenesse duro perché dietro c’era la grande America (che stava arrivando ?!).
Sul fronte italiano gli americani erano stati raggruppati in cinque Sezioni delI’ARC (American Red Cross) con basi a Schio. Bassano del Grappa, Fanzolo, Roncade e Casale sul Sile. Ciascuna Sezione disponeva di venti autoambulanze «Ford» e «Fiat» e di una trentina di conducenti adibiti al trasporto dei feriti dai posti di medicazione agli ospedali da campo delle retrovie. Le Sezioni si occupavano anche della gestione dei «posti di ristoro» allestiti dietro le prime linee che fornivano ai combattenti generi di conforto. A Milano, in via Cesare Cantù n. 4, l’ARC aveva organizzato per il proprio personale un piccolo ma efficiente ospedale militare. Quando il fronte era tranquillo, questi ragazzi americani in divisa kaki si azzardavano a mettere piede nelle trincee dove distribuivano strette di mano, cioccolato, sigarette, caffè e pacche sulle spalle. Per questo, non sapendo come definirli i più li chiamavano “quelli della cioccolata" Bruno Traversari.
NO FAITHS NO PAIN
Si prega Accesso a partecipare alla conversazione.
Giano ha scritto: Ciao Pyter, l' idea di aprire il forum mi è venuta per la curiosità di conoscere sia le "storie nascoste" che le "storie poco conosciute". Ovvero, non solo una ricerca di "verità" come quella (possibile) del post d' apertura, ma anche la fame di storie magari stranote ma a me sconosciute. Più o meno quello che ho cercato di comunicare nel post di presentazione col mio stentato e non sempre efficace italiano.
Detto questo, caro il mio Pyt, cosa puoi dire? Quello che ti va, sempre che sia attinente all' argomento del forum: quindi va benissimo quello che hai scritto, gli spunti che hai dato sono parecchio interessanti ma purtroppo non sono in grado di ragionarci adeguatamente vista la mia totale impreparazione sull' argomento pittura e simili. Quindi se vuoi e se hai o avrai del tempo, un approfondimento è graditissimo (visto anche che per ora non si è vista la seconda parte -che avevi mezzo preannunciato- del tuo interessante pezzo pubblicato sul vecchio LC :popcorn: )
Tornando al tuo post, ad esempio, mi piacerebbe sapere dove è raffigurato il globo coi meridiani, di che epoca è, cosa potrebbe significare e quali strade potrebbe aprire la sua raffigurazione in un epoca in cui non dovrebbe essere esistito...
Insomma, se vuoi, c' hai da scrivere.
Ciao! :wave:
Il problema della scrittura dell'articolo relativo ai quadri del Guercino e di Poussin, con la decifrazione della famosa scritta "Et in Arcadia Ego"
non è di semplice soluzione.
Primo: questo pare un sito dove c'è un numero impressionante di gente che ammette candidamente di non occuparsi di arte e di capirne poco.
E io, essendo un complottista e quindi psicologicamente labile, mi smonto assai facilmente.
Secondo: ho notato che l'interesse per le cose di cui parlo è basso è basso anche quando non parlo d'arte, il che è incredibile se si raffrontano col successo che hanno invece avute le fregnacce di Dan Brown.
Terzo: scrivere delle opre pittoriche in questione renderebbe obbligatorio parlare di procedimenti legati all'alchimia, un tema che già di per sè è ostico. Oltretutto bisognerebbe citare una bella mole di documenti storici, il che renderebbe l'articolo stesso molto lungo.
Quarto (come direbbe Rosa Capuozzo): sarebbe necessario un lungo lavoro di sintesi, ma anche così, gli articoli dovrebbero essere almeno tre.
Quinto: probabilmente farei prima a scansionare le pagine attinenti del libro, ma non mi va di rovinarlo.
Sesto: temo che per il momento vi dovrete accontentare della versione di Vittorio Sgarbi, anche se non so in che termini si sia espresso sul tema del San Giovanni dell'ultima cena o sui Pastori d'arcadia, ma potrei riuscire a immaginarlo concentrandomi.
Per quanto riguarda le immagini che ho postato sopara sono tutte di Pompei. Quello dell'orologio solare è nella Villa Boscoreale.
Quell'oggetto non poteva esistere nel I secolo, essendo stato 'perfezionato' dopo il XVI secolo. Lo cita anche Fomenko in uno dei suoi libri (non so però se è farina del suo sacco, ma non ha importanza). Lo stesso Fomenko sostiene che Pompei sia stata distrutta in eruzioni vulcaniche (con annesso uno sciame sismico, come dicevano i tg dell'epoca) avvenute nel XV secolo. Pompei quindi sarebbe una città medievale, nel senso che andrebbe collocata in quel periodo storico.
Famoso è anche l'oratorio cristiano ritrovato a Ercolano, con tanto di segno di croce sul muro, cioè in un periodo in cui i cristiani non usavano quel segno (ci hanno detto trattavasi di pesce), a parte poi la questione non secondaria che nel 70 dopo Cristo i cristiani vivessero nelle catacombe e fossero perseguitati.
Probabilmente è stato quello che ha ispirato a Litton il libro 'Gli ultimi giorni di Pompei', dove i cristiani , seppur invisi, professavano tranquillamente la loro religione, propagandavano liberamente il credo e passeggiavano altrettanto felici sebbene solo la sera, all'ombra, nelle ore in cui si complotta.
home.arcor.de/m.chiarello/apostoli.htm
Scrolla la pagina fino in fondo (non c'è bisogno che leggi tutto, tanto non c'è scritto molto di interessante).
[iNel 1939 si scoprì ad Ercolano l'impronta di una crux capitata su un muro, nella parte riservata agli schiavi di una villa patrizia. Attorno alla croce, ancora i chiodi per sostenere lo sportello o la tenda che nascondevano il simbolo del culto cristiano. La casa fu sepolta coll'intera città dalla lava della celebre eruzione del Vesuvio: era l'anno 79 d.C.][/i]
Niente di strano.
Insomma facevano quello che oggi fanno da noi le reclute dell'Isis, facendo dannare i servizi segreti dell'impero romano. Sacro.
Così come oggi l'impero bombarda mentre i miliziani sono già scappati e si trovano in Europa reclutando e diffondendo il verbo di Allah e facendoci un culo così, parimenti anticamente, nel 70, quando i romani distruggevano Gerico, gli apostoli erano già qui predicando e facendo un culo così all'impero, disarmati, colla sola arma del verbo di Cristo.
Come direbbe Pispax: Curioso, vero?
Come può l'acqua memoria serbare se dalle nuvole cade? (poeta del dugento)
Ci sposiamo sessiamo insieme sessista bene perché no (progetto anti gender 2016)
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Dal corriere delle sera :
ANTICIPAZIONI Un saggio ricostruisce i retroscena: l' abbandono del neutralismo e il ruolo dei finanziamenti segreti al «Popolo d' Italia»
Grande guerra, la verità su Mussolini interventista
La conversione del futuro dittatore nel fatidico 1914 raccontata dal pronipote Claudio
La parentesi è il titolo di un libro scritto da Claudio Mussolini, che Baldini & Castoldi manderà in libreria il 16 luglio (pagine 416, euro 15). Il volume, oltre che per il contenuto, si annuncia interessante a partire dal suo autore, nipote di Arnaldo Mussolini (il fratello di Benito). Figlio di Vito Mussolini, cui lo zio Benito, alla morte del fratello affidò la direzione del Popolo d' Italia, Claudio Mussolini, nato a Milano nel 1942, è stato iscritto al Partito comunista, per il quale ha svolto incarichi a livello dirigente. Da una decina di anni svolge attività di traduttore dal francese e dall' inglese, mentre da studioso si occupa di aspetti particolari della storiografia del Novecento. Da quest' ultima attività è nato il libro del quale, in questa pagina, anticipiamo un brano. La «parentesi», cui si riferisce il titolo, è quella tra il 1914 e il 1924, dallo scoppio della guerra alla presa del potere: «le vie del fascismo» spiega, infatti, il sottotitolo. Un esame di bibliografia comparata, questo volume di Claudio Mussolini; un saggio che analizza gli avvenimenti di un' importante parentesi del secolo scorso (dall' entrata in guerra dell' Italia nel primo conflitto mondiale alla presa del potere di Mussolini, dopo la fatidica marcia su Roma) attraverso i tanti libri di storia e i documenti che di quel periodo parlano. Grande guerra, la verità su Mussolini interventista La conversione del futuro dittatore nel fatidico 1914 raccontata dal pronipote Claudio C' è un episodio del ' 14 riguardante la figura di Filippo Naldi, il direttore del «Resto del Carlino», che ebbe un ruolo non sottovalutabile nella famosa conversione di Mussolini dal neutralismo assoluto a quello condizionato poi, col finanziamento del «Popolo d' Italia», nel passaggio del suo direttore nelle file dei fasci interventisti di De Ambris e Corridoni. Naldi è colui che nell' estate del ' 14 organizza l' opera di stanamento di Mussolini; il direttore dell' «Avanti!» non è un sostenitore ma il sostenitore della linea inflessibile di neutralità assoluta del Partito socialista e, privatamente per quanto se ne sa, di una sorta di possibilismo. Il successo di Naldi che ha, per così dire, organizzato e forse ben orchestrato la partecipazione al dibattito aperto sull' «Avanti!» dal suo direttore, arriverà presto con il famoso articolo peraltro preparato e anticipato da altri di tenore non dissimile; gli sviluppi della vicenda sono sufficientemente noti: le dimissioni di Mussolini e nelle settimane che seguono la fondazione del «Popolo d' Italia». In seguito si saprà dallo stesso Naldi, costretto poi all' emigrazione (con conferma di Cesare Rossi),che egli agiva come longa manus del ministero degli Esteri, dunque del San Giuliano, per - questo è il punto - diciamo così ammorbidire il neutralismo dei socialisti individuandone il punto debole o il punto su cui fare leva nell' intransigente e insieme possibilista Mussolini. La vicenda, tuttavia, assume una coloritura differente a seconda che si consideri l' azione del ministero degli Esteri prima della morte del suo titolare nei termini riassunti in precedenza, sulla base del Pieri, oppure nella versione affatto differente, se non opposta, del De Felice il quale scrive: «La Consulta (ministero degli Esteri) non era certo interventista. San Giuliano aveva voluto che la stampa neutralista fosse lavorata non per facilitare l' ingresso dell' Italia in guerra, ma per avere una carta in più nel suo gioco diplomatico con Vienna». Notiamo però, innanzitutto, che De Felice non presenta e quindi non obietta nulla sulla figura e l' agire del San Giuliano, versione Pieri, dell' agosto del ' 14 che corrisponde al periodo in cui il Naldi inizia il lavoro di stanamento; notiamo inoltre come il Naldi viene insistentemente definito un giolittiano e che poi anche questo finisce per confondere il senso dei motivi del suo modo di agire; notiamo infine che nelle righe successive egli ritiene di dover dare maggiore importanza al fatto che Mussolini, venuto a sapere della cosa, molto irritato di essere stato manipolato dal governo in carica, cercò dei nuovi finanziamenti in Francia. Ma la questione più rilevante storicamente, la lettura politicamente più interessante, e anche più corretta, non è quella del finanziamento, ma è quella che la conversione interventista di Mussolini, perché fosse attuata in tempo utile per non essere considerata sospetta, era riuscita in extremis solo in virtù dell' iniziativa del ministero degli Esteri tramite il Naldi; quindi se si sceglie di attribuire alla conversione (che richiese come minimo quattro mesi) il peso politico per le decisioni successive dell' Italia evidenziato dagli storici - cosa che certo si può sempre discutere - si deve ammettere che in realtà il governo in carica al momento dello scoppio delle ostilità, agosto del ' 14, era già orientato in senso interventista e già deciso a far flettere la linea della neutralità assoluta e rendere più condizionata e più possibilista la rigidità dei socialisti e dei cattolici a questo stesso fine. Un' ulteriore conferma ci viene dalla riflessione sul fatto curioso che gli storici in genere - commentando la conversione si soffermano sul passaggio clamoroso, ma in fondo non dirompente, dal neutralismo assoluto a quello condizionato, per il quale peraltro non vi fu alcuna richiesta d' espulsione - non hanno ritenuto necessario approfondire il passaggio più discreto (ben s' intende, non l' esito) dal neutralismo condizionato, una posizione questa che serpeggiava già ampiamente nello stesso Partito socialista a Milano e nella Cgl, all' interventismo attivo, contrassegnato dalla fondazione del «Popolo d' Italia», per la quale vi fu invece la richiesta d' espulsione. Se ci soffermiamo sul fatto che le conversioni furono due (ciò che importa non è solo come apparvero all' opinione pubblica), ci rendiamo anche conto che esse riflettono con un' aderenza ben maggiore l' evoluzione non scontata del comportamento del governo Salandra per la successione al vertice del ministero degli Esteri (inizio di novembre) con la ripresa delle ambiguità e anche il ben noto ripensamento della fine di settembre del capo di stato maggiore Cadorna sulla possibilità di attuare la mobilitazione generale. Insomma, l' ondeggiare di Mussolini è l' immagine riflessa degli sbandamenti e degli avvicendamenti al vertice del governo e dello stato maggiore, coincidenze nelle date ma non solo, anche negli orientamenti. Gl' interventisti e il fascismo, poi, non amarono troppo - e si capisce - rivangare sulle primogeniture. Siamo di fronte a un caratteristico esempio di bibliografia incrociata molto rivelatrice di come i testi e gli autori sollecitino il lettore, più di quanto essi pensino, a formarsi una propria opinione, cosa spesso non facile; in questo caso, il risultato della lettura incrociata fa sì che la vicenda Naldi raccontata dal De Felice, rafforzi suo malgrado il profilo del San Giuliano versione Pieri, fornendo indizi ulteriori e quindi una rifinitura della caratterizzazione della sua posizione nei mesi che precedettero la sua morte.
Mussolini Claudio
NO FAITHS NO PAIN
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Citazione:
Il problema della scrittura dell'articolo relativo ai quadri del Guercino e di Poussin, con la decifrazione della famosa scritta "Et in Arcadia Ego"
non è di semplice soluzione.
Primo: questo pare un sito dove c'è un numero impressionante di gente che ammette candidamente di non occuparsi di arte e di capirne poco.
E io, essendo un complottista e quindi psicologicamente labile, mi smonto assai facilmente.
Tutte scuse. :goof:
L' articolo sulla Primavera era una figata e infatti ricevesti un sacco di complimenti (anche da parte mia che di arte mi occupo poco e ne capisco meno).
Citazione:
Secondo: ho notato che l'interesse per le cose di cui parlo è basso è basso anche quando non parlo d'arte, il che è incredibile se si raffrontano col successo che hanno invece avute le fregnacce di Dan Brown.
Terzo: scrivere delle opre pittoriche in questione renderebbe obbligatorio parlare di procedimenti legati all'alchimia, un tema che già di per sè è ostico. Oltretutto bisognerebbe citare una bella mole di documenti storici, il che renderebbe l'articolo stesso molto lungo.
Quarto (come direbbe Rosa Capuozzo): sarebbe necessario un lungo lavoro di sintesi, ma anche così, gli articoli dovrebbero essere almeno tre.
Quinto: probabilmente farei prima a scansionare le pagine attinenti del libro, ma non mi va di rovinarlo.
Sesto: temo che per il momento vi dovrete accontentare della versione di Vittorio Sgarbi, anche se non so in che termini si sia espresso sul tema del San Giovanni dell'ultima cena o sui Pastori d'arcadia, ma potrei riuscire a immaginarlo concentrandomi.
Tutte scuse!
Non c'è l' obbligo di stare entro le tremila battute, potresti prolissarti (oggi sono di conio) a piacimento e fare tutte le battute che vuoi...
Citazione:
Per quanto riguarda le immagini che ho postato sopara sono tutte di Pompei. Quello dell'orologio solare è nella Villa Boscoreale.
Quell'oggetto non poteva esistere nel I secolo, essendo stato 'perfezionato' dopo il XVI secolo. Lo cita anche Fomenko in uno dei suoi libri (non so però se è farina del suo sacco, ma non ha importanza). Lo stesso Fomenko sostiene che Pompei sia stata distrutta in eruzioni vulcaniche (con annesso uno sciame sismico, come dicevano i tg dell'epoca) avvenute nel XV secolo. Pompei quindi sarebbe una città medievale, nel senso che andrebbe collocata in quel periodo storico.
Famoso è anche l'oratorio cristiano ritrovato a Ercolano, con tanto di segno di croce sul muro, cioè in un periodo in cui i cristiani non usavano quel segno (ci hanno detto trattavasi di pesce), a parte poi la questione non secondaria che nel 70 dopo Cristo i cristiani vivessero nelle catacombe e fossero perseguitati.
Probabilmente è stato quello che ha ispirato a Litton il libro 'Gli ultimi giorni di Pompei', dove i cristiani , seppur invisi, professavano tranquillamente la loro religione, propagandavano liberamente il credo e passeggiavano altrettanto felici sebbene solo la sera, all'ombra, nelle ore in cui si complotta.
home.arcor.de/m.chiarello/apostoli.htm
Scrolla la pagina fino in fondo (non c'è bisogno che leggi tutto, tanto non c'è scritto molto di interessante).
Grazie per l' approfondimento e per il link, una comoda cronologia.
Citazione:
Insomma facevano quello che oggi fanno da noi le reclute dell'Isis, facendo dannare i servizi segreti dell'impero romano. Sacro.
Così come oggi l'impero bombarda mentre i miliziani sono già scappati e si trovano in Europa reclutando e diffondendo il verbo di Allah e facendoci un culo così, parimenti anticamente, nel 70, quando i romani distruggevano Gerico, gli apostoli erano già qui predicando e facendo un culo così all'impero, disarmati, colla sola arma del verbo di Cristo.
Come direbbe Pispax: Curioso, vero?
Curiosissimo.
Questo Fomenko però non l' ho capito. O meglio, ho più o meno capito la teoria delle linee temporali sovrapposte, se così si può dire, ma mi sfugge il perchè possano avere organizzato questa falsificazione. Solo per dare un passato glorioso che altrimenti non c' era?
Mi aiuti a capire? Con poche battute e senza rimandarmi al forum dedicato? Dio ti abbia in gloria (tra cent' anni)!
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Io sono quasi cinque anni che cerco di capirci qualcosa e tu, vorresti sapere il cui prodest?
Intanto c'è la questione sul fatto che la falsificazione sia stata voluta oppure determinata da errori accidentali nella compilazione.
Fomenko tende per gli errori fatti da Scaligero e da Petavius, i due principali protagonisti. Non ha mai parlato di volontarietà, ma potrebbe essere che essendo lui un accademico, non volesse esporsi più di tanto.
L'idea che mi sono fatta io è che tutti e due potrebbero aver fatto male i calcoli, basandosi su documenti e analisi astronomiche sbagliate.
Ci può stare.
In seguito però qualcuno (o più di uno) ha pensato di utilizzare la datazione per i propri fini.
Se infatti segui le vicende, non fai fatica ad accorgerti che finché era in vita Scaligero non se lo tirava nessuno. Aveva anche fama di essere uno che le sparave grosse. Certo era amico di Keplero e di tanti altri guarda caso tutti coinvolti (si scrivevano spesso cartoline di auguri).
Solo anni dopo la morte di Scaligero hanno deciso di rendere attendibile i suoi calcoli e di prendere tutto per buono. Cosa normalissima, come spesso succede ai geni incompresi.
Riassumendo, ci sono stati errori e poi qualcuno ha pensato di utilizzare e strumentalizzare questi errori
Per quale fine?
La risposta è semplice e scontata. Lo stesso che perseguono anche oggi chi ha il potere.
Se poi vuoi andare nello specifico e cercare risposte argomentate allora dovresti informarti sulle ricerche di Riccardo Magnani.
Lui una risposta ai perché della falsificazione storica la dà e son mica bruscolini.
Se hai seguito Magnani, allora una delle probabili risposte già la sapevi.
Se magari non la sai e hai seguito solo alcune conferenze, ti consiglio di procurarti il suo libro, quello su Leonardo da Vinci.
Un'altra cosa su cui varrebbe la pena discutere poi è, alla fine del settecento, quando si era affermata ufficialmente la datazione storica, la quasi nascita contemporanea della moda dei ritrovamenti, e quindi dell'archeologia.
Ma questo forse in un'altra puntata.
:wink:
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Pyter ha scritto: Così, in cinque minuti?
Io sono quasi cinque anni che cerco di capirci qualcosa e tu, vorresti sapere il cui prodest?
(...)
Se poi vuoi andare nello specifico e cercare risposte argomentate allora dovresti informarti sulle ricerche di Riccardo Magnani.
Lui una risposta ai perché della falsificazione storica la dà e son mica bruscolini.
Se hai seguito Magnani, allora una delle probabili risposte già la sapevi.
Se magari non la sai e hai seguito solo alcune conferenze, ti consiglio di procurarti il suo libro, quello su Leonardo da Vinci. (...)
Ho una elevata considerazione della tua persona...
...infatti qualche considerazione l' hai elargita. Grazie.:shake:
Non conosco bene i lavori di Magnani. Seguii una conferenza su Paititi che trovai piuttosto interessante, poi la presentò sulla pagina fb di Biglino e approfittai per porgergli alcune semplici ed ingenue domande: mi snobbò senza pietà ed essendo io un po' permaloso e molto rancoroso ( :angry: ) persi interesse verso la sua persona più che verso i suoi lavori che, per quel poco che ho potuto constatare, meritano attenzione.
Quindi ok, mi hai convinto, leggerò Magnani. Ti chiedo: ho visto che il lavoro su daVinci si sviluppa in tre volumi separati; quando dici "il suo libro, quello su Leonardo da Vinci" ti riferisci alla trilogia completa o ad un volume in particolare?
Li hai letti tutti? Consigli uno più di un altro o sono dipendenti uno dall' altro e vanno letti tutti pena non venirne a capo?
Grazie Pyt.
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Li hai letti tutti? Consigli uno più di un altro o sono dipendenti uno dall' altro e vanno letti tutti pena non venirne a capo?
Grazie Pyt.
Quale dei tre consigliarti? Mah! Difficile... io opterei per il primo... La missione segreta di Leonardo da Vinci.
Poi ovviamente ti consiglierei a ruota di leggere gli altri due, ovviamente quando deciderà di pubblicarli. Forse quest'anno, forse il prossimo. Chissà.
ps
Sono curioso di sapere che domande hai fatte a Magnani.
Non sapevo che mettesse i suoi lavori sulla pagina faistrut di Biglino.
Bella accoppiata.
Grazie Pyt.
Prego Già.
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Pyter ha scritto:
Li hai letti tutti? Consigli uno più di un altro o sono dipendenti uno dall' altro e vanno letti tutti pena non venirne a capo?
Grazie Pyt.
Quale dei tre consigliarti? Mah! Difficile... io opterei per il primo... La missione segreta di Leonardo da Vinci.
Poi ovviamente ti consiglierei a ruota di leggere gli altri due, ovviamente quando deciderà di pubblicarli. Forse quest'anno, forse il prossimo. Chissà.
ps
Sono curioso di sapere che domande hai fatte a Magnani.
Non sapevo che mettesse i suoi lavori sulla pagina faistrut di Biglino.
Bella accoppiata.
Villano! :offended:
Mi sono fidato di questo sito: www.idealandia.it/la_missione_segreta_di..._trilogia_vol_1_1189
Presentano, oltre al primo, anche il secondo volume "La musica delle sfere di L.dV." dandolo in uscita per fine '14, e il terzo, "L.dV. apre le porte all' Eldorado" in uscita, dice, a fine '15.
Invece ne è uscito solo uno? Allora nessun dubbio!
Riguardo alle domande poste a Magnani ricordo che quando pubblicò il video nella pagina di Biglino la conferenza aveva già qualche mese e quindi approfittai per chiedergli se ci fossero novità e gli posi anche qualche domanda più specifica (ma di poco conto) che adesso onestamente non ricordo, sono passati un paio di anni abbondanti. Mi rispose odiosamente "E' tutto sul sito, vai lì".
Non era un frequentatore assiduo della pagina fb (ora non so) ma ogni tanto si faceva vivo.
:wave:
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Da un reportge di Pino Tosca,giornalista e scrittore:
Winston CHURCHILL,
EROE O CRIMINALE ?
Lo scorso agosto ero a Londra ed un giorno alcuni amici italiani mi hanno portato in una campagna ad una cinquantina di chilometri dalla capitale, a Liss Forest, dove vive, in compagnia di uno erculeo skinh e di un cagnaccio nero, una donna straordinaria di 84 anni che guida l'auto a 180 all'ora, veste una mezza divisa kaki e fa il saluto romano. Si chiama Rosine de Bounevialle e da 36 anni stampa a sue spese Candour, rivista dei cattolici "duri e puri" inglesi. In Italia di lei non si sa nulla, ma in Gran Bretagna tutti la ricordano perchè il 4 maggio del 1957 assaltò, da sola, il tavolo ove era seduto Winston Churchill, urlandogli di essere un assassino e un traditore. Fu il primo oltraggio storico allo statista, la cui statua domina Westminster.
E' vero che quando morì, nel gennaio 1965, in trecentomila scesero in strada a Londra e 350 milioni di telespettatori seguirono in mondovisione le illustre esequie. Poca cosa, però, rispetto ai due miliardi e mezzo di teledipendenti incollati sul video per i funerali di Lady Diana. Fu comunque troppa grazia, troppo onore, per uno dei criminali della storia, quale fu il preteso Leone di Chartwell. Intendiamoci: non è solo il giudizio di un vecchio reazionario come il sottoscritto, ma il parere di numerosi storici del Regno Unito, quali William Manchester, David Irving e John Charmley.
Nel 1954, nell'antica Misses Thomson School britannica di Hove, veniva inaugurata con adeguata cerimonia una piccola lapide dedicata "al ragazzo più arrogante del mondo" che era stato, a suo tempo, ospite dell'Istituto. Quel ragazzo era proprio lui, Winston Churchill, che così, sin dalla più tenera età, aveva presentato al mondo il suo primo biglietto da visita.
La sua arroganza non si fermava nemmeno dinnanzi al gentil sesso. Bellicista e razzista, era pure infarcito di veteromaschilismo, al punto da odiare a morte Lady Astor, poichè era il primo deputato donna nel Parlamento britannico. Un giorno le disse "Se fossi vostro marito mi suiciderei". La Astor si limitò a rispondergli che era solo un ubriacone.
La sua fama di violento guerrafondaio ebbe modo di dimostrarla platealmente già nel 1898, quando in Sudan comandò uno squadrone del 21.mo Lancieri di Sua Maestà contro i dervisci del Mahdi. Nelle sue memorie giovanili scrive, esaltandosi: "non si potrà vedere più nulla di simile". Commenta, a proposito di quella impresa imperialista, Gaetano Nanetti sul cattolico Avvenire: "E' un Churchill affascinato dalla guerra, più propenso a fare a fucilate che ad esercitare il suo mestiere di giornalista inviato dai giornali inglesi sul teatro delle guerre imperialistiche dell'Inghilterra". Un profilo, questo, evidenziato nello sceneggiato trasmesso a suo tempo da Retedue. Del resto, a proposito di quella guerra di conquista, è lo stesso futuro statista a definirla un fatto "teatrale", con la "vivacità e l'imponenza che dà fascino alla guerra". Questo "fascino" interessava al tenente Churchill, mica i diecimila morti della battaglia. Forse perchè quei morti erano in massima parte dervisci, cioè arabi, nemici, e per di più "selvaggi".
Anche quella, che aveva visto undici anni prima Gordon, quale eroe tradito di una tragedia che avrebbe in seguito fornito lo spunto ad una serie di romanzi e di films fumettistici, fu una guerra imperialista, di cui Churchill andava orgoglioso. L'Egitto, che a quell'epoca dominava il Sudan con un regime brutale, fatto di corruzione e di crudeltà, minacciato dai volontari indipendentisti del Mahdi, si rivolse all'Inghilterra, la quale intervenne per tutelare i propri interessi economici nella regione. Secondo la mentalità positivistica dell'epoca, i "bianchi" incarnavano l'uomo della civiltà alle prese con orde di selvaggi fanatici e crudeli. Nessuno era sfiorato dal sospetto che quei 'selvaggi' fossero scesi in lotta per la libertà del proprio Paese.
Qualche anno dopo, l'ufficiale Winston si distingueva in un'altra guerra imperialista, combattuta con una ferocia illimitata dai suoi soldati: quella contro i Boeri, i valorosi contadini olandesi del Transvaal. I britannici di Sir Winston li facevano volare a pezzi dopo averli legati alle bocche di cannone.
Eppure Churchill, l'imperialista, si fece passare come lo strenuo difensore della libertà della schiavista Etiopia contro la colonizzazione italiana del '36, faceva finta di dimenticare che la Gran Bretagna era il maggior Stato razzista e colonialista del mondo. Lui stesso era un razzista di prim'ordine. Manchester, nella monumentale biografia sullo statista inglese, ha dimostrato come "l'Etiopia secondo il punto di vista di Churchill, non rappresentava un problema morale. Come per tanti della sua generazione, i neri costituivano per lui una razza inferiore... Non riuscì mai a liberarsi di questo pregiudizio". A Cuba, appena uscito da Sandhurst, egli aveva scritto che bisognava diffidare "dell'elemento negro tra gli insorti". Persino in Parlamento gli sfuggì di dire che "nessuno può sostenere la pretesa che l'Abissinia sia un membri adeguato, degno e paritario di una società di nazioni civili". E quando, anni dopo, gli chiesero cosa ne pensasse del film Carmen Jones, rispose che era uscito dal cinema perchè non sopportava "le negraggini".
La sua malattia era, in realtà, la stessa di un Eden e di un Eisenhower: l'odio mortale antitedesco, anch'esso velato di uno strisciante razzismo. Le sanzioni, parziali e ambigue, contro l'Italia furono tali perchè, sino alla fine, Churchill volle, attraverso una sua politica personale di esasperato cinismo, spaccare l'alleanza italo-tedesca per isolare e schiacciare la Germania.
John Charmley, docente all'Università di East Agle, ha messo a soqquadro il mondo accademico britannico con un libro dal titolo Churchill, the End of Glory. L'opera definisce testualmente Churchill come un "guerrafondaio", per aver voluto e provocato la guerra contro Hitler a tutti i costi. Per colpa dell' "ossessione antinazista" di Churchill -sostiene Charmley- l'Inghilterra avrebbe perso tutto il suo impero, per ridursi a vassallo degli U.S.A. Ciò provocò la stessa vittoria dei laburisti nel 1945. Il nazismo era un totalitarismo come tanti altri e non c'era poi il bisogno di accanirsi contro di esso, visto che il comunismo lo si è tollerato per settant'anni e senza tante storie. Hitler aveva soprattutto delle mire ad Est e aveva in tutti i modi cercato di evitare il conflitto con l'Inghilterra (che considerava "sorella" ariana) e si sarebbe volentieri disimpegnato in Europa per rivolgersi contro il bolscevismo. Ne fanno fede i discorsi a Norimberga nel 1942 e ne fa fede la missione segreta di Rudolf Hess, che avrebbe potuto chiudere il conflitto con i consanguinei "ariani" inglesi. Fu Churchill che dette ordine di arrestare Hess, rifiutandosi di incontrarlo e ascoltarlo. Non solo, ma dette ordine che il dossier sulla faccenda sparisse per sempre, com'è avvenuto. Hess, come si sa, è poi stato suicidato nel carcere di Spandau.
La tesi di Charmley ha trovato consenzienti uomini Alan Clark, ex-ministro conservatore, che l'ha appoggiata autorevolmente sul Times. John Charmley, inoltre, riabilita completamente Neville Chamberlain, il primo ministro inglese "pacifista", odiatissimo da Churchill ed Eden. Chamberlain viene invece descritto dallo storico come "un formidabile premier" che cercava di preservare la sua nazione dal macello della guerra, voluta a tutti i costi dai "duri" alla Winston Chuchill. La preoccupazione di Chamberlain, condivisa da Lord Halifax, Rab Butler e Sir Neville Henderson, era quella di contrastare la potenza del comunismo sovietico. Per Charmley il governo di Chamberlain fece dunque bene ad organizzare con Hitler gli accordi di Monaco, aggiungendo che anche per Danzica c'era la possibilità di trovare un'intesa coi tedeschi, in modo da mettere i sovietici completamente fuori gioco. Furono i bellicisti con Churchill, Eden (che odiava, ricambiato, lo stesso Mussolini) e Harwey, a volere il conflitto a tutti i costi. Al proposito, Peregrine Worsthorme, uno dei più famosi columnist londinesi, ha scritto: "Se la Germania avesse vinto contro l'URSS e noi fossimo rimasti fuori dalla guerra domineremmo ancora il mondo".*vedi fondo pagina.
Ma il duo Churchill-Eden era talmente forte e stretto da risultare imbattibile, tant'è che Churchill dette in moglie ad Eden, nel 1952, sua figlia Clarissa.
A guerra mondiale in atto, Churchill ebbe modo di dimostrare al mondo la sua natura cinicamente sanguinaria. Quando gli Alleati entrarono a Dachau, il 29 aprile 1945, trovarono di guardia ai prigionieri 560 soldati tedeschi giunti lì, dal fronte, solo quattro giorni prima. L'ordine, impartito dai capi anglo-americani, fu immediato: "Fucilateli tutti". E così fu fatto. Della strage, documentata da Irving, c'è anche un filmato. A quell'ordine Churchill acconsentì. Del resto, non aveva già autorizzato le ecatombi aeree sui civili di Amburgo, Dresda e Pforzheim? Non aveva fatto bombardare, nel porto di Lubecca, i feriti civili sulla nave-ospedale Cap Arcona, che aveva la Croce rossa dipinta sul ponte, massacrando 7.300 uomini inermi? Non aveva strizzato l'occhio ad Eisenhower, quando questi aveva programmato lo sterminio per fame di un milione di tedeschi nei lager anglo-americani?
Ma ci sono altri particolari su questo pachidermico gentleman. Già il 9 ottobre del 1944, ben sette mesi prima della resa tedesca, Winston si incontrava con Stalin, per decidere che fare di Hitler, Mussolini e dei loro gerarchi. Lì si verificò la prima lite tra l'inglese e il russo. Perchè, strano a dirsi, Stalin pretendeva che si dovesse salvare la faccia processando i capi italo-tedeschi, mentre Churchill aveva un progetto semplicissimo: ammazzare subito tutti coloro che venivano catturati, senza processo e condanne formali. Arrabbiato del diniego sovietico, Winston scrisse a Roosevelt una lettera di suo pugno, protestando perchè "lo zio Giuseppe ha assunto una posizione ultragarantista" che vieta l'immediata uccisione dei nemici.
Questa posizione stragista di Winston, del resto, era di vecchia data. Già alla fine del '42 aveva programmato i "linciaggi" scientifici di tutti i capi militari tedeschi catturati o arresi, che sarebbero stati trasportati nottetempo nei luoghi di occupazione e "affidati" alla "popolazione" per lo sbranamento collettivo. Di tutto ciò, sono conservati i verbali a Washington, alla Biblioteca del Congresso. Nel 1943, invece, preparò una lista di un centinaio di "criminali" italo-nippo-tedeschi da dichiarare "fuorilegge mondiali" e, come tali, passibili di morte immediata per mano di un qualsiasi ufficiale alleato.
Irving documenta come Eden e Churchill, il 16 ottobre del 1944, promisero a Stalin il rimpatrio forzato di undicimila prigionieri di guerra russi e cosacchi, tutti anticomunisti, con le loro famiglie, per essere poi eliminati dai sovietici appena arrivati in territorio russo. Il giorno dopo Winston si incontrò con Stalin e, all'improvviso, gli disse: "A proposito di cibo, la Gran Bretagna è riuscita a organizzare l'invio di 45.000 tonnellate di manzo in scatola all'Unione Sovietica". Poi, ridacchiando, strizzò l'occhietto: "Vi manderemo pure 11.000 ex-prigionieri di guerra per mangiarlo, quel manzo".
Qualche giorno prima, aveva detto a zio Giuseppe: "Bisogna uccidere quanti più tedeschi è possibile", proponendo il trasferimento coatto delle popolazioni della Prussia orientale e della Slesia: "tanto il posto c'è: la guerra ha già fatto fuori sette milioni di tedeschi". Si sfregò le mani, masticando tra i denti giallastri il celebre sigarone, e rise sommessamente.
Pino Tosca
*Meno male che era churchill quello imperialista e guerrafondaio!
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Grazie Starburst, tutti post interessanti.
(e chi se ne importa se non è storia antica! :wink: )
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Che quadretto! La demolizione di Winston.
Grazie Starburst, tutti post interessanti.
(e chi se ne importa se non è storia antica! :wink: )
Grazie, e' vero non e' storia antica ma e' moooolto nascosta.
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Su Mussolini ed il fascismo
L'Italia [...] è retta da un governo che, sotto la sicura guida del signor Mussolini, non arretra di fronte alle logiche conseguenze della realtà economica e ha il coraggio di imporsi i correttivi finanziari indispensabili per stabilizzare la ripresa del paese.[18]
[A Mussolini] Se fossi stato un italiano, sono sicuro che avrei dato la mia entusiastica adesione alla Vostra vittoriosa lotta contro gli appetiti e le passione bestiali del leninismo... L'Italia ci ha offerto l'antidoto necessario al veleno russo. D'ora in poi nessuna grande nazione sarà priva dei mezzi decisivi per proteggersi contro la crescita del cancro bolscevico. (1927: citato in George Orwell, Chi sono i criminali di guerra?, in Tra sdegno e passione, p. 369)
Se io fossi italiano sarei stato con voi [Mussolini] fin dal principio [...] il vostro movimento ha reso un servigio al mondo intero. (nel 1927, ai giornalisti nel corso di una sua visita a Roma[19])
Il signor Mussolini è il più grande legislatore fra i viventi. (1933[20])
Continua la saga dei "nostri" politici se non creati dalle potenze straniere, cooptati e finanziati per formare governi "amici".
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Gettare un esercito di un quarto di milione di uomini, comprendente il fior fiore della popolazione maschile italiana, su uno sterile lido distante duemila miglia dalla patria, contro l'opinione del mondo intero e senza controllo dei mari e quindi, in questa situazione, imbarcarsi in quella che può essere una serie di campagne contro un popolo ed in regioni che nessun conquistatore in quattromila anni ha ritenuto che valesse la pena di sottomettere, è un rendersi ostaggio del destino, che non ha un parallelo in tutta la storia. (da un discorso tenuto al City Carlton Club di Londra nel settembre del 1935 a proposito dei preparativi di Benito Mussolini per invadere l'Abissinia[21])
Che sia un grand'uomo. [Mussolini] io non lo nego... ma è anche un criminale.[22]
W.C.
Dal Corriere della Sera
Wiston Churchill avrebbe ordinato l'assassinio di Benito Mussolini come parte di un complotto per distruggere un compromettente carteggio fra di due leader protagonisti della Seconda Guerra Mondiale. Lo riporta il quotidiano britannico Telegraph, basandosi sull'ultimo libro-inchiesta di Pierre Milza, specialista dell'Italia contemporanea e del fascismo, scrittore e storico francese, che torna sul mistero delle ultime ore del Duce e Claretta Petacci con Gli ultimi giorni di Mussolini.
La morte del Duce avvenne in circostanze non ancora del tutto accertate. Non c'è chiarezza infatti sulle modalità dell'esecuzione di Mussolini e della sua amante intorno al 28 aprile 1945, nei pressi di Giulino di Mezzegra, a circa 20 km a sud di Dongo: il fatto continua ad alimentare polemiche e congetture. Storici e giuristi ancora dibattono, oltre che sulla qualificabilità dell'atto come esecuzione di una condanna a morte comminata dal Clnai o come semplice atto d'impulso, sugli eventuali moventi specifici e sui mandanti.
«Non vi è dubbio, a giudicare dalle sue dichiarazioni pubbliche fatte tre gli anni '20-'30, che Churchill fosse un fan di Mussolini. E anche Roosevelt», scrive Milza, teorizzando che il primo ministro in tempo di guerra può aver voluto uccidere Mussolini per giungere in possesso di particolari lettere, in cui esprimeva la sua ammirazione per l'omologo italiano prima dello scoppio della seconda guerra mondiale.
L'esistenza del carteggio è stata per lungo tempo negata, sia da parte italiana che da parte inglese. In un primo tempo anche lo storico Renzo De Felice si mostrò scettico, salvo poi effettuare una ricerca specifica che lo avrebbe indotto a parlare di "congiura del silenzio" e ad ipotizzare che non solo l'esistenza del carteggio fosse nota da prima della guerra, e che le lettere sarebbero state intenzionalmente cercate, trovate e distrutte, ma che con esse si sarebbe distrutto altro materiale detenuto da Mussolini, ad esempio sul delitto Matteotti, e su altre vicende riguardanti la sinistra italiana.
«Churchill una volta ha anche detto "Il fascismo ha reso un servizio a tutto il mondo... Se fossi italiano, sono sicuro che sarei stato con lui - continua Milza - Ma questo era comprensibile nel 1927, come allora essere un fascista non significava essere un amico di Hitler o un complice di genocidio. Ma quando si è capo di stato e si è considerati eroe di guerra dal popolo britannico, non si desidera che tutto venga alla luce».
Ufficialmente, Mussolini e la sua amante Clara Petacci, sono stati sequestrati dai partigiani comunisti vicino a Dongo sul lago di Como mentre cercavano di fuggire in Svizzera. Nonostante il travestimento da ufficiale tedesco il Duce fu riconosciuto e fucilato insieme alla Petacci. I loro corpi furono portati a Milano ed esposti in piazzale Loreto. Nel suo libro Milza ricorda che Churchill, ormai privato cittadino, avrebbe effettuato nell'immediato dopoguerra gite sotto falso nome a poche miglia dal luogo in cui Mussolini era stato sequestrato. «Forse era andato lì solo per dipingere. E' credibile, tuttavia, che ci fossero altri motivi: è noto infatti che un certo numero di tronchi furono gettati nel lago con i documenti e bottino di guerra», aggiunge Milza.
Un'inchiesta di alcuni giornalisti, fra cui Peter Tomkins, ex agente segreto americano a Milano durante la guerra, formulò l'ipotesi che Mussolini fosse stato ucciso da agenti segreti inglesi interessati a impossessarsi del famoso carteggio. L'inchiesta riporta la testimonianza di Bruno Giovanni Lonati, a quel tempo partigiano comunista nelle Brigate Garibaldi a Milano, che dice di essere stato, insieme ad un agente italo-inglese di nome John, l'esecutore materiale dell'uccisione di Mussolini e di Claretta Petacci. Lonati, tra i pochi presunti attori di questa vicenda ancora in vita, sostiene anche l'esistenza di una foto che proverebbe la sua versione dei fatti, ora segretata insieme al rapporto sulla missione e custodita a Milano all'ambasciata inglese che, nonostante siano ormai trascorsi i 50 anni previsti dal segreto militare, si rifiuterebbe di rendere pubblica.
La fine di benito mussolini non e' solo nell'ottica di uno sconfitto dalla storia e dagli eventi, la sua morte e' la conseguenza dell'aver "disobbedito" alle direttive dei suoi referenti e finanziatori della prima ora, come vedremo in avanti, altri politici e ministri dei governi italiani del secondo dopoguerra hanno pagato lo scotto di una appena ventilata sovranita' nazionale.
La storia dell'esecuzione di mussolini porto' con se ,fatti che solo da pochi anni sono venuti alla luce, parleremo anche dell'accordo segreto tra l'Intelligence Service, servizi segreti inglesi e il comitato centrale del pci,altro che "l'italia fuori dalla nato". Dedicato a quelli che ancora credono che i nostri politici siano "duri e puri".
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Un episodio mai chiarito e nascosto, il famoso oro di dongo, l'oro e beni preziosi che mussolini e i suoi gerarchi portarono con se',sequestrato dalla brigata garibaldi che effettuo' anche l'arresto di mussolini e la fucilazione dei suoi gerarchi.
L'oro spari' come il famoso carteggio tra churchill e mussolini stesso, l'Intelligence Service inglese e la direzione del p.c.i. milanese ancora una volta fecero un patto "segreto", come capita nei corsi e ricorsi storici di questo paese a sovranita' limitata e teleguidata.
Un patto che alcuni partigiani "quelli veri" si rifiutarono di accettare e per questo pagarono con la vita.
Emblematica la morte del capitano "neri" e della sua compagna "gianna".
Iniziamo dalla vicenda dell'oro
La morte e conseguente sparizione del capitano neri e della sua compagna
INTERVISTA DI PAOLA CIONI:
A differenza di quanto avviene nei paesi anglosassoni, in Italia il mondo accademico guarda con grande sospetto alla divulgazione. Divulgare, però, non vuol dire semplificare, né trattare gli argomenti con superficialità, ma trasmettere, per utilizzare le parole di Gramsci, “delle verità già scoperte, socializzarle”, rendendole quindi patrimonio comune. E alcune storie, per la loro complessità e per il coinvolgimento emotivo che richiedono, possono, infatti, essere narrate solo attraverso una divulgazione di alto livello, basata cioè su una ricerca accurata delle fonti, che, attraverso le armi della prosa, riesce a penetrare la complessità di sentimenti personali e collettivi di un´epoca. E´ questo il caso di “Un amore partigiano: storia di Gianna e Neri, eroi scomodi della resistenza” (Longanesi 2014, pagine 224, euro13,94) di Mirella Serri, nel quale, sullo sfondo delle complesse vicende che accompagnarono gli ultimi mesi della Repubblica di Salò e il periodo immediatamente successivo, si narra la storia del comandante partigiano della 52 Brigata Garibaldi Luigi Canali (Neri) e della staffetta Giuseppina Tuissi (Gianna), coinvolti nella cattura di Benito Mussolini e Claretta Petacci e soprattutto testimoni scomodi della sparizione dell´oro di Dongo. La loro storia è forse una delle più drammatiche della Resistenza: i due partigiani furono, infatti, prima vittime dei fascisti, che li catturarono e torturarono, poi dei loro stessi compagni. Neri, infatti, era riuscito a fuggire, Gianna, invece, che probabilmente aveva rivelato i luoghi di nascondigli ormai abbandonati per salvarsi e, allo stesso tempo, non mettere a rischio i compagni, era stata liberata. Per i due amanti furono giorni tragici, come testimonia la particolare durezza delle torture cui furono sottoposti durante la prigionia. La loro sofferenza e la loro determinazione a resistere alle torture non fu apprezzata, ma, al contrario, ripagata con accuse di tradimento e con una condanna a morte, comminata da un tribunale partigiano. Riabilitati, prenderanno poi parte alla cattura del Duce e della Petacci. E´ a questo punto che la vicenda di questi due eroi della resistenza si macchia di sangue: Gianna e Neri verranno fisicamente eliminati e per i loro delitti nessuno pagò il conto. I sospetti che su i due amanti si erano addensati in seguito alla cattura da parte dei fascisti, ma soprattutto il fatto di essere testimoni della scomparsa dell´oro di Dongo, ne decretarono la fine. I loro corpi sparirono per sempre e i processi per determinare le responsabilità di quelle sparizioni non portarono a nulla. Quella che narra Mirella Serri è la storia di uno dei periodi più oscuri della nostra storia, nel quale i confini tra legalità e illegalità si confondono e diviene difficile tracciare una netta linea di demarcazione tra vittime e carnefici. Passati ormai quasi settant´anni da quei fatti è arrivato, però, il momento di guardare a quelle vicende con necessario distacco e indagare sulle reali responsabilità di una classe dirigente che di quel momento storico fu protagonista, ma anche sull´intreccio di “omertà, di paure e di reciproche coperture che alla fine frutteranno carriere, riconoscimenti, onori” e che a oggi non sono state ancora chiarite. Del resto nonostante l´interesse degli storici e le numerose ricerche relative alla sparizione dell´oro di Dongo e della documentazione che Mussolini portava con sé non si è ancora arrivati alla verità e difficilmente si giungerà a ricostruire i particolari dell´intera vicenda. Interessante è l´interpretazione che Mirella Serri offre della figura di Claretta Petacci. La giornalista, infatti, rifiuta l´immagine di una donna “innamorata esemplare, fuori dal potere e dai giochi” e rileva invece come Claretta fosse una sostenitrice convinta delle idee di Mussolini e della politica razziale. Non fu vittima innocente dell´amore per l´uomo sbagliato quindi, ma persecutrice “del partigiano e dell´ebreo”. Gianna e Neri saranno riabilitati da Veltroni e dal Presidente Carlo Azeglio Ciampi, ma il loro nome non risulta ancora inserito tra l´elenco degli eroi partigiani indicati sul sito dell´ANPI.
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Inizio' l'era dei partiti e degli uomini politici guidati e finanziati a distanza, se da un lato la democrazia cristiana rappresentava insieme a liberali,repubblicani,destra che poi diventera' movimento sociale italiano, il fronte atlantista, il p.c.i. e in un primo tempo il p.s.i. che poi passera' armi e bagagli a favore della nato, rappresentavano almeno nell'immaginario collettivo l'opposizione alle politiche filostatunitensi.La realta' come vedremo fu molto piu' complessa e intricata e sebbene le redini andarono nelle mani nordamericane,inghilterra e francia rimasero nell'ombra e come vedremo in seguito tramarono nell'ombra..Le elezioni politiche del 1948 seguirono al primo referendum che vide la vittoria neanche tanto netta dello schieramento repubblicano su quello monarchico,reo di essersi alleato con il fascismo e di aver trascinato il paese in una guerra catastrofica. A parte poi tratteremo la fuga ignominiosa della famigerata famiglia savoia che lascio' il paese in mano alla furia dei tedeschi passati da alleati a nemici in 24 ore.
Iniziamo dalle ingerenze degli u.s.a. nelle scelte degli italiani alle prime elezioni "libere" dopo la dittatura fascista.
Tratto dal sito instoria
L’intervento degli Usa.
Nell’attesa dei primi aiuti finanziari del Piano Marshall, previsti per l’aprile del 1948 (troppo tardi, dunque, per influire tangibilmente sull’elettorato), il governo statunitense varò – in sostituzione del programma Unrra, ormai conclusosi – due iniziative d’emergenza destinate ai partner europei più bisognosi: la prima, noto come post-Unrra e destinato a “coprire” i mesi rimanenti dell’anno, destinava all’Italia 117 milioni di dollari; la seconda, l’Interim-Aid (in vigore fino a fine marzo del 1948), attribuiva all’Italia una quota di 176 milioni.
Questi quasi 300 milioni di dollari (destinati generalmente all’acquisto di generi di prima necessità), insieme alle navi cariche di aiuti statunitensi che cominciavano ad affluire sempre più numerose nei porti italiani, costituivano un capitale politico di primaria rilevanza che l’ambasciatore James Dunn seppe utilizzare anche e soprattutto per promuovere l’immagine degli Stati Uniti nel Paese.
L’ambasciata americana, sotto la guida di Dunn, si prodigò infatti in un lavoro febbrile, in quei mesi, organizzando simboliche cerimonie celebrative – il cui significato politico andava sempre più chiarendosi - in occasione dell’arrivo di ogni centesima nave americana, intervenendo continuamente da un capo all’altro della penisola per festeggiare insieme ai futuri elettori l’avvenuta realizzazione (finanziata dagli aiuti d’oltreoceano) di infrastrutture, abitazioni, ospedali o lo sbarco festoso di medicinali, sacchi di farina e container; ed ottenne l’entusiastico sostegno del governo e del mondo politico italiano (escluse le sinistre) in genere, ansioso di sottolineare, evidenziare e lodare gli apporti d’oltreoceano con ogni mezzo a disposizione, radio e stampa (governative) comprese: “gli aiuti d’America ci aiutano ad aiutarci da noi”, campeggiava su un famoso manifesto dell’epoca.
Ma l’importanza degli aiuti statunitensi non si limitò a questo: consistette anche nell’ingabbiare sottilmente la propaganda comunista, costretta a isolarsi dal coro di unanime apprezzamento per la generosità americana, a denunciare la sostanziale subalternità del Paese alla politica statunitense e l’intento propagandistico dei discorsi pronunciati in quelle occasioni (“L’ambasciatore americano apre la campagna elettorale della Dc”, titolava ironicamente l’“Unità” all’indomani dell’approdo della 400ma nave statunitense a Reggio Calabria, il 5 marzo 1948).
Anche la società civile americana decise di partecipare a quella che si cominciava ad avvertire come una battaglia decisiva, non solo per le sorti del disastrato Paese mediterraneo: un convoglio pieno di regali (il “treno dell’amicizia” ideato dal giornalista Drew Pearson), dopo il trasporto per nave degli aiuti privati, prese a percorrere la penisola e a seminare lungo la via comizi e cerimonie, festeggiato ad ogni tappa da autorità entusiaste e folle imbandierate; gruppi di cittadini, spesso italo-americani, s’impegnarono oltreoceano a sostenere le forze anti-comuniste; e lettere o cartoline individuali, inizialmente basate su preesistenti legami di parentela e d’amicizia e prevalentemente indirizzate all’Italia meridionale, cominciarono a piovere copiose nelle caselle postali degli italiani con contenuto variabile: dagli inviti amichevoli al voto filo-americano alle accuse anti-comuniste, dai consigli elettorali alle “rimesse” dei familiari, dalle minacce concrete – stop agli aiuti o all’emigrazione – agli anatemi metafisici – “la maledizione di Dio cadrà su di te e sulla tua famiglia”.
L’intervento americano, però, s’intensificò notevolmente a partire dalle elezioni di Pescara, che polverizzarono d’un colpo il cauto ottimismo dei filo-occidentali nei mesi precedenti.
Innanzitutto, nella discussione politica fu introdotto il problema di Trieste, dove la situazione era rimasta immutata dalla fine della guerra (la zona B era ormai entrata di fatto a far parte del territorio jugoslavo, mentre la zona A rimaneva controllata dagli anglo-americani, che potevano così presidiare il tratto meridionale della “cortina di ferro”): una “dichiarazione tripartita” anglo-franco-americana del 20 marzo che proponeva di restituire alla sovranità italiana il Territorio Libero di Trieste (la zona A, in pratica) ebbe l’effetto di recuperare alla propaganda occidentale un tema di sicura risonanza emotiva e di anticipare un’analoga mossa, che si riteneva in preparazione da parte sovietica; le sinistre, prese in contropiede, dovettero di nuovo limitarsi a denunciare la “speculazione elettorale” incassando, nella sostanza, un altro pesante successo propagandistico degli avversari; contemporaneamente, cominciarono a piovere nelle caselle postali degl’italiani migliaia di lettere false, opera di un fantomatico cittadino triestino che invitava a votare contro il comunismo in sua vece.
Per minimizzare almeno in parte gli effetti dirompenti dell’aiuto economico americano, i dirigenti del Fronte ricorsero all’artificio di annunciare pubblicamente la continuazione dei rifornimenti statunitensi anche in caso di successo elettorale delle sinistre, riservandosi però il diritto di gestirli in senso favorevole alle classi lavoratrici e a patto che nessun condizionamento derivasse alle autonome scelte nazionali in politica interna ed estera.
Era una posizione già di per sé debole, come vedremo in seguito, ma l’ambasciatore Dunn si attivò comunque per disinnescarne gli effetti, che ai suoi occhi rischiavano di mettere a repentaglio il faticoso lavorìo propagandistico dei mesi precedenti: il problema fu sollevato dal giornalista americano Cyrus Sulzberger, autore di un articolo chiaramente concordato che rivelava il proponimento governativo di annunciare l’esclusione dell’Italia dal Piano Marshall in caso di ascesa al potere dei comunisti (con mezzi legali o meno); il giorno seguente toccò a Michael McDermott, funzionario del Dipartimento di Stato, confermare l’esattezza dell’indiscrezione: “I comunisti in Italia hanno sempre detto di non volere l’Erp. Se i comunisti vinceranno – cosa che non possiamo credere, conoscendo lo spirito e lo stato d’animo del popolo italiano – non si porrà più il problema di un’ulteriore assistenza economica da parte degli Stati Uniti”.
La stampa governativa cavalcò con decisione la notizia, costringendo gli avversari ad occuparsene; tuttavia, mentre l’“Avanti!” preferì tacere, l’“Unità” pubblicò una versione largamente manipolata delle dichiarazioni del funzionario, tentando di sminuire la portata delle sue parole invece di insistere sull’evidente scopo ricattatorio del discorso.
A quel punto, sotto la pressione dei dirigenti italiani interessati ad allargare la falla apertasi nella proposta di governo del Fronte, gli americani tornarono sull’argomento: il 20 marzo il segretario di Stato George Marshall, in un discorso a Berkeley, in California, dopo aver ricordato che i comunisti italiani – nel corso della campagna elettorale - “hanno pubblicamente affermato che se il loro partito risultasse vincitore, l’assistenza economica americana all’Italia continuerebbe senza cambiamenti” mentre “a tutte le nazioni europee sotto l’influenza comunista è stato impedito di partecipare all’European Recovery Program”, concluse: “Dato che l’associazione all’Erp è completamente volontaria, i cittadini di ogni Paese hanno il diritto di cambiare idea e, in effetti, di ritirarsi. Se decidono di votare per mandare al potere un governo nel quale la forza politica dominante è un partito che ha spesso, pubblicamente ed enfaticamente, proclamato la propria ostilità per questo programma, questo voto potrebbe essere giudicato solo come una prova del desiderio di tale Paese di dissociarsi dal programma stesso. Al nostro governo non rimarrebbe che prendere atto che l’Italia si è tagliata fuori dai benefici dell’European Recovery Program”.***Vedi asterischi a fondo pagina..
Con queste parole il sostegno alla Dc da parte degli Stati Uniti raggiunse lo zenit, rivelandosi un patrimonio propagandistico di primaria importanza a favore del blocco filo-occidentale.
*** Questo e' un sito di "complottisti" e voglio esserlo fino in fondo, davvero crediamo che quello fu un errore non voluto dal fronte popolare,un errore politico cosi' enorme da non essere visto da fior di politici, in primis togliatti? O fu la logica conseguenza della spartizione di campo,di coscenza,di ideali ,dell'elettorato italico?
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Diventata religione di stato con il beneplacido dell'imperatore costantino, la religione cristiana si trasformo' nella cattolica,apostolica,romana,assunse il potere riservato ai sacerdoti e ai senatori del decaduto impero romano (varie cariche mantennero lo stesso nome : pontefice massimo, curia,ecc.) e divento' ben presto potente e influente per secoli su tutta europa ed in seguito anche oltre.
Il risorgimento italiano non lo scalfi' sebbene ci vogliano far credere il contrario, semplicemente come tutti gli imperi stava perdendo potenza a livello materiale "le colonie costano", ma non perse il potere piu' infido, quello persuasivo, e' con questo potere che pio XII alle elezioni politiche del 1948 mise in campo ogni risorsa per evitare una svolta a sinistra che secondo lui avrebbe compromesso la fede degli italiani, in verita' la paura piu' grande era che da sudditi fedeli si trasformassero in cittadini con una coscienza e quindi con qualche dubbio.
DAL SITO INSTORIA:
“CON CRISTO O CONTRO CRISTO”
La Chiesa di Pio XII, all’indomani del secondo conflitto mondiale, ribadì il ruolo della direzione ecclesiastica nella riedificazione della società pur accettando l’affermazione della democrazia a fondamento dell’ordinamento internazionale: e lo fece precisando, fin dall’inizio, che la legittimità del nuovo ordinamento dovesse riposare “nel quadro complessivo di una società diretta dalla Chiesa”.
Si schierò fin dall’inizio, quindi, a favore di una democrazia che non poteva non essere cristiana, e come tale ostile al comunismo; proprio su queste basi si delineò una convergenza con le potenze occidentali, per quanto le vedute su alcune posizioni diplomatiche potessero rivelarsi divergenti, che si trasformò in allineamento al momento dell’irrigidimento dei blocchi.
Chiesa ed Occidente trovarono un trait d’union nella decisa opposizione al comunismo; e se l’Occidente stesso si trovava alle prese con una sempre più diffusa secolarizzazione e con un impietoso abbandono della pratica rituale/sacramentale, la Chiesa scelse di collegare quest’ultima all’orientamento politico dei fedeli: basti pensare all’istituzione della devozione per il Sacro Cuore, canale privilegiato per il raggiungimento di quella società ieratica (il Regno di Cristo) che il pontefice aveva vagheggiato fin dalla prima enciclica.
Fin dalle prime consultazioni elettorali (2 giugno 1946), quindi, la Dc potè beneficiare di un concreto sostegno, di un appoggio capillare e costante da parte delle gerarchie ecclesiastiche, che intendevano indirizzare i suffragi moderati verso la lista scudocrociata facendone il perno della riedificazione economica, politica ed etica del Paese: e senza questo fondamentale sforzo “il successo della Dc, fin dalle elezioni amministrative del marzo-aprile 1946, non sarebbe spiegabile”. In questo senso la politica di apertura di Togliatti – esplicitata dalla posizione assunta nei confronti dell’art. 7 della Costituzione, votato per evitare lacerazioni nella coscienza del Paese e in nome di una volontà di collaborazione che animava tutta la sua azione politica del periodo – non bastò a tacitare gli animi, né ad appianare le contrapposizioni.
L’inserimento a pieno titolo della Chiesa nelle vicende politiche italiane si realizzò compiutamente con il discorso che papa Pio XII pronunciò a Piazza San Pietro il 22 dicembre, vigilia di Natale del 1946, anticipando in effetti gli indirizzi della politica governativa (che, come abbiamo visto, giunse solo nel maggio del 1947 alla rottura dell’“alleanza antifascista”): quel giorno, davanti a migliaia di romani, Pio XII sferrò un violento attacco contro gli “empi negatori di Dio, profanatori delle cose divine, adoratori del senso” che macchiavano di ignominia e coprivano di fango “il volto sacro di Roma”; e proseguì affermando che “Dal suolo romano, il primo Pietro, circondato dalle minacce di un pervertito potere imperiale, lanciò il fiero grido di allarme: resistere forti nella fede. Su questo medesimo suolo noi ripetiamo oggi con raddoppiata energia il grido a voi la cui città natale è ora teatro di sforzi incessanti, volti ad infiammare la lotta tra due opposti schieramenti: o con Cristo o contro Cristo; o per la sua Chiesa, o contro la sua Chiesa”.
Fu il segno di un avvenuto salto di qualità, d’una presa di posizione convinta e d’un intransigente irrigidimento della politica vaticana, che di fatto riconosceva e sanciva il contemporaneo processo di bipolarizzazione in atto a livello politico, e insieme d’un invito allo scontro che si sapeva prossimo, e non s’aveva più cura d’attendere:
“La persecuzione religiosa nei Paesi dell’Est è spietata. Rapporti molto dettagliati in materia impressionano molto il Santo Padre. Vi è un rischio del genere da noi, se le elezioni le vinceranno gli altri? Senza dubbio sì. Per questo varie proposte mirano a impegnare direttamente il Vaticano nella campagna elettorale”, scrisse Andreotti, giovane sottosegretario ala presidenza del Consiglio, alla vigilia del 1948.
Le elezioni italiane del 1948 costituirono appunto il teatro in cui si esplicò il coinvolgimento diretto nell’agone politico delle 22.000 parrocchie italiane e dell’Azione cattolica, come Pio XII stesso ebbe a definirla l’organizzazione laicale per “una speciale e diretta collaborazione [sostituito a partecipazione, il termine scelto dal predecessore, per sottolineare la direzione della gerarchia] all’apostolato gerarchico della Chiesa”.
La dichiarata apoliticità dell’associazione fu posta in secondo piano dal fervente attivismo del medico genetista Luigi Gedda (allievo del famoso endocrinologo Pende), nominato presidente degli uomini dell’Aci nell’ottobre del 1946, dopo dodici anni passati alla guida del settore giovanile.
Non si trattò di un’investitura contingente, dettata dall’urgenza della situazione e dalla necessità di tamponare il pericolo comunista: gli spazi politici conquistati in quei mesi agitati continuarono ad appartenerle anche dopo le elezioni, nonostante gli sforzi di alcuni dirigenti (come C.Carretto, 1910-1988 e M.V. Rossi, 1925-1976) che tentarono di ri-orientarne gli interessi verso la sfera religiosa prima di essere costretti alle dimissioni; e l’organizzazione seguitò ad essere mobilitata quando necessario per influenzare le scelte di un governo di per sé già “cattolico”.
Comunque sia le manifestazioni dell’Aci crebbero, dopo l’elezione di Gedda, in numero e in visibilità, presero a frequentare di proposito le zone più “rosse” parallelamente alle “missioni religioso-sociali”, che si proponevano di effettuare “una profonda aratura della coscienza, nel cui solco sarebbe poi stato più facile far cadere il seme delle decisioni politiche coerenti”; tali iniziative consegnarono così al Paese un’immagine di forza e compattezza culminante nell’adunata romana del 7 settembre del 1947, nel corso della quale papa Pacelli prescrisse ai militanti di prepararsi all’“ora della prova e dell’azione”: a tutti gli effetti “una manifestazione di forza, che con l’imponenza numerica, dimostri a tutti, agli amici e agli avversari della Religione, chi siamo, quanti siamo, che cosa vogliamo”.
Parallelamente, si evidenziò la necessità di uno strumento più flessibile , nella lotta al comunismo, della struttura della Dc, che l’affiancasse e la pungolasse, proposto da Gedda già nella riunione della presidenza generale dell’Aci, il 10 gennaio del 1947: ma il progetto, alquanto confuso e oltretutto guardato con sospetto da coloro che temevano la nascita di un secondo partito cattolico, cadde nel nulla.
Fu l’intensificazione della campagna elettorale, nei mesi che accompagnavano la fine dell’anno, a resuscitare quell’idea. Se ne fecero promotori, forti del sostegno di Pio XII, monsignor Montini e il cardinale Pizzardo; furono loro a rivolgersi a Gedda, l’uomo che aveva fin’allora mostrato maggiore comprensione per le nuove esigenze della situazione politica: i Comitati Civici, la sua opera più famosa, nacquero infine l’8 febbraio del 1948 per ampliare la base elettorale delle forze anti-comuniste, e ricevettero questo nome per differenziarsi dall’Aci, oltre che per aggirare le imposizioni dei Patti Lateranensi.
“Pio XII”, ha poi testimoniato lo stesso Gedda, “Tante volte mi ha detto che ciò che i comunisti avevano fatto in Oriente (Polonia, ecc.) bastava da se stesso a qualificarli e a dimostrare cosa essi avrebbero fatto in Italia una volta al governo. Fu il papa stesso che mi invitò il 26/1/1948, il 1/2/1948 e il 14 dello stesso mese a promuovere un movimento che potesse raccogliere i cattolici militanti dell’Aci e delle altre organizzazioni perché si potessero queste forze validamente contrapporre al comunismo che, a giudizio di Togliatti, avrebbe vinto le elezioni. Il S. Padre mi diede tale incarico perché era rimasto favorevolmente impressionato dalla manifestazione degli Uomini Cattolici che si era svolta nel settembre 1947. Pio XII mi diede queste indicazioni perché l’Aci non poteva, per effetto dei Patti Lateranensi, interessarsi di politica […] Il Comitato Civico era pertanto al di fuori dell’Aci; l’incarico fu ad personam”.
La separazione tra Comitati Civici ed Aci apparve da subito relativa: da una parte, Gedda seguitò a mantenere il precedente incarico; dall’altra, fu l’Azione Cattolica a fornire i primi attivisti al nuovo istituto.
Comunque sia, i Comitati Civici si diffusero a macchia d’olio – “nelle ultime settimane della campagna elettorale il nostro esercito poteva contare su 300.000 volontari”, riferì Gedda - a livello regionale e zonale, fungendo da centri coordinatori di tutte le opere religiose della zona, effettuando censimenti dei mezzi di trasporto per portare alle urne anziani e malati, distribuendo il materiale di propaganda elaborato dal Centro Direzionale, spingendo a votare per quei candidati maggiormente fedeli alla dottrina cristiana.
Un impegno dunque organizzativo e contemporaneamente logistico: “si trattava di convincere e, in molti casi, quasi di portare la gente a votare; poi bisognava essere sicuri che, una volta giunti davanti alle urne, anche i meno colti, anche gli analfabeti e i vecchi contadini, sapessero cosa fare, dove mettere la loro croce […] anche il linguaggio usato dai loro opuscoli, slogan come ‘coniglio chi non vota’, che ricordavano espressioni simili dei comunisti e dei qualunquisti, hanno avuto un ruolo notevole nello scuotere gli strati più assonnati della popolazione”; si puntava, evidentemente, a scuotere la psicologia e l’autostima dell’elettore, semplicizzando slogan e registro comunicativo dei manifesti e riscoprendo la tradizione dell’illustrazione cartellonistica, illustrata più che scritta: stereotipata, caricaturale ed immediata.
I nuovi arrivati – presto affiancati da Civiltà Italica, organizzazione “incaricata di formare l’opinione pubblica per mezzo di diversi mezzi di comunicazione e di fornire una stanza di compensazione per contatti e attività tra individui e gruppi che si oppongono ai partiti comunista e socialista di sinistra”, secondo le parole del suo organizzatore, mons. Ronca - turbarono seriamente il presidente generale dell’Azione Cattolica, Vittorni Veronese, oltre a molti suoi responsabili locali. Ed entrarono anche in contrasto con il servizio di propaganda della Dc, la “Spes” (Servizio propaganda e studi), generando non pochi timori in gran parte dei dirigenti democristiani, timorosi di un controllo diretto del Vaticano e della perdita dei finanziamenti fin’allora ricevuti: anche per questo, soprattutto a posteriori, gran parte dei dirigenti democristiani ne minimizzarono l’apporto.
Accanto al fondamentale lavoro dei Comitati, “la forza d’urto, il reparto d’assalto, di un esercito già esistente, ben addestrato e combattivo” si schierarono massicciamente le gerarchie, intenzionate a spostare di forza il conflitto sul terreno più congeniale della “guerra santa”, ed il clero secolare e regolare in genere: ad esempio, i vescovi della Toscana, della Liguria, del Triveneto, della Campania, dell’Emilia, della Regione Flaminia, della Sicilia, collettivamente o individualmente; ed esemplari, in questo senso, si rivelarono le accorate richieste di differire il ritiro delle truppe americane, le “preghiere dell’elettore” che si andavano diffondendo, le prediche di padre Lombardi, noto come “il microfono di Dio”, oppure le lettere circolari emanate da alcuni vescovi di grandi diocesi, tra cui Giuseppe Siri a Genova e dal cardinale (e futuro beato) Ildefonso Schuster, arcivescovo di Milano, che il 22 febbraio 1948 scrisse ai sacerdoti della sua diocesi:
“Non si possono assolvere gli aderenti al Comunismo o ad altri movimenti contrari alla professione Cattolica: 1) quando aderiscono formalmente agli errori contenuti nelle loro dottrine; 2) quando prestino cooperazione anche solo materiale specie mediante il voto ed ammoniti rifiutino di desistere. Si deve inoltre omettere la benedizione liturgica alle case dei promotori e dei propagandisti dei suddetti movimenti. La Chiesa ammette qualsiasi legittima forma di governo, purché diretta al bene comune, ed organizzata giuridicamente, in armonia con le leggi divine e con i diritti sociali, specialmente dell’individuo e della famiglia: a) è grave dovere di coscienza di ogni Cristiano, l’esercizio del voto così politico che amministrativo, il quale deve essere tuttavia libero e secondo retta coscienza; b) è gravemente illecito ad ogni fedele dare il proprio voto a candidati, o ad una lista di candidati che siano manifestamente contrari alla Chiesa, ovvero all’applicazione dei principi religiosi e morali Cristiani nella vita pubblica; c) Il voto può e deve essere dato solo a quei candidati o a quella lista di candidati che offrano maggiori garanzie di esercitare il loro mandato nello spirito e secondo le direttive della Morale Cattolica”.
Spettò quindi all’intervento pasquale del papa, il 28 marzo 1948, sollecitare il “popolo di Dio” ad una precisa scelta di campo nell’imminenza delle elezioni, riecheggiando echi già sentiti e riproposti col sostegno di manifesti e di volantini lanciati dagli aeroplani.
Dopo la benedizione urbi et orbi Pio XII – in italiano - spiegò infatti che: “La grande ora della coscienza cristiana è suonata. O questa coscienza si desta a una piena e virile consapevolezza della sua missione di aiuto e di salvezza per un’umanità pericolante nella sua compagine spirituale; e allora è la salute, è l’avveramento della formale promessa del redentore: ‘Abbiate fiducia, io ho vinto il mondo’. Ovvero (che a Dio non piaccia) questa coscienza non si sveglia che a metà, non si dà coraggiosamente a Cristo, e allora il verdetto, terribile verdetto!, di Lui non è meno formale: ‘Chi non è con me è contro di me’. Voi diletti figli e figlie, ben comprendete che cosa un tale bivio significa e contiene in sé per Roma, per l’Italia, per il mondo. Nella vostra coscienza, destatasi a tale piena consapevolezza, della sua responsabilità, non vi è posto per una cieca credulità verso coloro che dapprima abbondano in affermazioni di rispetto alla religione, ma poi, purtroppo, si svelano negatori di ciò che vi è di più sacro”.
Se è vero che la Chiesa aveva già da tempo preso posizione a favore della Dc, è altrettanto vero che mai si era schierata in modo tanto esplicito, mai aveva puntato così tanto su una singola tornata elettorale: basti dire che il pontefice, il giorno del voto, potè seguire l’andamento dei risultati dall’ufficio elettorale appositamente predisposto dall’Azione cattolica in Vaticano.
La pressione esercitata dalla Chiesa, ovviamente, suscitò però dure recriminazioni nel campo avverso, esasperato per quello che veniva ritenuto uno “sconfinamento” indebito e aggressivo.
Ne è testimone la polemica di Togliatti, che all’inizio di marzo scrisse sull’“Unità”: “Il Partito della Democrazia Cristiana rapidamente superato un primo momento iniziale in cui tenne a dichiararsi ‘non confessionale’, è ora chiaramente il partito del Vaticano. Esso è diretto dalle alte sfere ecclesiastiche”; oppure, restringendo l’immagine al piano locale, lo sfogo frustrato di Leonida Rapaci, candidato al Senato per il Fronte Popolare nel collegio di Palmi: “Battuto da un sordomuto”, scrisse infatti nel volume conclusivo del Ciclo dei Rupe, “è il colmo. Mentre io parlavo a immense masse di popolo trascinandole all’entusiasmo, il mio avversario (Domenico Romano, già alto funzionario del Ministero dei Lavori Pubblici in età fascista e ministro con Badoglio, ndr) teneva la bocca chiusa e faceva parlare per lui i parroci nei confessionali”.
L’on. Fausto Gillo riferì alla Camera il 9 giugno del 1948, nel corso di una dura requisitoria contro i pesanti interventi delle gerarchie nella campagna elettorale, che nei seminari si costringevano gli alunni a scrivere ad amici e parenti, per convincerli a votare Dc. Per dimostrarlo, lesse una lettera di un seminarista di Arezzo: “L’ora fatale che dovrà segnare il destino d’Italia sta per scoccare: o un’Italia libera, o un’Italia schiava; o un’Italia religiosa, o un’Italia senza Dio: a te il decidere con il tuo voto e con quello di tua moglie. Ricorda che questa volta la lotta non è politica, ma religiosa. Bada che, se vince quel partito, io non potrò nemmeno ascendere al sacerdozio. Ti avverto, di fare propaganda fra gli amici e i compagni della nostra scuola perché votino tutti per i candidati Dc”.
Nei certificati per la cresima, proseguì, oltre al nome del bambino, il suo indirizzo, il nome di padrino e madrina, si leggeva: “Dichiaro di non essere iscritto o aderente al partito comunista o socialista o ad altri partiti contro la Madre Chiesa”; e concluse il suo intervento denunciando la mancata benedizione pasquale a tutti i militanti del Fronte.
Si può ben vedere come l’attivismo del Vaticano apparisse, anche ai contemporanei (ed agli avversari), massiccio e determinante: nel piccolo scenario come nei grandi palcoscenici nazionali, all’inizio come alla fine.
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Tratto dal dal sito del fatto quotidiano
Giorno della Memoria, Risiera di San Sabba: la fabbrica della morte nel cuore di Trieste. “5mila morti. E un record di spie e delazioni”
di Elisa Murgese
L'OLOCAUSTO 71 ANNI DOPO - Al Teatro della Cooperativa di Milano arriva "I me ciamava per nome: 44.787", spettacolo teatrale di Renato Sarti che racconta l'unico lager con il forno crematorio in Italia. Il regista: "Tutti sapevano. Ci sono testimonianze che raccontano come nei giorni di scirocco non si riuscisse a respirare. E fare la spia ai fascisti fruttava bene
26 gennaio 2016
A venti metri da un’osteria. A meno di duecento dallo stadio della Triestina. Talmente vicino al centro, che alcune guardie andavano al lavoro con l’autobus, il numero 10. Eppure pochi sanno che l’unico campo di sterminio in Europa all’interno di una città era proprio in Italia, a Trieste. È la Risiera di San Sabba, il solo lager nazista in Italia con forno crematorio, camino da cui sono passate da 3mila a 5mila vittime. Una pagina della storia italiana ricordata al Teatro della Cooperativa di Milano con lo spettacolo I me ciamava per nome: 44.787, in scena dal 25 al 31 gennaio. “Un colpevole oblio ha soffocato fin dall’immediato dopoguerra le voci di quanto accadde”, racconta a ilfattoquotidiano.it l’autore e regista Renato Sarti.
Una scena spoglia; sul palco solo un tavolo, alcune sedie e uno schermo per diapositive. Nelle orecchie del pubblico, i passi dei detenuti mandati a morire, che a San Sabba erano sopratutto anziani, donne, bambini e alcuni partigiani. “Tutti sapevano – racconta il regista – Ci sono testimonianze di triestini che raccontano come nei giorni di scirocco non si riuscisse a respirare per la puzza di bruciato. Altri, ricordano dei sacchi di cenere scaricati dai camion”. In effetti il quartiere di San Sabba è una sorta di anfiteatro naturale, dove la ciminiera della Risiera si erge in maniera molto visibile. “Un’altra prova che il lager non fosse sconosciuto ai triestini è il fatto che, subito dopo la Liberazione, tutto il quartiere si è precipitato al campo per fare razzia dei mobili”. Un’operazione di silenzio, quindi, ha cercato di insabbiare l’esistenza di un campo di concentramento, dove “i detenuti non potevano affacciarsi alle finestre, mentre le guardie alzavano il volume della musica per non fare sentire ai passanti quello che accadeva tra le mura”.
Mentre la prima parte racconta della Risiera di San Sabba, la seconda metà della messa in scena – che gode dell’alto patronato del presidente della Repubblica – si concentra sulla deportazione triestina, che equivale a un terzo di quella nazionale. Da Trieste, infatti, sono partiti 1.235 ebrei. Direzione: Auschwitz. Solo 39 hanno fatto ritorno. “In nessun’altra città in Polonia, Olanda o Belgio si sono verificati così tanti casi di delazione da parte degli abitanti della città – continua Sarti – Denunciare un ebreo fruttava bene e la comunità ebraica di Trieste era numerosa e decisamente ricca”. Tra le testimonianze di ex prigionieri, raccolte da Marco Coslovich e Silva Bon dell’Associazione nazionale ex deportati, resta nella memoria quella di una triestina che ha partorito a Ravensbrück, il più grande campo femminile. Suo figlio è rimasto in vita solo qualche ora. Ma lei è riuscita a fingere per tre giorni che il neonato tra le sue braccia fosse ancora vivo. “Temeva di essere trasferita nel blocco 23 – prosegue Sarti – cioè il reparto dove erano portate le neo-mamme prima di essere cremate”. Una testimonianza che si conclude con una frase originale della deportata: “Nessuno può capire cos’era, nessuno mai capirà. Neanche se mi ricoprissero d’oro sarei ripagata per quello che mi hanno fatto”.
“Il nostro è un Paese che ha fatto della memoria un optional – continua Sarti – Ricordiamo sempre quel che è successo in Germania, lasciando nell’oblio le storie italiane”. Inoltre, secondo il regista triestino, poco ci si è spesi a raccontare le deportazioni di rom, omosessuali, etnie asiatiche e slave. “Tanto che il paradigma dello straniero slavo mediorientale sentito come inferiore è rimasto dentro di noi. Se non si fa un lavoro di bonifica serio, come è stato fatto in Germania, alla fine i problemi di razzismo ritorneranno”. Un oblio tollerato nonostante ci siano ancora testimoni di queste vicende. “Quando saranno morti tutti i testimoni oculari, toccherà a noi che li abbiamo ascoltati portare avanti questa memoria. Perché il rischio è che possa ricapitare che una nazione si senta superiore a un’altra”. Alla fine del teatro-documento, neppure un applauso. Il pubblico resta-, ancora avvolto dal buio della sala. “Percepisco un grande stupore – dice Sarti – Si pensa sempre che gli italiani siano ‘brava gente‘, ma questa storia è la viva testimonianza che le cose non sono andate in questo modo”.
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