Nella nostra società, il lavaggio collettivo della coscienza è un fenomeno tanto ricorrente quanto inevitabile: per ogni crimine che la società commette, in modo più o meno cosciente, c’è sempre un momento in cui la Storia ritorna per presentare il conto. E per quanto lo si sia riuscito a negare inizialmente, prima o poi quel crimine deve essere riconosciuto da tutti come tale, se lo si vuole davvero superare e mettere per sempre alle spalle.
Il problema sorge nel momento in cui, invece di affrontare, rivalutare, ed eventualmente espiare quella colpa con i giusti parametri, si crede di liberarsene con un semplice discorso di circostanza, un’anonima cerimonia cittadina, o al massimo la costruzione di un qualche monumento “alla memoria” delle vittime.
E purtroppo, nel mondo dell’informazione rapida e globale, questo accade sempre più spesso: è appena successo con Ratzinger, che ha creduto di liberarsi dei fantasmi della pedofilia clericale accennandovi – in modo nemmeno tanto contrito, oltretutto - nel suo recente viaggio in USA, ed è successo ieri con la Germania, che evidentemente si è illusa di cancellare la macchia di certe persecuzioni naziste con un “monumento in onore delle migliaia di omosessuali perseguitati dai nazisti fra il 1933 e il 1945”.
Naturalmente questa operazione solleva più problemi di quanti ne volesse mai risolvere. Prima di tutto, non si comprende perchè vada onorata la memoria degli omosessuali perseguitati e uccisi durante il nazismo ma non, ad esempio, quella dei Rom che fecero la stessa fine ...
Ieri in America è stato il Memorial Day. In questa giornata di americani ricordano i loro soldati caduti in guerra.
Nel prevedibile calderone di patriottismo e frasi fatte, una storia in particolare si è segnalata rispetto alle altre, per la sua paradossale quanto invisibile perversità.
La storia è quella del soldato Jason Scheuerman, un ragazzo qualunque partito per l’Iraq nel 2004. Nei primi mesi di permanenza – oltre a tutti gli orrori che possiamo solo immaginare - Jason si è ritrovato ad assistere prima alla morte di un suo commilitone, e poi al suicidio di un altro suo amico di camerata.
Dopo sette mesi Jason ha iniziato a denunciare sempre più frequenti crisi depressive, ...
So che questo articolo farà arrabbiare gli amici di Napoli, che in questo momento stanno combattendo sulle barricate, e chiedo loro perdono in anticipo. Ma è rivolto soprattutto a loro, proprio perchè sono amici.
Le barricate non servono a nulla. Anzi, casomai fanno il gioco di chi sta dalla parte opposta.
Sia chiaro, parla uno che “ha fatto il ‘68”, e non certo un “pacifista” per natura. Avevo solo 14 anni, e non capivo nulla di politica, ma due belle manganellate sono riuscito a prenderle anch’io, e l’urlo “cazzo-compagni-cordone” me lo ricordo ancora con un brivido lungo la schiena. Ma di tutti quegli anni impestati di slogan, di rabbia e di lacrimogeni, mi è rimasta impressa un’immagine su tutte le altre: il volto esterrefatto di due poliziotti, nel momento in cui si resero conto che un loro collega era morto, durante gli scontri di Milano.
La nebbia dei lacrimogeni avvolgeva tutto, e le sirene coprivano i botti, le urla e ogni altro rumore. Non c’era più davanti e dietro, destra e sinistra, sopra e sotto: avremmo potuto essere all’inferno, e sarebbe stata la stessa identica cosa. Di colpo vidi le teste di due poliziotti materializzarsi dal nulla, a pochi metri di distanza da me: si tolsero il casco e rimasero per un attimo a guardarsi, come se di colpo la battaglia per loro non esistesse più. Si dissero qualcosa di breve e conciso, poi uno di loro indicò un punto in lontananza, l’altro si girò in quella direzione, poi tornò a guardare il primo poliziotto, scuotendo la testa incredulo. Il secondo annuì lentamente, con lo sguardo fisso nel vuoto. Poi scomparvero ambedue in quella direzione, inghiottiti dalla nebbia dei lacrimogeni.
Pochi metri più avanti era morto un loro collega. Io ancora non lo sapevo, naturalmente, ma ricordo che in quel momento provai una netta sensazione di rifiuto, per tutto. Qualcosa si era rotto dentro, qualcosa che avevo letto in quello sguardo smarrito, ...
di Florizel
“Hanno sfasciato la testa a mio fratello!” “Hanno manganellato mia madre!” "Ci vogliono massacrare tutti!" “Si sono portati via papà!”
No, non sono gli incubi di un rifugiato cileno, ma sono le frasi, angosciate e incredule, che hanno accolto chi come me ieri sera è accorsa a Chiaiano, dopo che si era diffusa la notizia di un improvviso assalto ai presidianti da parte delle forze dell’ordine.
Bertolaso lo aveva detto: "Non guarderemo in faccia a nessuno". E così è stato: non ha guardato in faccia nemmeno la legge, facendo intervenire i poliziotti prima ancora che entrasse in vigore il già discutibile decreto legge che lo autorizzava a farlo.
Giungendo al presidio, molta gente che tornava indietro dopo le cariche ha raccontato di una violenza gratuita ed immotivata; andando avanti, lo scenario che si è aperto ai nostri occhi è stato quello di Genova e di Napoli del 2001: un enorme cordone di agenti in tenuta antisommossa che fronteggiava cittadini a mani alzate, ed un autobus messo di traverso, affiancato alle barricate, ad impedire l’avanzata delle forze armate verso le cave.
Le cariche di ieri sera hanno colto praticamente di sorpresa tutti i presidianti, che da settimane hanno il loro punto di incontro in un angolo della rotonda "Titanic". Come ogni sera, alle 18 di ieri era prevista un'assemblea del comitato per discutere il da farsi, mentre si aspettavano notizie del decreto firmato in serata dal presidente Napolitano.
Invece sono arrivate le botte. Cieche, violente e indiscriminate, per tutti.
Ovunque le popolazioni hanno difeso il proprio territorio dai veleni del potere, ovunque gente comune di ogni età ed estrazione sociale ha denunciato illegalità e soprusi, ...
«Chiunque si pone come arbitro in materia di conoscenza, è destinato a naufragare nella risata degli dei» - Albert Einstein
Se c’è qualcosa che accomuna tutti i lettori di luogocomune – e di siti simili al nostro - è certamente la “ricerca della verità”, intesa non come certezza di una particolare versione dei fatti, ma come capacità di ciascuno di liberare ogni volta la mente dai pregiudizi, prima di affrontare un qualunque argomento che possa restarne influenzato.
E’ il famoso discorso del confronto fra il ragionamento deduttivo e quello induttivo: il primo parte da presupposti fissi e intoccabili, che garantiscono una conclusione altrettanto solida e intoccabile (es.: “Gli americani non possono essersi fatti da soli una cosa del genere, per cui deve essere stato per forza il kerosene a far crollare le Torri Gemelle”), ma rischiano di trascinare il ragionamento nel disastro più totale, se per caso la premessa risultasse errata (pare infatti, a giudicare dalla storia, che gli americani possano eccome farsi da soli degli scherzi del genere, anzi sembra che il loro sia proprio un vizio ricorrente).
Il ragionamento induttivo non parte invece da certezze fisse, ma dall'osservazione dei dati disponibili, e cerca di trarre conclusioni solo quando crede di averne raccolto a sufficienza (es.: “Ci sono gli sbuffi laterali, gli edifici cadono molto in fretta, il calore non poteva indebolire le strutture, i testimoni parlano di esplosioni, ecc... Tutto questo mi porta a concludere che sia stata una demolizione controllata”). Il premio che lo attende è l’introduzione un concetto nuovo, che prima non esisteva (“E’ stato un autoattentato”), lo svantaggio è quello di non avere mai la certezza assoluta della conclusione a cui si è giunti.
Talmente importante è la distinzione fra ragionamento deduttivo e induttivo, che si può affermare che tutte le discussioni si possano in qualche modo far risalire a questa diversa impostazione mentale. Fateci caso, sui nostri forum come nei dibattiti televisivi, ...
Faccio finta di non essere italiano, mi siedo davanti alla TV e guardo il servizio della CNN su Napoli come se fossi un americano qualunque (oppure un giapponese, un arabo o un finlandese). Uno, insomma, che dell’Italia sappia poco o nulla, e che voglia semplicemente farsi un’idea dei problemi che affliggono quel simpatico paese a forma di stivale.
Mi accoglie lo sguardo intenso di Alessio Vinci, che si aggira fra i cassonetti vuoti del centro cittadino spiegandomi con tono grave che “la spazzatura è di colpo sparita dalle strade di Napoli, ma solo perchè oggi c’è in visita il Primo Ministro Berlusconi”.
“Basta andare in periferia – continua Vinci – per avere la giusta misura di un problema che affligge questa città da oltre 14 anni, ma che solo lo scorso inverno ha raggiunto i livelli di emergenza, quando tutte le discariche disponibili hanno raggiunto la massima capacità”.
Da buon americano che dell’Italia non sa nulla, deduco che i napoletani siano degli zozzoni incivili, che ripuliscono le proprie strade solo per fare bella figura in televisione, e che aspettano quindici anni per risolvere un problema che andava invece affrontato seriamente fin dall’inizio.
Segue una curiosa intervista a un signore “che non ha votato per Berlusconi, ma che spera che lui possa risolvere il problema”, e mi viene subito da domandarmi – sempre da buon americano ...
All’inizio delle primarie americane, qualche mese fa, i favoriti erano Rudolph Giuliani per i repubblicani e Hillary Clinton per i democratici.
Era però prevedibile che Giuliani, con il suo pesante fardello di ambiguità, sia politiche che personali, non facesse troppa strada in direzione della Casa Bianca. Ed infatti la sua candidatura è durata poco più di una settimana: giusto il tempo di rendersi conto di quanto facile fosse impallinare l’ex-sindaco di New York (è bastato l’arresto di Bernard Kerik, senza nemmeno bisogno di scomodare le bugie di Giuliani sull’undici settembre), e i repubblicani lo hanno subito abbandonato alla deriva, rifugiandosi sul più moderato ma apparentemente più difendibile John McCain.
A quel punto non ci voleva molto a immaginare che anche la candidatura di Hillary Clinton, costruita su misura per contrastare quella di Giuliani (una democratica moderata era perfetta contro un falco “spumeggiante” come lui), avrebbe perso molto del suo appeal contro il già moderato McCain, aprendo invece la strada al più “liberal” e combattivo Barak Obama.
Anche in quel caso i democratici hanno capito l’antifona, ed hanno chiaramente scelto Obama, il cui grande vantaggio, rispetto alla Clinton, è di aver votato contro il rifinanziamento della guerra in Iraq. Questo offre al senatore dell’Illinois un’arma di primaria importanza, nella battaglia elettorale del prossimo autunno, che Hillary invece non potrebbe utilizzare.
Ma c’è un’altra grossa differenza fra Barak e Hillary, che non solo depone a favore del primo, ma permette legittimamente di sperare ...
di Audisio
Un evento editoriale sta scuotendo il panorama della storiografia mondiale senza che ciò abbia avuto alcuna eco sui media di regime italiani.
In particolare, è uscito anche in Italia l’ultimo lavoro di Ilan Pappe, “La pulizia etnica della Palestina”, Fazi Edizioni. L’autore è un rinomato storico israeliano il cui rigore scientifico e l’assoluta dedizione alla verità storica lo hanno messo in rotta di collisione con l’establishment accademico del suo paese e non solo.
In questo suo ultimo libro Pappe, attraverso l’utilizzo di documenti storici di prima mano quali i diari di Ben Gurion e i verbali delle riunioni del Comitato di Consulta, il massimo organo decisionale dell’Haganà, ossia del Partito-Milizia del movimento sionista, dimostra come l’espulsione dei palestinesi dal territorio che diventerà Israele non sia stato il frutto di una reazione difensiva alle minacce arabe, bensì sia stato programmato, organizzato ed eseguito scientemente dai vertici dell’Haganà.
Addirittura, Pappe dimostra che la de-arabizzazione della Palestina fosse nel programma del sionismo già dalla sua fondazione ai tempi di Theodore Herzl, e che già nel 1936 fosse stato stilato da Ben Gurion il Primo Piano per la pulizia etnica della Palestina, il Piano A (Aleph in ebraico), cui sarebbero seguiti altri piani fino a quello poi effettivamente messo in atto, il Piano D (Dalet in ebraico).
Il libro è veramente sconvolgente per la marea di nefandezze commesse dalla dirigenza sionista che nulla hanno da invidiare agli abomini nazisti. Ad esempio, c’era un apposito archivio gestito con i soldi del Fondo Nazionale Ebraico ...
Una nota battuta che gira in America ormai da troppi anni dice “Avete mai notato che Bush smette di parlare quando Cheney beve un sorso d’acqua?”
Ebbene, per quelli che credono si tratti solo di una barzelletta, stiamo avendo in questi giorni la conferma di quanto grave e reale sia invece il problema che essa ha voluto denunciare. Lasciato solo di fronte al mondo – il suo mentore personale, Carl Rove, se n’è andato da un bel pò, Condoleezza è ormai scomparsa dalla scena mondiale, e ora che non resta più nulla da rubare anche Cheney sta facendo le valigie – il bravo Bush riesce a infilare una tale serie di mostruosità da far accapponare la pelle.
Non sono semplici stupidaggini, castronerie, o idiozie di vario tipo – a quelle ormai ci siamo abituati - ma sono mostruosità vere e proprie, che feriscono a morte la ragione e vanno ad urtare anche il più sopito strato di buon senso di cui chiunque possa disporre.
Nel suo patetico tour conclusivo in Medio Oriente, fatto coincidere in maniera fin troppo grossolana con il 60° anniversario della nascita di Israele, Bush è riuscito ad affermare quanto segue:
1 - Se i democratici conquisteranno la presidenza, l’America rischia un altro undici settembre.
2 – C’è gente che è addirittura disposta a trattare con i terroristi, e che all’epoca non avrebbe esitato a trattare nemmeno con Hitler. (La frase è riferita a Barak Obama, ...
di Uhura
Dopo aver cenato con gli amici in un locale del centro, un ragazzo di ventinove anni, di professione disegnatore industriale, viene avvicinato per strada da cinque disgraziati che a quanto pare molto sgarbatamente gli chiedono una sigaretta. Non sappiamo se si trattasse di un pretesto per attaccar briga o meno, ma di fatto Nicola – questo il nome del ragazzo - ha la sfortuna di non voler o poter esaudire la loro richiesta. Questo scatena la reazione violenta dei balordi, che lo assalgono e lo picchiano selvaggiamente, lasciandolo esanime sul selciato in una pozza di sangue. Nicola morirà senza riprendere conoscenza. Tutto questo è avvenuto sotto gli occhi di due o tre amici i quali, atterriti dallo spettacolo brutale e paralizzati dallo shock, non sono riusciti ad intervenire per difendere l’amico che veniva pestato a morte.
L’immagine non può non suscitare orrore nell’animo di chi legge e scatenare sentimenti di ira, vendetta, desiderio di punizione, frustrazione e quant’altro può ospitare l’animo umano, sempre attonito e spaurito di fronte alla violenza gratuita.
Sono molti i recenti episodi di cronaca simili a questo (basti pensare all’uccisione di Gabriele Sandri, oppure a quella di Giovanna Reggiani), ma quello di Nicola può certamente servire come spunto per una riflessione generale che ci riguarda tutti da vicino, come singoli e come appartenenti ad una collettività.
Non si tratta infatti di discutere di ordine pubblico, o di come potremmo rendere più sicure le nostre città, ma di focalizzare l’attenzione sul concetto di responsabilità personale.
Leggendo l’interpretazione di questi episodi sui vari quotidiani, ...
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