di Uhura
Dopo aver cenato con gli amici in un locale del centro, un ragazzo di ventinove anni, di professione disegnatore industriale, viene avvicinato per strada da cinque disgraziati che a quanto pare molto sgarbatamente gli chiedono una sigaretta. Non sappiamo se si trattasse di un pretesto per attaccar briga o meno, ma di fatto Nicola – questo il nome del ragazzo - ha la sfortuna di non voler o poter esaudire la loro richiesta. Questo scatena la reazione violenta dei balordi, che lo assalgono e lo picchiano selvaggiamente, lasciandolo esanime sul selciato in una pozza di sangue. Nicola morirà senza riprendere conoscenza. Tutto questo è avvenuto sotto gli occhi di due o tre amici i quali, atterriti dallo spettacolo brutale e paralizzati dallo shock, non sono riusciti ad intervenire per difendere l’amico che veniva pestato a morte.
L’immagine non può non suscitare orrore nell’animo di chi legge e scatenare sentimenti di ira, vendetta, desiderio di punizione, frustrazione e quant’altro può ospitare l’animo umano, sempre attonito e spaurito di fronte alla violenza gratuita.
Sono molti i recenti episodi di cronaca simili a questo (basti pensare all’uccisione di Gabriele Sandri, oppure a quella di Giovanna Reggiani), ma quello di Nicola può certamente servire come spunto per una riflessione generale che ci riguarda tutti da vicino, come singoli e come appartenenti ad una collettività.
Non si tratta infatti di discutere di ordine pubblico, o di come potremmo rendere più sicure le nostre città, ma di focalizzare l’attenzione sul concetto di responsabilità personale.
Leggendo l’interpretazione di questi episodi sui vari quotidiani, ... ... si ha l’impressione di una crescente tendenza a parcellizzare, frammentandola, la responsabilità di questi gesti criminali fra una miriade di soggetti diversi: si va dai cinque balordi “colpevoli in solido”, a chi ha sferrato il calcio più forte; da chi non ha impedito il consumarsi di questa barbarie (gli astanti incapaci di reagire), allo stesso Nicola che “in fondo gliela poteva dà 'sta sigaretta”; dalla mancanza di vigilanza notturna – e quindi “viva le ronde” e benvenga “il vigile di quartiere” - alle famiglie balorde dei cinque balordi che non hanno saputo allevarli; dalla scuola che non assolve più il suo compito educativo, alla mancanza di lavoro che genera frustrazione; dalla sperequazione economica e sociale, che produce “invidia delittuosa”, alle solite cattive frequentazioni; dalla pericolosità di certe frange estremiste, alla suggestionabilità propria di un’età in cui non sei ancora pienamente consapevole delle tue azioni… E si finisce naturalmente per chiamare in causa una certa “cattiva televisione”, e con essa - o tempora o mores! - il deterioramento dei costumi.
La stessa psicologia, affascinante giovane scienza che si propone di indagare i segreti recessi dell’animo umano e cerca le motivazioni, le pulsioni e i desideri che dimorano in ciascuno di noi, dovrebbe limitarsi a portare in luce questi aspetti dell’individuo, suggerendo magari le specifiche cure del caso, senza per questo spingersi a caldeggiare quelle soluzioni buoniste e indulgenti che tanto hanno contribuito al nascere di istituti improntati a grande clemenza (come la messa alla prova), che viene troppo spesso percepita non come un’occasione di resipiscenza ma come una sorta di impunità e morbida tolleranza riguardo a fatti gravissimi.
La comprensione delle motivazioni che sono alla base di un gesto non deve in ogni caso deresponsabilizzarne l’autore, che lo ha messo in atto seguendo liberamente la propria volontà.
Mentre in un modo o nell’altro, alla fine della fiera mediatica, ci si ritrova regolarmente con gli stessi colpevoli trasformati in qualche modo in “vittime della società”. E mentre questa lettura dei fatti può avere una sua validità, e contiene sicuramente una certa dose di verità, rischia spesso di svolgere una funzione catalitica, in quanto ci fornisce una spiegazione razionale dei fatti che in qualche modo allevia le nostre coscienze turbate e ci permette di dormire sonni più tranquilli.
Ma la responsabilità sostanziale per la morte di Nicola rimane, a mio parere, dei cinque balordi che lo hanno pestato a morte, sic et simpliciter.
Sappiamo che venissero tutti da famiglie benestanti, e che alcuni di loro stessero addirittura frequentando il liceo classico (non è indispensabile leggere Platone o Toqueville per arrivare a possedere un nucleo di sani principi morali, ma il solo esercizio dialettico che ti impone quel tipo di scuola dovrebbe essere sufficiente a dotare chi la frequenta di un codice etico che gli permetta di vivere tranquillamente insieme a tutti gli altri).
Sono infatti da condividere senza riserve le parole del Preside, che dichiara sconsolato: “Mi sento sconfitto, come ho detto ai ragazzi, ma non complice. Non siamo stati né indifferenti né distratti.”
Altettanto comprensibili sono le parole del padre di uno degli scellerati, che dice che preferirebbe essere il padre di Nicola piuttosto che il padre di suo figlio. Una frase del genere, da cui trapela tutto il dramma interiore, tutto lo sgomento di un uomo straziato da un dolore troppo grande da raccontare, dovrebbe farci riflettere tutti, perché, senza malizia, quest’uomo si sta chiedendo sinceramente: “Dove ho sbagliato? In cosa ho mancato?”
Certo, magari poteva preoccuparsi un po’ di più, vedendo che sulla testata del letto del figlio pendeva una enorme svastica, o che accanto al ritratto di Hitler, sul comodino, campeggiava in bella vista una copia di “Mein Kampf”; magari poteva parlare un po’ di più con quel ragazzo taciturno, di cui ignorava sicuramente certe amicizie e frequentazioni; ma se di vere responsabilità si deve parlare, sappia quest’uomo che suo figlio, e gli altri con lui , hanno scelto da soli, liberamente, il loro triste destino, e purtroppo con esso anche quello di Nicola: hanno avuto la possibilità di scegliere fra un’ampia gamma di opzioni culturali, di matrici ideologiche, di soluzioni intellettuali differenti, ed hanno scelto la loro, diventando gli unici responsabili di quella scelta e delle conseguenze che ha comportato.
In altre parole, fra scuola e famiglia costoro hanno avuto le stesse possibilità di chiunque altro di “formarsi”, di imparare a discernere, di scegliere chi essere e cosa fare della propria vita, se non addirittura di più. E’ stata la stessa società a fornire loro i mezzi per raggiungere un valido equilibrio sociale, e non si può quindi liquidare la faccenda imputando genericamente “alla società” le colpe per quanto accaduto.
E’ casomai alla “logica del branco” - intesa come gruppo ristretto dei cinque ragazzi, ma non soltanto - che bisogna guardare. E’ in quella fase impercettibile del passaggio da “uno” a “tanti”, da “io” a “noi”, in cui viene chiesto all’individuo di adeguarsi ad una volontà collettiva che magari non corrisponde in pieno alla tua personale, che si annida forse il vero nemico da sconfiggere.
Stupisce infatti che il GIP di Verona abbia formulato l’accusa di omicidio preterintenzionale, contestando ai cinque l’aggravante dei futili motivi, ma non ravvisando nella mortale aggressione motivazioni ideologiche di alcun tipo. E’ noto invece che i cinque imperversassero da tempo nel veronese, compiendo simili atti ai danni di persone considerate “diverse” per i più svariati motivi (addirittura non sembrava loro un comportamento consono all’ “identità nazionale” mangiare un kebab!). I cinque inoltre sono risultati essere già schedati dalle forze dell’ordine, come appartenenti ad una ben precisa frangia estremista. Diventa quindi difficile sostenere che non c’entri la politica, e che quindi la “logica del branco” - intesa in questo caso anche come “filosofia politica” – non abbia influito sugli esiti della vicenda.
Si potrebbe dissertare a lungo sulla necessità ancestrale dell’appartenenza a un gruppo (come esseri umani sentiamo tutti il bisogno di appartenere a qualcosa di più grande di noi), ma nel momento in cui questa appartenenza ti impone uno scarto ideologico contrario ai tuoi principi morali, scatta l’obbligo per l’individuo di anteporre i propri a quelli collettivi, e possibilmente anche di carcare di imporli a tutti gli altri.
Mentre abdicare al “ragionare da sé” non solo non paga, ma produce effetti esiziali, mortiferi, e spesso irreversibili. E’ infatti probabile che i cinque assassini, ben lontani dall’essere quei “duri irriducibili” che tanto vorrebbero apparire, stiano dolorosamente imparando la lezione sulla propria pelle, e non ci vuole molto ad immaginare che fra poco inizierà fra loro – se già non è iniziato - il classico gioco a scaricabarile, che non fa che replicare, in piccolo, il meccanismo perverso che già abbiamo visto in azione a livello collettivo.
Se invece quei cinque avessero davvero riflettuto, se avessero usato una minima parte del loro cervello, anche senza scomodare “pietà” e “sentimenti” verso la vittima, ma facendo un semplice e cinico calcolo utilitaristico, in tutta probabilità questo non sarebbe successo. Invece in cinque non hanno saputo far funzionare mezzo cervello, e la tragedia si è consumata per tutti. Nicola è morto, loro sono in galera e nessuno riesce a farsene una valida ragione.
E’ la “logica del branco” che bisogna combattere (qualunque sia il branco, non solo un branco di imbecilli ma perché no, anche un branco di giornalisti o di condomini), perché nell’anonimato e nella spersonalizzazione che il branco garantisce è facile distrarsi e rinunciare a pensare.
Io personalmente traggo per me questo insegnamento, e invito tutti a fare altrettanto: non rinunciare mai, per nessun motivo e in nessuna occasione, anche quando sembra conveniente, anche quando è rassicurante, a ragionare da sé; anche quando tutto il “gruppo” ci spinge con forza a uniformarci e a massificarci; e a non abbassare mai la guardia, perché spesso rinunciamo a pensare quasi senza accorgercene, e distrarsi è solo un attimo. Questo non significa non ascoltare più nessuno e divenire un centro autarchico di pensiero indipendente, ma è un semplice invito a vagliare attentamente le informazioni, le sollecitazioni, i suggerimenti, le notizie e i racconti, da qualunque parte provengano e qualunque grado di importanza riteniamo possano avere, facendo sì che ogni nostro atto o pensiero sia frutto sempre di una nostra libera elezione, con l’onestà intellettuale e la presenza di spirito di riconoscere la differenza tra un’eventuale adesione per convenienza, stanchezza, pigrizia, codardia, noia o solitudine, da una adesione invece meditata, frutto della meravigliosa nonché appagante fatica di pensare. Da soli.
Uhura
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