La storia nascosta

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8 Anni 7 Mesi fa - 8 Anni 6 Mesi fa #1672 da Starburst
Risposta da Starburst al topic La storia nascosta
Edmondo, veri o falsi i protocolli di sion, ne ho conservato un brano che gia' a leggerlo fa venire voglia di prendere come minimo a calci nel culo (magari con la punta dello scarpone) chi lo ha scritto. Non so se la tua proposta avra' un seguito per quello che mi riguarda va bene discuterne perche' secondo me non e' importante sapere se siano veri o falsi, l'importante e' rendersi conto che c'e' stato qualcuno che li ha scritti ma sopratutto molti che li seguono ,li accettano e li mettono in pratica.
Ecco il brano che ho conservato :

Non c'è nulla di più pericolosa dell'iniziativa personale. Se dietro di essa c'è del genio, tale iniziativa può creare più danni di quelli che possono fare i milioni di persone tra le quali abbiamo seminato il disaccordo. Noi dobbiamo indirizzare l'educazione delle comunità goyim in modo che, quando capita una questione che richiede un'iniziativa, le cadano le braccia nell'impotenza disperata. Con tutti questi mezzi stancheremo in modo tale i goyim che saranno obbligati ad offrirci il potere internazionale, e ciò ci permetterà di assorbire gradualmente tutti gli Stati del mondo e di formare un super-Governo.
Al posto dei governanti odierni, metteremo un fantasma che chiameremo l'Amministrazione del super-Governo. Le sue mani si stenderanno in tutte le direzioni, e la sua organizzazione sarà di una dimensione talmente colossale che non potrà che assoggettare tutte le nazioni del mondo.

Il nostro governo dev'essere dispotico, altrimenti non può raggiungere gli scopi che si prefigge. Appena la folla s’impossessa della libertà, la trasforma subito in anarchia, che è il grado massimo della barbarie. Noi aboliremo ogni libertà politica, di insegnamento e di coscienza. L’ordine sarà ristabilito, con un certo ricorso anche alla violenza, ma l’ordine sarà ristabilito veramente. Dimostreremo di essere i benefattori che hanno restituito la libertà e la pace al mondo torturato. Ognuno potrà godere della tranquillità della pace, dell’ordine nei rapporti sociali, ma a condizione che tutti osservino le nostre leggi. Dimostreremo che né la posizione sociale, né il potere danno ad un uomo il diritto di propugnare principi contestatori e distruttivi, quali la libertà di coscienza, la uguaglianza, ed altre cose simili.

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8 Anni 7 Mesi fa #1675 da Giano
Risposta da Giano al topic La storia nascosta
@Edmondo

Ciao Edmondo, grazie per la segnalazione, credo che sia sufficiente. Come dici tu l' argomento è interessante anche prescindendo dalla veridicità del testo ma credo che questo forum non sia il luogo adatto per intraprendere una discussione nel merito. Come forse già sai, nei nuovi forum di LC esiste una sorta di moderatore impersonato da chi ha aperto il forum, io in questo caso, e mi permetto di farti questa osservazione proprio per questo motivo.
Puoi proporre a Massimo l' apertura di un forum apposito, se lo presenti dal giusto punto di vista credo che possa essere interessante; come già detto saresti il responsabile del forum e, se permetti una osservazione, credo che la spinosità dell' argomento richieda una non comune capacità di mantenere la discussione entro limiti "accettabili". Credo capisca a che limiti mi stia riferendo. Io non credo di voler moderare una discussione di questo tipo su questo forum.
Ciao.:wave:

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8 Anni 7 Mesi fa #1676 da Edmondo
Risposta da Edmondo al topic La storia nascosta
@ Giano.
Si ti capisco bene, per quello avevo dubbi già da prima, inoltre c'è anche il rischio che si devii dal tema principale del forum/topic e non è mia intenzione. Io non sarei in grado e non ne avrei il tempo per moderare una discussione su tali e tanti argomenti (ne sono venuto a conoscenza da poco e quindi ovviamente ne so ancora poco).
Pazienza :)

@ Starbust
C'ho provato ;-)
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8 Anni 7 Mesi fa - 8 Anni 7 Mesi fa #1677 da polaris
Risposta da polaris al topic La storia nascosta
Tratto da Dossier X, a cura di Peter Kolosimo

Malgrado tutte le ricerche e gli studi, il luogo di provenienza e l'itinerario degli Etruschi resta un mistero. Tra le teorie proposte, la più fantastica è quella formulata dalla professoressa Natalia Rosi, docente all'università di Caracas, in Venezuela, la quale, nel suo libro América, Cuarta Dimensiòn, ci prospetta l'ipotesi che gli Etruschi (o, meglio, i loro antenati) siano arrivati addirittura dall'America, dopo varie peregrinazioni.
A questo affascinante itinerario la professoressa Rosi è giunta attraverso uno studio comparato di quanto si conosce dell'etrusco, dell'italiano e del binomio quechua-aymara, denominatore comune di tutte le lingue dell'America precolombiana. La prospettiva è senza dubbio audace, ma non priva di suggestione scientifica, come ci dice il raffronto tra gli innumerevoli vocaboli raccolti dalla studiosa. Ne citiamo qui alcuni.

Quechua-aymara (anta: il vento freddo del nord; cata: protezione, riparo, soccorso; charan: luogo di desolazione e di morte; aruspichu: buona o cattiva notizia; omu: indovino, mago; orco: profondo, selvaggio, crudele; Pacha: dio, essere superiore; pillu: ornamento del capo; unu: principio femminile, acqua; Vilca: il dio del sole, calore, fuoco)

Etrusco (anda: freddo vento del nord; catha:divinità; Charan:divinità infernale; haruspex: aruspice; omen: presagio; orco: inferno; pacha: divinità; pileo: copricapo; Uni: divinità femminile; Velchan [Velxan, Vulcano]: dio del fuoco)

Quechua-aymara (alari: volare senza battere le ali; amicusitha: fare amicizia; harai, harani: lavorare la terra; cantu: canto, angolo, limite; kakti: amaro, acido, di sapore cattivo; huccharatha: sorbire poco a poco; huumi: vapore che sale dalla terra; malatha: stare male; nasa: narice; pakay: impacchettare, nascondere; paya: due; pillatha: cogliere, afferrare; poque: poco; tassa: imposta)

Italiano (ala, amico, arare, canto, cattivo, cucchiaio, humus, malattia, naso, pacco, paio, pigliare, poco, tassa)

«Non è mio compito determinare come ebbe luogo la migrazione etrusca, nè quali furono le strade seguite in questi spostamenti», scrive Natalia Rosi. «I popoli andini potrebbero essere giunti in Italia per molte vie, sia marittime sia terrestri: tra esse quella del Caucaso. Un'ipotesi, questa, che deporrebbe in favore della teoria concernente l'origine asiatica degli Etruschi».

PS: Scusate il pasticcio ma non riesco a fare la tabella. In ogni caso è ovvio che le parole quechua-aymara vadano confrontate con quelle etrusche (es. anta con anda) per notare l'assonanza tra queste due lingue. Stessa cosa per le assonanze tra il quechua e l'italiano (es. alari si confronta con ala ecc...).
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8 Anni 7 Mesi fa #1679 da Pyter
Risposta da Pyter al topic La storia nascosta

Tratto da Dossier X, a cura di Peter Kolosimo

Malgrado tutte le ricerche e gli studi, il luogo di provenienza e l'itinerario degli Etruschi resta un mistero.



E quella meno fantastica e più verosimile resta quella di Fomenko, secondo il quale sarebbero popolazioni di origine slava, più precisamente russa (Et Ruski). La lingua etrusca quindi non sarebbe altro che lingua slava.

Come può l'acqua memoria serbare se dalle nuvole cade? (poeta del dugento)
Ci sposiamo sessiamo insieme sessista bene perché no (progetto anti gender 2016)

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8 Anni 6 Mesi fa #1688 da Nomit
Risposta da Nomit al topic La storia nascosta
Credo che sull'etrusco la verità stia nell'ipotesi più semplice, e cioè che l'etrusco fosse una specie di latino contratto e sincopato, come sostenuto da questo libro www.latolfa.com/tolfa2000-7/pagine/scrit...er/introduzione.html

Per esempio, uno dei motivi per cui si ritiene che l'etrusco fosse una lingua non indoeuropea ed isolata, è che si crede che i numerali fino al sei sarebbero "makh thu zal hut ci sa", non è chiaro in che ordine.

Quel libro invece individua i numerali 3, 4 e 5 con le tipiche radici indoeuropee in questo passaggio della Mummia di Zagabria: THUNKH ULEM MUTH HILAR TUNE ETERTIC CATHRE KHIM ENAKH UNKHVA

che fa corrispondere al latino: tunica olim mutato hilari tunicae ex ter dicto, quater, quinque aenea acta uncia (usura)

ovvero: "......dalla tunica d'una volta, passato ad una elegante tunica, per tre, quat­tro, cinque misure di bronzo prese in prestito all'uno per cento

Con questo metodo l'autore è arrivato a scoprire che il testo sulla "Tegola di Capua" non è "un rituale religioso, bensì un documento storico prezio­sissimo della battaglia di Capua del 424 A.C., scritto da un Capo Etrusco prima di morire sul tetto della sua casa (sopra una tegola, appunto) ove si era rifugiato per sfuggire agli invasori Sanniti"

e lo traduce frase per frase, facendo corrispondere ogni parola all'analoga latina, per esempio:

etrusco - Mulu rizile pichas-ri Sav lasies vacil lunasie fase
latino - Mòlito resecabile bigas "ruere" Samnitum laribus, "vacante" lunare facie.
italiano - Divenuto rischioso le bighe far correre tra le case dei Sanniti, facendo escludere ciò la faccia (riverbero) della luna,

etrusco - ichnac fuli-nusnes vacil Savnes itna mulu rizile
latino - igneque folliti nuribus, "vacabile" Samnitibus itanda (ito, as) mòlito resecabile
italiano - e dal fuoco accerchiati con le donne, potendosi vanificare, da parte dei Sanniti, le possibili vie d'uscita, per essere divenute rischiose

etrusco - pichas siiane vacil, letham sul secuvune marzac saca.
latino - bigas sejugendi vacante, lethum solvo (quam) secubandi murcidusque sagax
italiano - le bighe di staccare essendo escluso, la morte scelgo (piuttosto che) di poltrire in disparte da vile e da furbo.


Avevo letto sul web anche un libro settecentesco che sosteneva la stessa cosa, ma ho scordato di segnarmelo, dopo lo cerco.
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8 Anni 6 Mesi fa #1701 da Starburst
Risposta da Starburst al topic La storia nascosta
Roberto Bartali
Rilettura critica della storia delle BR e del rapimento di Aldo Moro

SECONDA PARTE:


Si deve fare menzione anche del vertice che i dirigenti delle Br avevano avuto giorni prima a Parma, una riunione durante la quale era stato deciso di estromettere Moretti dal "Comitato Esecutivo" per via dell'intransigenza dimostrata durante la trattativa per la liberazione di Sossi. Questa dato va tenuto presente allorché alcuni osservatori - e Sergio Flamigni tra tutti - ritengono che Mario Moretti non abbia volutamente rintracciato Curcio e Franceschini il giorno del loro arresto. L'ipotesi si accredita maggiormente se si considerano altre due (chiamiamole così) "stranezze": prima di tutto il fatto che se i Carabinieri avessero aspettato solamente qualche ora in più sarebbero stati in grado di annientare tutta la dirigenza delle Brigate Rosse arrestando, appunto, anche Moretti. La seconda cosa bizzarra è che nonostante durante le proprie esposizioni davanti alla "Commissione Moro" il Generale Carlo Alberto dalla Chiesa abbia parlato chiaramente di foto scattate a tutti i brigatisti durante i primi incontri con Frate Mitra (e Moretti era presente al 2° di quegli incontri), le foto segnaletiche su Moretti non comparvero mai al processo di Torino contro il "nucleo storico" delle Br, ed in più egli non sarà coinvolto in nessuna inchiesta giudiziaria prima del caso Moro. Insomma, le sue foto segnaletiche erano note alle forze di polizia almeno quanto la sua identità, però - misteriosamente - non fecero la loro apparizione ufficiale se non molto più tardi. La conclusione cui si vuole arrivare, e che appare tanto perfida per lucidità quanto logica, è che per un motivo o per un altro le forze dell'ordine lasciarono volutamente in libertà Mario Moretti, in modo che egli potesse riorganizzare le Br a modo suo, seguendo cioè una logica di spietata "militarizzazione", base di partenza necessaria per una svolta sanguinaria del gruppo. Proprio come voleva il Mossad. Per correttezza vanno menzionate altre ipotesi plausibili circa il mancato avvertimento di Curcio da parte di Moretti: la prima va obbligatoriamente in contro a quanto raccontato dallo stesso Moretti, e secondo la quale lui avrebbe profuso il massimo impegno nella ricerca dei suoi compagni di avventura, ma solo il caso avrebbe influito negativamente sulla sua caccia. L'altra ipotesi che mi viene di fare, in vero trascurata dagli altri osservatori, è che Moretti abbia di sua volontà evitato di avvertire della trappola il duo Franceschini-Curcio in virtù dell'estromissione dal Comitato Esecutivo impostagli nella riunione di Parma. E' - la mia - un'ipotesi che, volendo considerare anche l'aspetto umano della storia, collegando quindi il tutto al risentimento personale ed all'ambizione di Moretti, si pone a cavallo tra chi sostiene la completa mala fede del futuro leader del gruppo e chi invece si dice convinto delle sue buone intenzioni. In direzione opposta si va invece considerando un altro fatto. Nella riunione di Parma, infatti, erano state altre le cose interessanti al vaglio delle Br, e di ciò parla lo stesso Renato Curcio nel suo libro-intervista "A viso aperto". Raccontando la storia della sua prima cattura, Curcio dice che Mario Moretti, che doveva avvertirlo del pericolo che correva, "non ritiene necessario agire subito perché sa che io e Franceschini stiamo lavorando a un certo libricino in una casa di Parma e che da quel posto non mi sarei mosso fino a sabato notte o domenica mattina". Alla domanda di Scialoja " Di che libricino si trattava?", Curcio rispose: " Avevamo compiuto un'incursione negli uffici milanesi di Edgardo Sogno impadronendoci di centinaia di lettere e elenchi di nomi di politici, diplomatici, militari, magistrati, ufficiali di polizia e dei carabinieri [ insomma tutta la rete delle adesioni al cosiddetto "Golpe bianco" preparato dall'ex partigiano liberale con l'appoggio degli americani ]. Giudicavamo quel materiale esplosivo e lo volevamo raccogliere in un documento da rendere pubblico. Purtroppo avevamo tutto il malloppo con noi al momento dell'arresto e così anche quella documentazione preziosa finì in mano ai carabinieri. Qualche anno dopo, al processo di Torino, chiesi al presidente Barbaro di rendere noto il contenuto del fascicolo che si trovava nella mia macchina quando mi arrestarono e lui rispose imbarazzato: "Non si trova più" [...] Qualcuno deve averlo trafugato dagli archivi giudiziari ". Sarebbe interessante invece sapere qualcosa di più su quella sparizione. Anche in questo caso, l'intervento provvidenziale dell'infiltrato Girotto, oltre ad arrestare Franceschini e Curcio, servì a recuperare delle carte "imbarazzanti", dello stesso tipo dei memoriali e dei resoconti dell'interrogatorio di Moro nella Prigione del popolo... A questo punto un'altra supposizione nasce spontanea: l'arresto di Pinerolo da parte dei Carabinieri scattò in quanto essi sapevano della enorme pericolosità delle carte cadute in mano delle Br e dunque dovevano recuperarle in ogni modo? In questa ipotesi altri due scenari si aprono innanzi a noi: col primo si considera che fu dunque merito di quell'arresto "urgentemente anticipato" se Moretti ed il resto delle Br si salvarono dalla cattura. Il secondo considera poi la sicurezza con la quale i Carabinieri, arrestando Curcio e Franceschini, agirono al fine di trovare - assieme a loro - i fogli in questione. In questo caso chi altro della Direzione Strategica - se non Moretti - era a conoscenza del fatto che quelle carte erano proprio in viaggio per Pinerolo (e dunque può aver fatto una "soffiata")? Quella di Moretti è dunque una figura centrale nell'analisi del fenomeno Br, in primis perché ha vissuto quasi l'intera avventura del gruppo [girando - tra le altre cose - impunemente per lo stivale durante il rapimento Moro nonostante fosse il nemico pubblico n°1], poi perché a lui è legata la gestione del rapimento di Aldo Moro, apoteosi di quelle "coincidenze" particolari di cui adesso parleremo. E' da sottolineare come nel 1970 Nel 1970 un gruppo fuoriuscito dal CPM e composto, oltre che da Moretti, da Corrado Simioni, Prospero Gallinari, Duccio Berio e Vanni Mulinaris, andò a creare una struttura "chiusa e sicura", superclandestina che potesse entrare in azione, come racconta Curcio, "...quando noi, approssimativi e disorganizzati, secondo le loro previsioni saremmo stati tutti catturati". Dopo poco tempo il gruppo (fatti salvi Moretti e Gallinari) si trasferì a Parigi dove, sotto la copertura della scuola lingue Hyperion, agiva - secondo alcuni - come una vera centrale internazionale del terrorismo di sinistra. I contatti tra Moretti e il Superclan continuarono nel corso degli anni 12, ed è singolare sia il fatto che a gestire il rapimento Moro fu proprio il duo Moretti-Gallinari, lo stesso che rappresentò nel corso degli anni l'ala più militarista e sanguinaria delle Br, sia che la stessa scuola aprì un ufficio di rappresentanza a Roma in via Nicotera 26 [nello stesso edificio dove avevano sede alcune società di copertura del SISMI] poco prima del rapimento del leader DC per poi chiuderla immediatamente dopo, nell'estate del '78. Sulla "questione Moretti" Franceschini parla chiaro: " Non ho sempre pensato che Moretti fosse una spia ", " La prima persona che mi ha detto questo è stato Renato [Cucio, ndr.]. Era nel 1976 alle Carceri Nuove di Torino e Curcio era stato da poco arrestato per la seconda volta: Il dubbio era nato proprio dalla dinamica del suo arresto. Dai sospetti di Curcio ebbe origine un'inchiesta interna fatta da Lauro Azzolini e Franco Bonisoli, i quali aprirono un'istruttoria che però non portò ad alcun risultato", ma un'altra inchiesta era già stata aperta "da Giorgio Semeria ", che già dall'esterno aveva avuto il sospetto "che Mario fosse una spia per una serie di cose avvenute a Milano". Franceschini racconta anche, che dopo il suo arresto (nel 1974) fu interrogato dal giudice Giancarlo Caselli che gli mostrò le foto degli incontri con frate Mitra "Le foto in cui c'ero io - dice Franceschini - e una foto con Moretti indicato con un cerchietto. Mi chiese se lo conoscevo e risposi di no. Lui si mise a ridere e mi disse: "Se non lo conosce, almeno si ponga il problema del perché l'operazione è stata fatta quando c'era lei e non quando c'era quella persona" ". Riporto questa testimonianza perché trovo doveroso completare il quadro, ad ogni modo non è difficile ipotizzare che usando quelle parole il giudice Caselli avesse avuto in mente, in qual momento, altre mire; resta comunque il fatto che alcune di quelle foto non sono più state trovate. Da citare infine una frase pronunciata dal Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa di fronte alla Commissione Moro: "...le Brigate rosse sono una cosa, le Brigate rosse più Moretti un'altra ". Prima di passare oltre mi è sembrato quantomeno doveroso citare l'ex capo dell'ufficio "D" del SID Generale Maletti, ed in particolare una sua intervista rilasciata al settimanale Tempo nel giugno 1976 in merito alle Br: "Nell'estate del 1975 [...] avemmo sentore di un tentativo di riorganizzazione e di rilancio [...] sotto forma di un gruppo ancora più segreto e clandestino, e costituito da persone insospettabili, anche per censo e cultura e con programmi più cruenti [...] questa nuova organizzazione partiva col proposito esplicito di sparare, anche se non ancora di uccidere [...] arruolavano terroristi da tutte le parti, e i mandanti restavano nell'ombra, ma non direi che si potessero definire "di sinistra" ". Il culmine delle "stranezze" inerenti le Brigate rosse lo ritroviamo però nel rapimento dell'On. Moro. I 55 drammatici giorni del sequestro dello statista DC furono segnati fin dall'inizio da una serie incredibile di "coincidenze". Iniziamo col dire che quella mattina del 16 Marzo 1978, giunta in via Fani l'auto di Aldo Moro (una normalissima "auto blu", incredibilmente non blindata se consideriamo il periodo e l'importanza del personaggio) e quella della scorta vengono bloccate da un commando delle Brigate Rosse che apre il fuoco. In pochi istanti fu la strage: vengono uccisi gli agenti Iozzino, Ricci e Rivera, Francesco Zizzi, gravemente ferito, morirà poco dopo, il maresciallo Leonardi viene freddato mentre girato su di un fianco cerca di far da scudo all'onorevole. Aldo Moro venne prelevato a forza e trascinato in una FIAT 128 blu scuro targata "Corpo Diplomatico" che in breve si dileguò. Il trasbordo del presidente DC - secondo la testimonianza diretta di un'involontaria spettatrice dell'accaduto - avvenne piuttosto lentamente, una calma quasi surreale visto ciò che era appena accaduto. Intanto al numero 109 di Via Fani, un altro fortuito spettatore - Gherardo Nucci - scatta dal balcone di casa una dozzina di foto della scena della strage a pochi secondi dalla fuga del commando; dopo i primi scatti il Nucci sente il rumore delle sirene e vede arrivare sul posto un auto della polizia seguita poi da altre. Di quelle foto, consegnate quasi subito alla magistratura inquirente dalla moglie, non si saprà più nulla; qualche "manina" le ha fatte sparire. A tale proposito è da sottolineare come quelle foto, che evidentemente avevano immortalato qualcosa (o meglio qualcuno) di importante, furono al centro di strani interessamenti da parte di un certo tipo di malavita, la 'drangheta calabrese, di cui avremo modo di parlare in seguito e che ad una prima analisi sembrerebbe un'intrusione completamente fuori luogo trattandosi di terrorismo di sinistra, dunque politico. Ecco, ad esempio, uno stralcio delle intercettazioni telefoniche effettuate sull'apparecchio di Sereno Freato, "uomo ombra" di Moro, nel caso specifico egli stava parlando con l'On. Benito Cazora, incaricato dalla DC di tenere i rapporti con la malavita calabrese per cercare di avere notizie sulla prigione di Moro:
Cazora: "Un'altra questione, non so se posso dirtelo".
Freato: "Si, si, capiamo"
azora: "Mi servono le foto del 16, del 16 Marzo"
Freato: "Quelle del posto, lì ?"
Cazora: "Si, perchè loro... [nastro parzialmente cancellato]...perchè uno stia proprio lì, mi è stato comunicato da giù"
Freato: "E' che non ci sono... ah, le foto di quelli, dei nove ?"
Cazora: "No, no ! dalla Calabria mi hanno telefonato per avvertire che in una foto presa sul posto quella mattina lì, si individua un personaggio... noto a loro"
Freato: "Capito. E' un pò un problema adesso"
Cazora: "Per questo ieri sera ti avevo telefonato. Come si può fare ?"
Freato: "Bisogna richiedere un momento, sentire"
Cazora: "Dire al ministro"
Freato: "Saran tante !"
Traspare lampante dunque la preoccupazione di certi ambienti malavitosi calabresi, le foto scattate dalla terrazza di casa Nucci avrebbero potuto portare gli inquirenti su di un sentiero piuttosto pericoloso sia per la persona loro "cara", sia per la precisa ricomposizione dello scenario di quella tragica mattina. Ecco poi un altro singolare accadimento: lo stesso giorno dell'eccidio di via Fani alle ore otto di mattina la notizia che stava per essere compiuta un'azione terroristica ai danni di Moro fu diffusa da un'emittente radiofonica, Radio Città Futura, da parte del suo animatore Renzo Rossellini. Poiché non si può pensare ad una divinazione, né appare credibile che si trattasse della conclusione di un ragionamento politico collegato agli avvenimenti parlamentari che nella stessa giornata sarebbero avvenuti (l'inizio del dibattito alla Camera dei deputati sulla fiducia al governo di solidarietà nazionale), non resta che concludere che, nonostante la rigida compartimentazione di tipo militare che caratterizzava le Br (il famoso "cubo di acciaio" di cui ha parlato tra gli altri anche Prospero Gallinari) da qualche crepa le notizie sulla preparazione dell'agguato fossero filtrate nell'area magmatica degli ambienti dell'Autonomia Romana (con cui Rossellini era in contatto), che oggi sappiamo fossero stati abbondantemente infiltrati da parte delle forze dell'ordine. Tra l'altro la sede della radio era distante pochi passi da quella del "Collettivo di Via dei Volsci", sede storica dell'Autonomia romana. Lo stesso Rossellini il 4 ottobre '78 dichiarò in una intervista al quotidiano francese Le Matin (ma successivamente apparve anche su "Lotta Continua") che: "spiegavo che le Br avrebbero in tempi molto ravvicinati, poteva anche essere lo stesso giorno, compiuto un'azione spettacolare, e tra le ipotesi annunciavo anche la possibilità di un attentato contro Moro". Successivamente Rossellini smentì il contenuto dell'intervista, l'annuncio quel 16 Marzo era però stato ascoltato da diversi testimoni, casualmente non dal Centro di ascolto dell'Ucigos (che registrava ed ascoltava tutte le radio private...) che incredibilmente interruppe la registrazione dalla 8,20 alle 9,33. Un'altra cosa che salta subito agli occhi è la particolarità della data scelta dalle Br per portare a termine l'azione, un giorno simbolo per tutti i nemici del c.d. Compromesso Storico. Le testimonianze dei brigatisti dissociati, anche su questa scelta, non fanno alcuna chiarezza: Valerio Morucci - uno dei componenti del gruppo di fuoco - riferendo sull'accaduto ha affermato in più di un'occasione che quello in pratica era solo un tentativo, e che nel caso l'auto di Moro quella mattina non fosse giunta, le Br avrebbero aspettato anche il mattino dei giorni seguenti. Di fatto però la sera prima dell'agguato vennero squarciate le gomme del fioraio che ogni mattina sostava in Via Fani, e ciò rende sicuro che l'azione fosse stata programmata per il 16 Marzo.

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8 Anni 6 Mesi fa #1746 da Starburst
Risposta da Starburst al topic La storia nascosta
Roberto Bartali
Rilettura critica della storia delle br e del rapimento di Aldo Moro


TERZA PARTE :

Come però le Br potessero essere sicure del passaggio di Moro e della sua scorta da quella via proprio quella mattina, alla luce del fatto che il percorso veniva cambiato tutte le mattine, resta tutt'oggi un mistero. Compiuta la strage e sequestrato Moro i terroristi riuscirono a dileguarsi grazie ad una sorprendente coincidenza: una volante della polizia stazionava come ogni mattina in Via Bitossi nei pressi del giudice Walter Celentano, luogo dove stavano per sopraggiungere le auto dei brigatisti in fuga; proprio qualche istante prima dell'arrivo dei brigatisti, un ordine-allarme del COT (centro operativo telecomunicazioni) fece muovere la pattuglia. In via Bitossi era parcheggiato il furgone con la cassa di legno sulla quale sarebbe stato fatto salire Moro. Un tempismo perfetto. I brigatisti avevano la certezza che quella volante si sarebbe spostata ? L'unica certezza cui possiamo fare appello per questa circostanza è che tra i reperti sequestrati a Morucci dopo il suo arresto verrà trovato un appunto recante il numero di telefono del commissario capo Antonio Esposito (affiliato alla P2...), in servizio guarda caso proprio la mattina del rapimento. Secondo il racconto degli esecutori, il commando brigatista, una volta effettuato un cambio di auto nella già citata Via Bitossi, con il sequestrato chiuso in una cassa contenuta in un furgone guidato da Moretti e seguito da una Dyane al cui volante era Morucci, fa perdere le proprie tracce. Le Br per portare a termine il sequestro del segretario del maggior partito politico italiano e fronteggiare eventuali posti di blocco fecero uso solamente di due auto, veramente strano se si considera che per rapire Valeriano Gancia le stesse Br ne avevano usate tre. I dubbi si fanno insistenti se si pensa che, sempre secondo il racconto fatto dai terroristi, il trasbordo dell'On. Moro sul furgone che doveva portarlo nel covo-prigione di Via Montalcini avvenne in piazza Madonna del cenacolo, una delle più trafficate e per giunta piena zeppa di esercizi commerciali a quell'ora già aperti, mentre il furgone che doveva ospitare il rapito (e del quale, al contrario delle altre auto usate, non verrà mai ritrovata traccia) era stato lasciato privo di custodia, in modo tale che se qualcuno avesse parcheggiato in doppia fila, le Br avrebbero compromesso tutta l'operazione. Adriana Faranda in merito a questo particolare - anche di fronte alla Commissione stragi - ha risposto che in caso di contrattempi di questo tipo Moretti avrebbe portato il prigioniero alla prigione del popolo con l'auto che aveva in quel momento, un'affermazione alla quale non mi sento di credere visto l'inutile pericolo che i brigatisti avrebbero corso e considerando che, come hanno più volte dimostrato dimostrato, non erano affatto degli sprovveduti. Non è però difficile ipotizzare che i brigatisti vogliano coprire qualche altro compagno che magari non stato ancora identificato. Poco dopo la strage un tempestivo black-out interruppe le comunicazioni telefoniche in tutta la zona tra via Fani e via Stresa, impedendo così le prime fondamentali chiamate di allarme e coprendo di fatto la fuga delle Br. Secondo il procuratore della Repubblica Giovanni de Matteo - ma anche per gli stessi brigatisti - l'interruzione venne provocata volontariamente, tutto il contrario di quanto sostenuto dall'allora SIP, che attribuì il blocco delle linee al " sovraccarico nelle comunicazioni ". Su questo punto i brigatisti hanno affermato che il merito di tale interruzione era da attribuirsi a dei "compagni" che lavoravano all'interno della compagnia telefonica. Però coincidenza volle che il giorno prima (il 15 Marzo alle 16:45) la struttura della SIP che era collegata al servizio segreto militare (SISMI), fosse stata posta in stato di allarme, proprio come doveva accadere in situazioni di emergenza quali crisi nazionali internazionali, eventi bellici e...atti di terrorismo. Una strana premonizione visto che era giusto il giorno prima del rapimento di Moro. Un mistero inerente al giorno del rapimento riguarda poi la sparizione di alcune delle borse di Moro. Secondo la testimonianza di Eleonora Moro, moglie del defunto presidente, il marito usciva abitualmente di casa portando con se cinque borse: una contenente documenti riservati, una di medicinali ed oggetti personali; nelle altre tre vi erano ritagli di giornale e tesi di laurea dei suoi studenti. Subito dopo l'agguato sull'auto di Moro vennero però rinvenute solamente tre borse. La signora Moro in proposito ha delle precise convinzioni: " I terroristi dovevano sapere come e dove cercare, perché in macchina c'era una bella costellazione di borse ". Nonostante l'enorme quantità di materiale brigatista sequestrato negli anni successivi all'interno delle numerose basi scoperte, delle due borse di Moro non è mai stata rinvenuta traccia, un fatto di rilievo se si considera soprattutto il contenuto dei documenti che il presidente portava con se. Corrado Guerzoni, braccio destro dell'onorevole Moro, ha affermato che con ogni probabilità quelle borse contenevano anche la prova che il coinvolgimento del presidente DC nello scandalo Lockheed era stato frutto di una "imboccata" fatta dal segretario di stato americano, Kissinger. Un punto, questo, da tenere molto in considerazione, come suggerito dalle tesi del Partito Operaio Europeo. Questo delle borse scomparse (e dei documenti da esse contenute...) è un punto sul quale l'alone di mistero tarda a scomparire, tant'è che nea relazione del presidente della Commissione stragi del Luglio '99, il senatore Pellegrino continua ad indicarlo come di cruciale importanza. Chi era veramente presente quella mattina in via Fani? Le Commissioni parlamentari hanno ormai confermato, tanto per riportare alcuni nomi alquanto "particolari", che quella mattina alle nove, in via Stresa, a duecento metri da via Fani, c'era un colonnello del SISMI, il colonnello Guglielmi, il quale faceva parte della VII divisione (cioè di quella divisione del Sismi che controllava Gladio...).
Guglielmi, che dipendeva direttamente dal generale Musumeci - esponente della P2 implicato in vari i depistaggi e condannato nel processo sulla strage di Bologna - ha confermato che quella mattina era in via Stresa, a duecento metri dall'incrocio con via Fani, perché, com'egli stesso ha detto: " dovevo andare a pranzo da un amico ". Dunque, benché si possa definire quantomeno "singolare" presentarsi a casa di un amico alle nove di mattina per pranzare, sembra addirittura incredibile che nonostante a duecento metri di distanza dal colonnello ci fosse un finimondo di proiettili degno di un film western, egli non sentì nulla di ciò che era avvenuto ne tanto meno poté intervenire magari solo per guardare cosa stesse accadendo. Ma il particolare più inquietante è che il Guglielmi non era un gladiatore qualsiasi, bensì colui che nel campo di addestramento sardo di Capo Marragiu si occupava dell'addestramento delle truppe per le azioni di comando... A dire il vero l'incredibile presenza a pochi metri dal luogo della strage di Guglielmi è stata rivelata solo molti anni dopo l'accaduto, nel 1991, da un ex agente del SISMI - Pierluigi Ravasio - all'On. Cipriani, al quale lo stesso confidò anche che il servizio di sicurezza disponeva in quel periodo di un infiltrato nelle Br: uno studente di giurisprudenza dell'università di Roma il cui nome di copertura era "Franco" ed il quale avvertì con mezz'ora di anticipo che Moro sarebbe stato rapito. Ad ogni modo resta il dato di fatto, perché ormai appurato, che la mattina del rapimento di Aldo Moro un colonnello dei Servizi segreti si trovava nei pressi di via Fani mentre veniva uccisa la scorta e rapito il presidente della DC e in più lo stesso ha taciuto questo importante fatto per più di dieci anni. Per la verità oggi sappiamo anche che alcune precise segnalazioni su di un possibile attentato a Moro erano pervenute ai Servizi segreti, per esempio un detenuto della casa circondariale di Matera aveva segnalato che "è possibile il rapimento di Moro"; la soffiata venne riferita alla locale sezione dei Servizi, ma, secondo quanto riferito dal generale Santovito (P2) essa giunse al SISMI centrale solamente a sequestro già avvenuto. È quantomeno singolare che una segnalazione così precisa, e che avrebbe dovuto riguardare una personalità così importante per la vita politica del paese, abbia seguito un iter burocatico così lento invece di attivare immediatamente delle efficaci procedure di controllo. Evidentemente, e la presenza di Guglielmi in Via Fani lo dimostra, all'interno dei Servizi c'è chi aveva dato credito alla soffiata, ma invece di prevenire era andato a controllare lo svolgimento dei fatti. Del resto il collega di Guglielmi, da cui l'agente segreto si sarebbe dovuto recare per pranzo, interrogato, ha confermato che egli si era effettivamente presentato nella sua abitazione ma ha anche dichiarato che non era da lui atteso, perchè non era affatto programmato un pranzo. L'ultima clamorosa novità inerente il fatto che qualcuno, negli apparati dello Stato, sapeva che le Brigate Rosse volevano rapire Moro è emersa - a dire il vero qualche anno fa - dall'oceano del web, in un sito costruito da un ex agente segreto del Sid, Antonino Arconte. Nome in codice G.71, Arconte faceva parte di una struttura riservatissima, la Gladio delle centurie, che aveva compiti operativi oltre confine: trecento uomini superaddestrati, che si muovevano all'interno delle strategie della Nato. Arconte, sardo di Cabras, raccontò la sua storia di soldato e di 007 sul suo sito www.geocities.com/Pentagon/4031 ). Arruolatosi nel 1970 a soli 17 anni, partecipò a una selezione per entrare nei corpi speciali dell'Esercito. Passò poi al Sid (Servizio informazioni della Difesa), allora guidato dal generale Vito Miceli. Così cominciò la sua avventura in un mondo sotterraneo e silenzioso, muovendosi per tutto il mondo con la copertura di uomo di mare della marineria mercantile. Intervistato Arconte, l'agente G.71, parlò di una sua missione in Medio Oriente, che si intrecciò con la tragedia di Aldo Moro. Ecco cosa disse: "Partii dal porto della Spezia il 6 marzo 1978, a bordo del mercantile Jumbo Emme. Sulla carta era una missione molto semplice: avrei dovuto ricevere da un nostro uomo a Beirut dei passaporti che avrei poi dovuto consegnare ad Alessandria d'Egitto. Dovevo poi aiutare alcune persone a fuggire dal Libano in fiamme, nascondendole a bordo della nave. Ma c'era un livello più delicato e più segreto in quella missione. Dovevo infatti consegnare un plico a un nostro uomo a Beirut. In quella busta c'era l'ordine di contattare i terroristi islamici per aprire un canale con le Br, con l'obiettivo di favorire la liberazione di Aldo Moro". E qui, ecco il mistero: il documento è del 2 marzo '78 e viene consegnato a Beirut il 13. Moro verrà rapito dalle Br il 16. Cioé, nel mondo sotterraneo degli 007 qualcuno si mosse per liberare il presidente della Dc, prima del rapimento. Quindi, si sapeva che Moro sarebbe stato sequestrato. Recentemente una perizia ha confermato che il documento "a distruzione immediata" che è stato fornito da Arconte è originale. Insomma, Gladio sapeva, e con buon anticipo, che Moro stava per essere rapito. Ma torniamo alla mattna della strage. Come ormai accertato anche in sede parlamentare, un tiratore scelto addestratissimo armato di mitra a canna corta, risolse gli aspetti più difficili e delicati della difficile operazione: con una prima raffica, sparata a distanza ravvicinata, colpì i carabinieri Leonardi e Ricci seduti nei pressi di Moro, lasciando però illeso l'onorevole DC. Fu un attacco militare di estrema precisione: la maggioranza dei colpi (49 su di un totale di 93 proiettili ritrovati dalle forze dell'ordine) sparata da una sola arma, un vero e proprio "Tex Willer" descritto dai testimoni (tra i quali un esperto di armi, il Lalli) come freddo e di altissima professionalità. Gli esperti hanno sempre concordato sul fatto che non poteva essere un autodidatta delle Br; nessuno dei membri del commando aveva una capacità tecnica di sparare come quello che alcuni testimoni hanno definito appunto "Tex Willer" ed invece, secondo le perizie, praticamente tutti i colpi letali furono sparati da uno solo dei membri del commando. A ciò si somma il fatto che, secondo una perizia depositata in tribunale, in Via Fani non si sparò solamente da un lato della strada (quello cioè dove si trovavano i quattro brigatisti i cui nomi sono ormai noti), mentre tale ricostruzione è sempre stata negata dai diretti interessati. L'azione, definita degli esperti come "un gioiello di perfezione, attuabile solo da due categorie di persone: militari addestrati in modo perfetto oppure da civili che si siano sottoposti ad un lungo e meticoloso addestramento in basi militari specializzate in azioni di commando", risulta veramente straordinaria se si pensa che, come ha testimoniato Adriana Faranda (anch'ella in azione quel giorno): "gli addestramenti all'uso delle armi da parte dei brigatisti erano estremamente rari perché era considerato pericoloso spostarsi fuori Roma". La stessa Faranda ha però recentemente aggiunto che: " ...era convinzione delle Brigate rosse che la capacità di usare un'arma non era tanto un presupposto tecnico ma piuttosto di volontà soggettiva, di determinazione, di convinzione che si metteva nel proprio operato". Insomma, una - poco credibile - apologia del "fai da te" a dispetto dell'estrema difficoltà dell'azione. Nata quasi venti anni fa dal lavoro di Zupo e Recchia autori del libro "Operazione Moro", la figura di del superkiller è stata ripresa, acriticamente in tutte le successive inchieste. Zupo e Recchia affermano: " Il lavoro da manuale è stato compiuto essenzialmente da due persone una delle quali spara 49 colpi l'altra 22 su un totale di 91 [...] il superkiller quello dei 49 colpi, quasi tutti a segno, quello che ha fatto quasi tutto lui, viene descritto con autentica ammirazione dal teste Lalli anche lui esperto di armi". La perizia balistica identifica sul luogo dell'agguato 91 bossoli sparati da 4 armi diverse. Ed effettivamente 49 bossoli si riferiscono ad un'arma e 22 ad un'altra. Occorre però notare che più volte la perizia mette in evidenza la parzialità delle risultanze data la vastità del campo d'azione e la ressa creatasi subito dopo il fatto: " Non è da scartarsi nella confusione del momento, che curiosi abbiano raccolto od asportato bossoli, o che essi calpestati o catapultati da colpi di scarpa od altro siano rotolati in luoghi ove poi non sono stati più trovati (ad esempio un tombino) ed infine che i bossoli proprio non siano caduti a terra perché trattenuti dentro eventuali borse, ove era trattenuta l'arma che sparava ". Bisogna quindi precisare che 91 non sono i colpi sparati, ma soltanto i bossoli ritrovati sul terreno. Tenendo presente che i colpi sparati potrebbero essere molti di più dei 91 bossoli ritrovati, il fatto che 49 colpi sono stati sparati da un'unica arma acquista un valore del tutto relativo. Se dai bossoli, poi, si passa all'analisi dei proiettili, il dato diventa ancor più aleatorio. La perizia, infatti, afferma: " I proiettili ed i frammenti di proiettili repertati sono relativamente molto pochi, un quarto circa dei proiettili che si sarebbero dovuti trovare in relazione al numero dei bossoli. Non tutti i proiettili, e forse la maggior parte, nello stato come sono, abrasi, dilaniati, deformati e scomposti sono utili per definire le caratteristiche della presumibile arma". Quanto poi all'affermazione dei 49 colpi quasi tutti a segno le risultanze balistiche dicono: " Nei cadaveri in particolare a fronte di almeno 36 ferite da armi fuoco sono stati repertati soltanto 13 proiettili calibro 9 mm 8 di cui sparati da un'arma e 5 da un'altra ". Come si può notare quindi è cosa certa, ed emerge dalla perizia, la presenza in Via Fani di un terrorista che esplode un numero veramente rilevante di colpi. L'altro elemento che è servito per creare la figura del superkiller è l'ormai famosa testimonianza del benzinaio Lalli che afferma: " Ho notato un giovane che all'incrocio con Via Fani sparava una raffica di circa 15 colpi poi faceva un passo indietro per allargare il tiro e sparava in direzione di un'Alfetta [...] L'uomo che ha sparato con il mitra, dal modo con cui l'ha fatto mi è sembrato un conoscitore dell'arma in quanto con la destra la impugnava e con la sinistra sopra la canna faceva in modo che questa non s'impennasse inoltre ha sparato con freddezza e i suoi colpi sono stati secchi e precisi". Lalli parla quindi di una persona esperta nel maneggiare le armi, nulla può chiaramente dire sulla precisione del killer. Ma è veramente indecifrabile questo personaggio che maneggia così bene le armi? Nella sua dichiarazione, Lalli assegna all'esperto sparatore un posto ben preciso: " egli è situato all'incrocio con Via Stresa ". Secondo le ricostruzioni quella posizione è occupata da Valerio Morucci. Perché allora ci sono dubbi sull'identità del brigatista? Evidentemente Morucci potrebbe anche possedere le qualità "tecniche" indicate dal Lalli. Per sincerarcene diamo uno sguardo alla sua "carriera": Morucci entra in Potere Operaio all'inizio degli anni settanta, come responsabile del servizio d'ordine ed è tra i primi a sollecitare una militarizzazione del movimento. Nel febbraio del 1974 è arrestato dalla polizia svizzera perché in possesso di un fucile mitragliatore e cartucce di vario calibro. Alla fine del 1976, al momento dell'entrata nelle Br, devolve all'organizzazione diverse pistole, munizioni, e la famosa mitraglietta skorpion, già usata nel ferimento Theodoli, ed in seguito utilizzata per uccidere Moro. Come componente della colonna romana delle Br partecipa a quasi tutti gli attentati che insanguinano Roma nel 1977. Infine, quando insieme con la Faranda esce dalle Br, pur essendo ormai un isolato senza concrete prospettive militari, decide di riprendersi le proprie armi. Un vero arsenale formato da pistole, mitra e munizioni rinvenuto in casa di Giuliana Conforto al momento del suo arresto, il 29 Maggio 1979. A conferma del rapporto quasi maniacale che Morucci ha con le armi ci sono moltissime testimonianze di compagni brigatisti. Carlo Brogi, un militante della colonna romana nel processo Moro afferma: " Morucci aveva con le armi un rapporto incredibile, anche perché, come lui stesso mi ha detto, molte delle armi che aveva portato via le aveva portate lui nell'organizzazione provenendo dalle F.A.C. e che queste armi erano il risultato d'anni di ricerche per modificarle, per trovare i pezzi di ricambio, insomma erano sue creature. Pertanto per lui separarsene era un insulto a tutto il suo lavoro". Credo che, viste le caratteristiche di Morucci, affermare che fosse in grado di maneggiare correttamente un fucile sia davvero il minimo.

NO FAITHS NO PAIN

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8 Anni 6 Mesi fa - 8 Anni 6 Mesi fa #1767 da Starburst
Risposta da Starburst al topic La storia nascosta
Che la storia almeno quella cosidetta ufficiale la scrivino i vincitori e' ormai cosa nota come cosa nota e' la condanna alla "damnatio memoriae"che tanti personaggi specie della storia antica hanno subito.Uno dei piu' famosi e' Nerone imperatore romano da tutti visto come il male assoluto,incendiario,persecutore,matricida,un esempio di come la mente umana possa arrivare a commettere i piu' biechi delitti senza battere ciglio.
Ebbene studi recenti stanno pian piano riabilitando la figura di questo imperatore che non e' stato meglio ne' peggio di tutti gli altri imperatori di Roma antica.
Anche lui guarda caso amatissimo dal popolo romano e anche lui gettato nella polvere della storia come giulio cesare ammazzato perche' "tiranno" ma effettivamente fatto fuori perche' non amava i senatori che a loro volta non erano amati dalla plebe.
Ecco un resoconto di questa"rilettura" del personaggio Nerone, rilettura che sta' faticosamente cercando di riabilatare l'uomo e quello che fece per Roma e l'impero.

NERONE: UN IMPERATORE AMATO DAL POPOLO

 
La storia è scritta dai vincitori. Chi perde è destinato a essere oltraggiato.
Nerone è l'imperatore romano, insieme a Caligola, più vilipeso dagli storici del tempo.

Scrissero di Nerone:
- Publio Cornelio Tacito (55-120 circa), contemporaneo di Domiziano e di Nerva, originario della Gallia transalpina o cisalpina, senatore, proconsole d'Asia nel 112-113, grande storico. Scrisse opere fondamentali per la conoscenza della storia romana.
- Svetonio Tranquillo (70-140 circa), originario della provincia d'Africa dove era nato agli inizi del principato di Vespasiano, cavaliere, capo del dipartimento della corrispondenza imperiale. Rimosso da Adriano nel 121, si mise a scrivere biografie degli imperatori accentuando gli aspetti aneddotici e scandalistici.
- Dione Cassio Cocceiano (Nicea 155 - Nicea 235 circa), proveniente dalla Bitinia, un padre senatore, fu due volte console e nel 229 collega dell'imperatore Severo Alessandro. Scrisse una storia romana in 80 libri.
Dunque ciò che sappiamo di Nerone deriva da esponenti della classe senatoria e della classe equestre: esattamente le due classi con le quali aveva dovuto combattere e dalle quali era stato infine tratto in rovina.

Anche la tradizione giudaica è contraria a Nerone. Nerone difese in Giudea, come in tutto l'impero, la libertà di religione, la convivenza tra etnie e popoli diversi: l'antico ideale di Alessandro Magno. Ma i Giudei non condivisero questo ideale e Nerone dovette intervenire con l'esercito per pacificare la regione.

Contraria a Nerone è tutta la tradizione cristiana che vide in lui il primo persecutore dei cristiani, l'assassino di Pietro e Paolo, l'Anticristo. Ma non esiste alcun editto di Nerone contro i cristiani o contro la religione cristiana. Nerone condannò a morte solo un gruppo di incendiari o di supposti tali.
Finora non è stata trovata alcuna tradizione favorevole a Nerone.
Eppure Nerone venne profondamente amato dal popolo romano che rimpianse a lungo la sua morte.
 
Località: Impero Romano
Epoca: 37-68 d.C.


Le origini

Lucio Domizio Enobarbo nacque ad Anzio il 15 dicembre del 37.
Sua madre era Agrippina, figlia di Agrippina Maggiore, figlia di Giulia, figlia di Augusto, nipote di Giulio Cesare.
Suo padre, Gneo Domizio Enobarbo, che era stato console nel 38, morì nel 40.
L'imperatore Caligola, che morì nel 41, era fratello di Agrippina.
Lucio Domizio studiò con il filosofo greco-egiziano Cheremone di Alessandria, il filosofo peripatetico Alessandro di Ege e l'astronomo Trasillo, che era stato l'astrologo di Tiberio.
Dal 49 ebbe come precettore un senatore: il filosofo di origine iberica Lucio Anneo Seneca (Cordoba 4 a.C. - Roma 65 d.C.).
Il prefetto del pretorio di origine gallica Sesto Afranio Burro (? Vaison - Roma 62 d.C.) insegnò al giovane le materie militari.
Nel 49 Agrippina sposò suo zio, l'imperatore Claudio.
Il 25 febbraio del 50 Lucio Domizio venne adottato da Claudio. Prese il nome di Nero Claudius Drusus Germanicus.
A sedici anni, nel 53, sposò Ottavia, la figlia di Claudio. Lei aveva dodici anni.
Il 12 ottobre del 54 Claudio morì, probabilmente avvelenato da Agrippina.
Seneca scrisse l'elogio funebre di Claudio, che Nerone avrebbe pronunciato durante la cerimonia funebre, e contemporaneamente scrisse un libello sarcastico intitolato "La trasformazione in zucca del divo Claudio".
A 16 e dieci mesi Nerone divenne imperatore con il nome di Nero Claudius Caesar Augustus Germanicus.
Nel 58 Suillius, che era stato console nel 50 sotto l'imperatore Claudio, si chiese "con quale saggezza morale, con quali precetti filosofici Seneca ave
accumulato in quattro anni trecento milioni di sesterzi". Suillio fu esiliato alle Baleari. Seneca tentò anche di processare il figlio di Sullio, ma Nerone si oppose.

Britannico

Nel 55 il quattordicenne Britannico (41-55),figlio di Claudio e di Messalina Valeria, morì durante un pranzo.
Si disse che fosse stato colpito da un attacco di epilessia. Forse fu avvelenato da Agrippina che temeva le rivendicazioni del ragazzo.
Elargizioni
Le prime misure del nuovo imperatore furono costituite da elargizioni e donazioni.
Vennero distribuiti 400 sesterzi a ogni cittadino.
Ai membri del senato in difficoltà economiche assicurò una pensione fino a mezzo milione di sesterzi all'anno.
I pretoriani ebbero una distribuzione di frumento gratuito ogni mese.
Il consolato

Per ridare dignità alla magistratura del consolato stabilì che la carica doveva essere rivestita per almeno sei mesi.
Ogni anno nominò da due a quattro consoli.
Nerone assunse il consolato quattro volte tra il 55 e il 60.
Nel 57 mantenne il consolato tutto l'anno.
Nel 58 il senato propose a Nerone di acquisire il consolato a vita. Nerone rifiutò.
Dopo il 60 non assunse più il consolato fino alla crisi del 68.

Provvedimenti nell'ambito giudiziario

Nerone abolì le procedure segrete e discrezionali (intra cubiculum principis) durante i procedimenti giudiziari.
Cambiò la prassi di emettere il verdetto durante lo stesso giorno del dibattimento. Si prese almeno un giorno di riflessione per scrivere la sentenza con le motivazioni.
Tentò di porre un limite alle parcelle degli avvocati.
Pose i procedimenti giudiziari a carico dell'erario.
Ridusse i compensi ai delatori.
Tra il 54 e il 61 fece processare dodici governatori delle province per malversazione. Sei furono condannati. Di questi tre erano stati nominati da Nerone.

Altri provvedimenti

Nerone proibì a tutti i governatori delle province di allestire spettacoli con gladiatori e bestie feroci. Era vero che gli spettacoli venivano graditi dalla popolazione, ma le spese per il loro allestimento erano a carico dei contribuenti.
Vietò ai non residenti in Egitto di possedervi delle terre. In questo modo si impediva ai romani ricchi di costituirvi dei latifondi.
Tentò di ripopolare l'Italia meridionale con la costituzione di nuove colonie di veterani. Ma questi in gran parte si rivendettero i lotti.
Il controllo della tesoreria
Nel 57 tolse il controllo dell'amministrazione della tesoreria (aerarium Saturni) al senato.
Vennero costituiti i praefecti aerarii Saturni di nomina imperiale. I prefetti erano senatori di rango pretorio scelti direttamente dall'imperatore.
Il senato perse il potere di coniare monete.

Il progetto di riforma fiscale

Nel 58, presentò un progetto di riforma fiscale: l'abolizione delle tasse indirette chiamate portoria, che si pagavano principalmente nei porti. Si trattava di eliminare i dazi di entrata e uscita delle merci che passavano da una provincia all'altra dell'impero. Nerone voleva la libera circolazione delle merci.
La diminuzione delle entrate dell'erario sarebbe stata compensata dall'aumento del volume delle tasse di compravendita e da un moderato aumento delle tasse dirette.
L'abolizione dei dazi avrebbe danneggiato:
- i grandi proprietari terrieri italiani, ossia i senatori, che si sarebbero trovati a fronteggiare una maggiore concorrenza dei produttori provinciali;
- gli appaltatori delle tasse, ossia i cavalieri, che avrebbero visto scomparire una delle fonti principali del loro reddito.
Ne sarebbe stato avvantaggiato tutto il resto della popolazione che avrebbe goduto della diminuzione del costo della vita.
Il senato, controllato dai ricchi proprietari agrari, impedì a Nerone di procedere con la sua riforma.
Il contrasto tra Nerone ed il senato divenne palese. L'aristocrazia fondiaria divenne il maggiore nemico dell'imperatore.

L'Egitto

Durante il suo principato Nerone nominò alla carica di prefetto d'Egitto:
- Claudio Balbillo di Alessandria;
- Cecina Tusco, la cui madre, di origine greca, era stata nutrice di Nerone;
- Tiberio Giulio Alessandro, un ebreo di Alessandria.
Evidentemente Nerone non privilegiava gli occidentali e non aveva problemi con gli ebrei.
Provvedimenti in tema di fisco
Bloccato dal senato sulla riforma fiscale, Nerone emanò dei provvedimenti di minore impatto, ma non per questo meno odiati dai senatori e dai cavalieri:
- Le norme per l'esazione delle tasse, fino ad allora segrete, dovevano essere rese pubbliche.
- Le tasse non potevano essere richieste dopo un anno.
- Tutte le soprattasse inventate dagli appaltatori dovevano essere abolite.
- I processi contro gli appaltatori delle tasse dovevano avere la precedenza.
- Le navi mercantili addette al trasporto del grano a Roma erano esentate dalle tasse patrimoniali.

Armenia: accordo con i Parti

L'Armenia era uno stato cuscinetto tra l'impero romano e quello partico. Nel 52 Vologese, re dei Parti, aveva messo sul trono di Armenia suo fratello Tiridate. Nerone, fin dall'inizio del suo principato, decise di intervenire.
Il generale Corbulone e il legato della Siria Ummidio Durmio Quadrato furono incaricati di liberare l'Armenia.
La campagna militare si svolse principalmente nel 57-59. Nel 60 Tigrane V, un principe di Cappadocia educato a Roma, venne insediato sul trono di Tigranocerta.
Nel 61 Vologese e Tiridate ripresero le ostilità. Le legioni del generale Cesennio Peto, inviato a rioccupare l'Armenia, vennero sconfitte.
Corbulone riprese il comando e nel 63 raggiunse un accordo con Vologese: l'Armenia sarebbe stata governata da Tiridate, ma questi avrebbe ricevuto la corona da Nerone, in quanto l'Armenia diveniva protettorato romano.

Morte di Agrippina

Nel marzo del 59 Agrippina venne uccisa su ordine di Nerone, probabilmente per consiglio di Seneca.
Nerone si giustificò dinanzi al senato affermando che Agrippina aveva congiurato contro di lui e contro lo stato.
In effetti pare che Agrippina avesse intenzione di detronizzare Nerone, che l'aveva allontanata dal potere, e di mettere sul trono un altro uomo con cui intendeva risposarsi.
Nerone portò per il resto della vita il peso dell'orrendo delitto. Tremendi incubi notturni lo tormentarono.

Britannia: la rivolta di Budicca

Nel 59 Nerone inviò in Britannia il generale Gaio Svetonio Paolino.
Nel 60, mentre Svetonio Paolino stava eliminando un focolaio di resistenza nell'isola di Mona (Anglesey), posta nel mare Ibernico, tra la Britannia e l'odierna Irlanda, scoppiò la rivolta nel territorio degli Iceni (Norfolk).
La rivolta ebbe alla base un problema fiscale e l'esosità di Seneca che, dopo aver fatto notevoli prestiti ai Britanni, riscuoteva la somma con gli interessi utilizzando l'esercito romano.
Budicca, la regina degli Iceni, guidò i rivoltosi alla conquista di Camulodunum (Colchester), poi puntò su Londinium (Londra). Le truppe di Svetonio Paolino non arrivarono in tempo e la città cadde. Furono uccise oltre 70.000 persone tra Romani e alleati.
Con le poche truppe a disposizione, non più di 10.000 uomini, Svetonio Paolino attaccò Budicca. I Britanni furono sconfitti. Budicca si diede la morte.
Etiopia Meroitica: accordi commerciali
Nel 61 Nerone inviò una spedizione nella Etiopia Meroitica per creare nuove vie commerciali e nuove basi marittime.
I Romani ebbero l'uso del porto di Assab e stabilirono rapporti diplomatici con i re di Axum.
Gallia
La Gallia, al tempo di Nerone, era un territorio ricco e fiorente. La zecca di Lione coniava frequentemente monete.
Nel 61 Nerone decise di effettuare un censimento della provincia per migliorare l'imposizione fiscale.
Cambiamenti al vertice
Nel 62 avvennero notevoli cambiamenti al vertice dello stato.
Morì il prefetto del pretorio Afranio Burro. Venne sostituito da Fenio Rufo e dal siciliano Tigellino.
Seneca si ritirò a vita privata.
A giugno Nerone ripudiò Ottavia per sposare Poppea Sabina, moglie di Otone. Otone era stato mandato a fare il governatore della Lusitania fin dal 58.
Ottavia fu esiliata. Il popolo scese in piazza per manifestare a favore di Ottavia. Allora Nerone la fece suicidare.
Mesia e Mar Nero
Il legato della Mesia, T. Plauzio Silvano Eliano, riuscì a sottomettere oltre 100.000 abitanti delle regioni oltre il Danubio. Respinse una invasione dei Sarmati. Pose sotto controllo le coste occidentali e settentrionali del Ponto Eusino, arrivando fino in Crimea.
Nel 63 tutta la costa settentrionale del Mar Nero era presidiata da truppe romane. Il grano della odierna Ucraina poteva essere commercializzato all'interno dell'impero.
Nel 64 il Ponto Polemoniaco venne annesso alla provincia della Galazia. Tutto il Mar Nero era controllato dai Romani.

La riforma monetaria
Nel periodo 63-64 Nerone procedette ad una riforma monetaria. Venne abbassato il piede dell'aureus e del denarius. Contemporaneamente venne migliorato il rapporto del denarius rispetto all'aureus.
 
La riforma aumentava la moneta circolante e portava un utile nelle casse dello stato. Nerone si aspettava anche un rilancio della economia.
Inoltre si aveva un vantaggio per le classi medie che non usavano l'aureus, ma il denarius.
I ricchi che avevano tesaurizzato l'aureus furono i più danneggiati.


L'incendio di Roma

La notte di plenilunio del 19 luglio del 64 un incendio divampò a Roma. Iniziò nella zona del Circo Massimo e raggiunse il Palatino, la Suburra, il Viminale, Porta Capena, il Celio, le Carine, gli Orti luculliani e sallustiani, il Campo Marzio, la zona flaminia.
L'incendio divampò sei giorni, poi sembrò spegnersi ma riprese e durò altri tre giorni.
Nerone accorse a Roma per organizzare i soccorsi. Poi iniziò l'opera di ricostruzione. Fece un nuovo piano regolatore della città. Le case dovevano essere distanziate tra loro, costruite in mattoni, fronteggiate da portici su strade larghe.
Venne costruito il complesso conosciuto come Domus Aurea:
- un palazzo imperiale, presso Colle Oppio, una delle tre alture dell'Esquilino;
- un insieme di giardini, laghetti e statue nella valle tra l'Esquilino e il Palatino, dove l'imperatore Tito, nell'80, farà costruire il Colosseo.
Per trovare i fondi necessari alla ricostruzione venne imposto un tributo straordinario a tutte le province dell'impero.
Si ricercarono i colpevoli dell'incendio.
La comunità ebraica di Roma era protetta da Poppea, la moglie di Nerone.
Le lotte all'interno della comunità tra cristiani e giudei ortodossi erano note a Nerone. Il prefetto del pretorio e il prefetto della città erano a conoscenza delle violenze tra i due gruppi. Venne emesso l'ordine di arresto contro alcuni cristiani, ritenuti gli autori dell'incendio. Furono condannati a morte.
Non ci fu alcuna persecuzione né contro la religione cristiana né contro i cristiani.
La congiura di Pisone
Nel 65 venne scoperta una congiura per uccidere Nerone ed eleggere imperatore il senatore Gaio Calpurnio Pisone. I congiurati erano senatori e cavalieri, appoggiati da ufficiali della guardia pretoriana.
Dei 41 partecipanti alla congiura solo diciotto morirono. Gli altri vennero esiliati o perdonati.
Pisone si suicidò. Seneca si suicidò. Il prefetto Fenio Rufo, che aveva partecipato alla congiura, venne ucciso. Fu sostituito da un ufficiale: Nimfidio Sabino.
Presero parte alla congiura anche il poeta Anneo Lucano e Petronio Arbitro.
Nuovo matrimonio
Nel 65 Poppea Sabina morì probabilmente per una malattia durante la gravidanza.
Nerone si sposò con Statilia Messalina.
Tiridate a Roma
Nell'ottobre del 66 il re di Armenia Tiridate arrivò a Roma dopo un lungo viaggio. La carovana era partita da Artaxata (odierna Artasat), aveva attraversato l'Asia Minore, superato il Bosforo, percorso la penisola Balcanica e raggiunto Ancona.
Nerone accolse Tiridate ad Ancona da dove cominciò il corteo trionfale verso Roma. Nella capitale Tiridate, fratello del re dei Parti, venne incoronato da Nerone re di Armenia.
Dopo la cerimonia di incoronazione Nerone chiuse le porte del tempio di Giano. La pace dominava il mondo.
La cospirazione viniciana
Nel 66 venne scoperta la congiura di Annio Viniciano, genero del generale Gneo Domizio Corbulone. Questi rifiutò di presentarsi davanti all'imperatore per discolparsi e si suicidò nel 67.
Nerone in Grecia
Alla fine del 66 Nerone iniziò il suo viaggio in Grecia. Stabilì la propria base a Corinto. Fece viaggi a Delfi, Olimpia, Argo e Nemea.
Diede inizio ai lavori per il taglio dell'istmo di Corinto.
Sottrasse la Grecia alla amministrazione del senato, a cui diede in cambio la Sardegna.
Concesse alla Grecia l'immunità fiscale.
All'inizio del 68 rientrò a Roma, richiamato anche dalle notizia della rivolta di Vindice.
La rivolta della Giudea
Alla fine del 66 scoppiarono dei conflitti tra Greci e Giudei a Gerusalemme e a Cesarea. Nerone inviò il generale Tito Flavio Vespasiano (Falacrinae, nel territorio di Rieti, 9 - Aquae Cutiliae, vicino Rieti, 79), futuro imperatore, a riportare l'ordine.
Le operazioni militari, iniziate nel 67, continuarono a lungo. Vennero portate a termine da Tito, figlio di Vespasiano, nel 70.
La rivolta di Vindice
Nel 68 Giulio Vindice, un gallo romanizzato di 34 anni, legato imperiale a Lione, si ribellò contro la politica fiscale di Nerone. La rivolta si estese a tutta la Gallia e alle altre province occidentali.
Insorsero:
- il 2 aprile del 68, il governatore della Spagna Citeriore, Servio Sulpicio Galba, nominato da Nerone nel 60; appartenente alla ricchissima aristocrazia senatoria; 73 anni;
- il legato della Lusitania, Salvio Otone, antico amico di Nerone.
Alla fine di aprile Nerone assunse il consolato per avere i poteri necessari per reagire.
Il legato della Germania superiore, il milanese Lucio Virginio Rufo (14-97), e il legato della Germania inferiore, Fonteio Capitone, si schierarono con Nerone.
I governatori della Pannonia e della Dalmazia presero pubblicamente posizione a favore di Nerone.
Tutte le province orientali rimasero fedeli.
Alla fine di maggio a Vesantio (Besançon) le truppe di Virginio Rufo sconfissero quelle di Vindice che si suicidò.
Sulpicio Galba con la sua unica legione si era rinchiuso nella città di Clunia.
Nerone aveva recuperato il controllo della situazione.
Il tradimento dei pretoriani
La rivolta era fallita. Ma i nemici di Nerone a Roma non desistettero.
Il prefetto della città Tigellino, con la scusa che era malato, si allontanò da Roma.
Il prefetto del pretorio Ninfidio Sabino:
- convinse Nerone che tutti lo avevano abbandonato, gli fece abbandonare la Domus Aurea e lo trasferì agli Orti Servilliani;
- poi annunciò la fuga di Nerone, la notizia era falsa, ma fu sufficiente a far scomparire da Roma i sostenitori di Nerone;
- infine promise, a nome di Galba, un donativo notevole ad ogni pretoriano e ad ogni legionario.
La condanna del senato
L'8 giugno il senato dichiarò Nerone nemico pubblico: chiunque lo avrebbe potuto uccidere.
La fine
La mattina del 9 giugno Nerone scoprì che i pretoriani non presidiavano il palazzo e sua moglie Statilia Messalina era scomparsa. Abbandonato da tutti, lasciò la città con pochi fedeli e si rifugiò in campagna nella casa di Faone, uno dei suoi liberti.
Il 9 giugno del 68, prima di essere catturato dai pretoriani, si suicidò.
Prima di morire, secondo Svetonio, disse "Qualis artifex pereo".
Aveva 30 anni. Aveva regnato 13 anni.
I funerali
Venne cremato avvolto nelle coperte bianche intessute d'oro che aveva adoperato alle calende di gennaio.
Le sue nutrici Egloge e Alessandria e la concubina Atte ne racchiusero i resti nel mausoleo della famiglia dei Domizi in Campo Marzio.
Ebbe un sarcofago in porfido con sopra un altare in pietra di Luni, circondato da una balaustra in pietra di Taso.
Il compianto
La morte di Nerone lasciò il popolo romano in balia della aristocrazia fondiaria, dei ricchi finanzieri e dei militari.
Molti sperarono che Nerone non fosse morto e fosse fuggito lontano da Roma.
Nacquero delle leggende sul ritorno di Nerone il difensore del popolo e dei poveri.
Per anni sulla sua tomba vennero portati fiori.

Guerra civile
A Nerone succedettero tre imperatori in un anno: Galba, Otone e Vitellio. Fu solo alla fine del 69 che Vespasiano, il generale che Nerone aveva inviato a pacificare la Giudea, riuscì a riportare l'ordine nell'impero.

Statilia Messalina
Statilia Messalina, abile nell'abbandonare Nerone nella sfortuna, fu abbastanza saggia da rifiutare la proposta di matrimonio dell'imperatore Otone, che avrebbe regnato pochi mesi. Rimase una delle donne più in vista fino al tempo di Domiziano (81-96).
Caio Ninfidio Sabino (?-68)
Galba nominò immediatamente un altro prefetto del pretorio da affiancare a Ninfidio. Questi non accettò l'affronto e cominciò a cospirare per accedere al principato. Il suo tentativo fallì e venne messo a morte da Galba nel 68.
Ofonio Tigellino (Agrigento ? - Sinuessa 69)
Galba salvò la vita a Tigellino per ringraziarlo della sua inattività durante la rivolta ma non lo mantenne nella sua carica. Quando Galba cadde i neroniani e i seguaci di Otone lo braccarono. Si suicidò.
Servio Sulpicio Galba (Terracina 3 a.C.- Roma 69 d.C.)
Galba governò pochi mesi. Arrivò a Roma nell'ottobre del 69.
Sterminò migliaia di soldati e di marinai fedeli a Nerone e che ingenuamente si erano consegnati al nuovo imperatore.
Eliminò senza processo coloro che avevano collaborato con Nerone o che avevano cambiato bandiera solo all'ultimo momento. Morirono tra gli altri Fonteio Capitone, Clodio Macro, Petronio Turpilliano.
Tacito, che non è assolutamente benevolo con Nerone, scrisse "Con Galba non c'era da aspettarsi il confino abbinato ad una carica in una seconda Lusitania". (Storie 1, 21)
Commise l'errore di non pagare i pretoriani. E questi il 15 gennaio del 69 lo uccisero barbaramente. Al suo posto nominarono imperatore Otone.
Marco Salvio Otone (32 - Brixellum, odierna Brescello, 69)
Otone governò tre mesi. Il 2 gennaio del 69 le legioni del Reno nominarono imperatore il legato della Germania Superiore Vitellio, che iniziò la sua marcia su Roma. Il 14 aprile Otone venne sconfitto a Bedriaco, vicino Cremona. Il 16 aprile Otone si suicidò.
Aulo Vitellio (15 - Roma 69)
Vitellio governò pochi mesi. Il 1° luglio del 69 il generale Vespasiano, comandante delle truppe operanti in Giudea, venne acclamato imperatore dalle sue truppe.
Il generale Antonio Primo, nativo di Tolosa, comandante delle truppe danubiane, aderì alla rivolta e ad ottobre sconfisse a Bedriaco le truppe vitelliane. Il 21 dicembre Antonio Primo entrava in Roma e prendeva possesso del trono in nome di Vespasiano. Vitellio venne linciato.
Tiberio Giulio Alessandro
Tiberio Giulio Alessandro, ebreo di Alessandria, nipote del filosofo Filone di Alessandria (13 a.C.-54 d.C.); procuratore della Giudea dal 45 al 48; capo di stato maggiore di Corbulone in Armenia nel 63; prefetto d'Egitto; appoggiò la nomina ad imperatore di Vespasiano; fu con Tito all'assedio di Gerusalemme; divenne prefetto del pretorio.
 
Riferimenti bibliografici:
Dione Cassio
Storia romana
Rizzoli
Fini M.
Nerone
Mondadori
Levi M. A.
Nerone e i suoi tempi
Rizzoli
Mazzarino S.
L'Impero romano
Laterza
Scullard H. H.
Storia del mondo romano
Rizzoli
Svetonio
Vite dei Cesari
Rizzoli
Tacito
Gli Annali

Garzanti
 

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8 Anni 6 Mesi fa #1806 da Giano
Risposta da Giano al topic La storia nascosta
Ricevo da un amico su altri lidi e pubblico perché interessante.
È un commento in risposta al post nr.1653 del 6/2 sulla tratta degli schiavi irlandesi, anzi, sono due commenti che cerco di assemblare senza far danno.

"L'articolo sugli schiavi irlandesi e' la solita cazzata anglofobica. Non che quel che si descrive non sia vero. E' tutto assolutamente vero. Il problema e' che non si deportavano solo gli irlandesi, ma proprio tutti, compresi gli inglesi. Il sistema carcerario inglese, pur essendo allora all'avanguardia mondiale (non so se sia una bella cosa, ma tant'e') non riusciva ad assorbire l'ondata di criminalita' - concetto che prima non esisteva in questi termini - portato dalla rivoluzione industriale, dall'inurbamento e dal nuovo controllo sociale capillare. Cosi', dopo avere provato l'edizione moderna della nave dei pazzi ed il solito famosissimo arruolamento forzato in marina, se ne uscirono con lo spedire detenuti in schiavitu' alle colonie. Non erano neanche gli unici a farlo, era prassi comune anche in Francia, chissa' poi perche' dei francesi non si parla mai (Perfida Albione e tutto il resto della retorica fascista, immagino). La pratica, molto efficiente e conveniente dal punto di vista del Governo, fini' solo perche' gli abitanti delle colonie non accettavano piu' di avere criminali difficilmente controllabili, quando potevano avere, come in America, poveracci sbarcati in un mondo che non riuscivano a capire, e senza speranze di fuga.
Insomma la solita paccottiglia. La schiavitu', una pratica soprattutto musulmana ed ebraica, andrebbe sempre affrontata nel contesto. Ma si sa, le ideologie fottono sempre tutti, specie gli irlandesi, che da coloniali si beccano da un centinaio d'anni una classe dirigente autoctona che fa impallidire i padroni inglesi, per quanto orrendi fossero...
(...) Io i piagnoni non li sopporto, come non sopporto il tale che ha scritto l'articolo. Gli irlandesi, quando ne hanno avuto l'opportunita' non e' che abbiano mai brillato neanche loro per essere tanto bravi e comprensivi. Va da se che l'Inghilterra (vale a dire i padroni, in Inghilterra) li hanno sempre trattati peggio di ogni altra colonia.
Pensa che ho trovato in un libro inglese di scuola delle superiori degli anni 50 (mica ieri) con la conclusione che se l'Inghilterra avesse trattato altre colonie come ha trattato l'Irlanda, avrebbe probabilmente perso l'Impero. Tanto per dire come gli inglesi, almeno a scuola, avessero gia' allora una cultura piu' introspettiva di altri.
Un po' come nei discorsi sullo sfruttamento del meridione italiano da parte del nord colonizzatore (tutto vero) sento di dovermi scagliare contro il meridionalismo piagnone: se e' finita cosi' e' stato anche perche' la societa' Borbonica era gia' cotta, corrotta e pronta da essere rapinata, proprio come l'Italia di oggi. Sulla schiavitu' in tempi moderni - e nel medioevo - ci sarebbe da scrivere un nuovo libro che affrontasse l'argomento da un punto di vista non da tifosi. Per somme linee si puo' dire che il mercantilismo resuscito' una pratica che nella cristianita' (non nell'Islam o fra gli ebrei) era stata abolita da almeno un millennio. Per quanto riguarda i servi della gleba medievali, di solito se la passavano parecchio meglio degli operai - tranne in brevi periodi privilegiati come in Europa durante gli anni '60-'70.
Ora il neomercantilismo che ci afflige da 30 anni ha, di fatto, reinstaurato una schiavitu' "dorata" dove gli schiavi sono tenuti a bada da un sortilegio che gli fa credere di non avere catene, anche se sono piu' strette di quanto non siano mai state, specie in posti di merda come l'estremo oriente. Ma se si va avanti cosi' anche qui non si ridera' di sicuro. Il problema e' che la mano d'opera e' sempre meno necessaria, cosi' gli schiavi combattono fra di loro per trovare un padrone. Roba che a pensarci fa accapponare la pelle."
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8 Anni 6 Mesi fa - 8 Anni 6 Mesi fa #1813 da Starburst
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CHI E' EDWARD LUTTWAK

Quello che segue e' ricavato da un suo "saggio" su come preparare ed effettuare colpi di stato verso governi o stati che non hanno scelto la politica "consigliata" da washington, altro che politologo come lo etichetta oggi il fatto quotidiano, sempre pronto a seminare zizzania,spesso ospite delle trasmissioni di santoro..ricordate il discorso dell'equilibrio? Luttwak e' la punta legale e in luce delle amministrazioni u.s.a.,infatti come il suo predecessore kissinger si e' adattato o meglio le amministrazioni sia democratiche che repubblicane si sono "adattate" a loro, innamorati del nostro paese abbiamo subito e subiamo ancora le loro nefaste attenzioni.
L'ultima uscita di luttwak riguarda la morte di regeni, non entro nel merito di chi era regeni,quello che voglio mettere in evidenza e' che ancora una volta non ci sara' nessuno in questo paese,giornalista,politico,opinionista che osera' contraddirlo per la sua ingerenza e la sua strafottenza.

"IL COLPO DI STATO NON DEVE ESSERE NECESSARIAMENTE ASSISTITO DALL'INTERVENTO DELLE MASSE NÉ, IN GRADO SIGNIFICATIVO, DALLA FORZA DI TIPO MILITARE. [...] SE UN COLPO DI STATO NON FA USO DELLE MASSE E DELLE FORZE ARMATE, QUALE STRUMENTO DI POTERE SI USERÀ PER PRENDERE IL CONTROLLO DELLO STATO? LA RISPOSTA, IN BREVE, È LA SEGUENTE: IL POTERE VERRÀ DALLO STATO STESSO".

"UN GOLPE CONSISTE NELL'INFILTRARE UN SEGMENTO ANCHE PICCOLO, MA CRUCIALE, DELL'APPARATO STATALE, CHE POI VERRÀ USATO PER TOGLIERE AL GOVERNO IL CONTROLLO DI TUTTO IL RESTO".


"LA PRIMA CONDIZIONE PRELIMINARE PER UN COLPO DI STATO È LA SEGUENTE: LE CONDIZIONI ECONOMICHE E SOCIALI DEL PAESE BERSAGLIO DEVONO ESSERE TALI DA LIMITARE LA PARTECIPAZIONE POLITICA A UNA PICCOLA FRAZIONE DELLA POPOLAZIONE"

”LA SECONDA CONDIZIONE PRELIMINARE DEL COLPO DI STATO È PER CONSEGUENZA: LO STATO BERSAGLIO DEV'ESSERE SOSTANZIALMENTE INDIPENDENTE E L'INFLUENZA DELLE POTENZE STRANIERE NELLA SUA VITA POLITICA INTERNA DEVE ESSERE IL PIÙ POSSIBILMENTE LIMITATA”.


"SE I BUROCRATI SONO COLLEGATI ALLA LEADERSHIP POLITICA, LA PRESA DI POTERE ILLEGALE DEVE AVERE LA FORMA DI UNA 'RIVOLUZIONE DI PALAZZO', ED ESSENZIALMENTE CONSISTE NELLA MANIPOLAZIONE DELLA PERSONA DEL GOVERNANTE. EGLI PUÒ ESSERE OBBLIGATO AD ACCETTARE POLITICHE E CONSIGLIERI, PUÒ ESSERE UCCISO O TENUTO PRIGIONIERO, MA TUTTO CIÒ CHE ACCADE NELLA RIVOLUZIONE DI PALAZZO DEVE ESSERE CONDOTTO SOLO 'ALL'INTERNO' E DA 'INTERNI'".


"TUTTO IL POTERE, TUTTA LA PARTECIPAZIONE, È NELLE MANI DI UNA PICCOLA ÉLITE ISTRUITA, BENESTANTE E SICURA, E QUINDI RADICALMENTE DIFFERENTE DALLA VASTA MAGGIORNAZA DEI SUOI CONCITTADINI - PRATICAMENTE UNA RAZZA A PARTE".


"NOI VOGLIAMO PRENDERE IL POTERE ALL'INTERNO DEL SISTEMA PRESENTE. [...] NOI DUNQUE AVREMO UN COMPITO DUPLICE: IMPORRE IL NOSTRO CONTROLLO ALLA MACCHINA DELLO STATO E ALLO STESSO TEMPO USARLA PER IMPORRE IL NOSTRO CONTROLLO AL PAESE NEL SUO COMPLESSO".


"SIANO IN UN SISTEMA BIPARTITICO COME NEL MONDO ANGLOSASSONE, DOVE I PARTITI SONO IN REALTÀ COALIZIONI DI GRUPPI D'INTERESSE, SIANO PARTITI BASATI SU VALORI DI CLASSE O RELIGIONE COME NELL'EUROPA CONTINENTALE, I PRINCIPALI PARTITI POLITICI NEGLI STATI EVOLUTI E DEMOCRATICI NON PRESENTANO UNA MINACCIA DIRETTA A UN GOLPE"…...


"IL NOSTRO STRUMENTO SARÀ IL CONTROLLO DEI MEZZI DI COMUNICAZIONE DI MASSA. [...] LE TRASMISSIONI RADIO E TELEVISIVE AVRANNO LO SCOPO NON GIÀ DI FORNIRE INFORMAZIONI SULLA SITUAZIONE, BENSÌ DI CONTROLLARNE GLI SVILUPPI GRAZIE AL NOSTRO MONOPOLIO SUI MEDIA".


"DOBBIAMO FARE OGNI SFORZO PER SOPPRIMERE QUEL GENERE DI NOTIZIE. SE QUALCHE RESISTENZA COMPARE, DOBBIAMO SOTTOLINEARE CON FORZA CHE ESSA VIENE DA 'ISOLATI' OSTINATI INDIVIDUI, MAL INFORMATI O DISONESTI, CHE NON SONO AFFILIATI A NESSUN GRUPPO O PARTITO IMPORTANTE. L'INEVITABILE SOSPETTO CHE IL COLPO DI STATO È OPERA DELLE MACCHINAZIONI DELLA COMPAGNIA (MORGAN – STANLEY ), PUÒ ESSERE STORNATO ATTACCANDOLO VIOLENTEMENTE E L'ATTACCO SARÀ TANTO PIÙ VIOLENTO QUANTO PIÙ QUESTI SOSPETTI SONO GIUSTIFICATI. ETC., ETC., ETC.,

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8 Anni 6 Mesi fa #1825 da Starburst
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Roberto Bartali
Rilettura critica della storia delle br e del rapimento di Aldo Moro

QUARTA PARTE:


Però Morucci - ed è stato confermato più volte anche in Commissione stragi - ha affermato che il suo mitra si inceppò dopo 2 o 3 colpi. Dunque egli non può essere il super killer e probabilmente è anche sbagliata la ricostruzione fatta circa la posizione dei vari brigatisti in Via Fani; se a ciò si aggiunge il fatto che nessuno degli altri membri del commando aveva una preparazione da "commando", la domanda sorge spontanea: ma allora chi era il "Tex Willer" ? I "misteri" sull'azione militare non sono però finiti. In via Fani, dei 93 colpi sparati contro la scorta dell'onorevole Moro, furono raccolti trentanove bossoli sui quali il perito Ugolini, nominato dal giudice Santiapichi nel primo processo Moro, disse quanto segue: " Furono rinvenuti colpi ricoperti da una vernice protettiva che veniva impiegata per assicurare una lunga conservazione al materiale. Inoltre questi bossoli non recano l'indicazione della data di fabbricazione ". In effetti vi era scritto "GFL", Giulio Fiocchi di Lecco, ma il calibro non veniva indicato - come normalmente fanno invece le ditte costruttrici - e nemmeno la data di fabbricazione di quei bossoli. Il perito affermò che " questa procedura di ricopertura di una vernice protettiva veniva usata per garantire la lunga conservazione del materiale. Il fatto che non sia indicata la data di fabbricazione è un tipico modo di operare delle ditte che fabbricano questi prodotti per la fornitura a forze statali militari non convenzionali ". Alla luce di tali rilievi, mi chiedo come sia potuto accadere che in via Fani fossero usati proiettili di questo tipo. In ogni caso, sarebbe interessante sapere come mai questo tipo di proiettili finirono nelle mani delle Brigate rosse e di quel commando che assassinò la scorta di Aldo Moro. Un altro ragionamento poi avvalora la tesi del killer estraneo alle Brigate rosse. Per quale ragione i terroristi del gruppo di fuoco indossavano delle divise dell'ALITALIA? Quello fu effettivamente un accorgimento abbastanza singolare, talmente strano da richiamare l'attenzione dei passanti anziché distoglierla. La spiegazione che viene da trovare risiede nel fatto che forse non tutti i brigatisti del commando si conoscevano fra loro, così la divisa serviva appunto al reciproco riconoscimento, in pratica per non spararsi a vicenda. Una conferma dunque della teoria del Killer "esterno". Ma chi poteva essere questo killer professionista ? Due persone piuttosto ben informate, Renato Curcio e Mino Pecorelli, in merito a tale questione hanno parlato di "occasionali alleati" delle Br; gruppi legati alla delinquenza comune che avrebbero per l'occasione "prestato" alcuni uomini per portare a termine quella strage. E quale luogo migliore delle carceri italiane avrebbe potuto fungere da punto di incontro da due realtà tanto diverse ? E' infatti al loro interno che si parlò molto del sequestro (o comunque di un attentato) di un'alta personalità politica, tanto che il SISMI ne era stato debitamente informato in tempo utile [un detenuto comune, Salvatore Senese, informò il 16 febbraio 1978 appunto il SISMI che le Brigate rosse stavano progettando un simile sequestro]. Il riferimento che Mino Pecorelli fa sul suo giornale "OP" a Renato Curcio non appare quindi casuale, perché proprio lui potrebbe aver rappresentato il tramite ideale fra i suoi compagni liberi e gli ambienti malavitosi ai quali chiedere temporaneo soccorso. Certi indizi puntano direttamente in Calabria. Di questo parere sembra essere oggi anche Francesco Biscione che afferma: " probabilmente allorché Moretti costituì la colonna romana delle Brigate rosse (fine 1975) aveva già rapporti (viaggi in Sicilia e in Calabria) o con settori criminali o con compagni dell'area del partito armato in grado di metterlo in contatto con segmenti del crimine organizzato ". E ricorda tre episodi che potrebbero costituire un serio indizio in tal senso: " La presenza del Moretti è accertata - scrive - a Catania il 12 dicembre 1975 (insieme con Giovanna Currò, probabile copertura di Barbara Balzerani) presso l'hotel Costa e il 15 dicembre presso il Jolly hotel. Il 6 febbraio 1976 Moretti ricomparve nel Mezzogiorno con la sedicente Currò, a Reggio Calabria presso l'hotel Excelsior. Oltre al fatto che non sono mai state chiarite le finalità dei viaggi - prosegue Biscione - questa circostanza sembra possedere un altro motivo di curiosità: i viaggi, o almeno il secondo di essi avvennero all'insaputa del resto dell'organizzazione tant'è che quando l'informazione venne prodotta in sede processuale suscitò lo stupore di altri imputati ". Il terzo è stato rivelato da Gustavo Selva: dopo la conclusione del sequestro di Aldo Moro " nel luglio 1978 venne arrestato il pregiudicato calabrese, Aurelio Aquino, e trovato in possesso di molte banconote segnate dalla polizia perché parte del riscatto del sequestro Costa operato dalle Br ". E' ovvio che con quei soldi le Br potrebbero aver pagato alla 'ndrangheta qualche partita di armi, ma anche il "prestito" di un killer professionista. Il forte sospetto resta dunque intatto. Da valutare, infine, con la dovuta cautela, l'appunto di Mino Pecorelli ritrovato dopo la sua morte fra le sue carte: " Come avviene il contatto Mafia-Br-Cia-Kgb-Mafia. I capi Br risiedono in Calabria. Il capo che ha ordito il rapimento, che ha scritto i primi proclami B.R., è il prof. Franco Piperno, prof. fis. univ. Cosenza "; anche volendo considerare tutto questo una mera illazione si può comunque, in questo caso, concordare con Francesco Biscione che considera come l'appunto si riferisce ad un'ipotesi ricostruttiva che connette gli indizi riguardanti l'esistenza in Calabria di un terminale decisivo, sebbene di incerta definizione, dell'intera operazione del sequestro Moro. In questo modo trova una logica spiegazione la probabile presenza in via Fani di un killer di "alta professionalità", un professionista che il pentito calabrese Saverio Morabito ha indicato in Antonio Nirta, detto "due nasi" per la sua capacità di usare la lupara, anche se alcune testimonianze più recenti puntano invece il dito contro Agostino De Vuono, anch'egli calabrese ed esperto tiratore tutt'oggi latitante; l'incorgnita comunque resta. Le teorie e le supposizioni sul nome del Killer lasciano però il tempo che trovano di fronte ai fatti: quella mattina del 16 Marzo 1978 le Brigate rosse vennero aiutate, e da più parti, a compiere un'azione troppo più grande delle loro capacità. Ed anche Alberto Franceschini continua ad esternare forti dubbi in merito. Ultima particolarità da annotare riguardo alla tragica giornata del 16 Marzo 1978 è una deposizione di Nara Lazzarini, segretaria di Licio Gelli, fatta nel 1985 al processo Pazienza-Musumeci; la Lazzarini ha ricordato infatti che la mattina della strage di Via Fani il Gran Maestro della P2 ricevette la visita di due persone all'Hotel Excelsior di Roma, e durante il colloquio a Gelli sfuggirono le seguenti parole: " Il più è fatto ". Può non voler dire nulla, è però una testimonianza attendibile e come tale la riporto. E' ormai "verità processuale" (il che non vuol dire che sia verità) che Aldo Moro sia stato tenuto prigioniero, per tutti i 55 giorni del sequestro, nell'appartamento all'interno 1 di via Montalcini 8, nel quartiere Portuense, a Roma. Un primo accenno ad una prigione di Moro era comparsa in un fumetto pubblicato all'inizio di giugno del 1979 dal primo numero di "Metropoli", periodico dell'Autonomia operaia. Nel fumetto (disegni di Beppe Madaudo, sceneggiatura di Melville, pseudonimo usato da Rosalinda Socrate) la tavola con l'interrogatorio di Moro era preceduta da una didascalia che diceva: " Mentre a via Fani cominciano le indagini, nella stanza interna di un garage del quartiere Prati comincia l'interrogatorio di Moro ". Interrogato, Madaudo disse di aver ricalcato il disegno da "Grand Hotel". Certo è che in quel fumetto saltavano fuori notizie allora sconosciute, segno evidente che gli ambienti dell'Autonomia non erano poi così male informati. Dopo la versione disegnata, il primo a parlare della prigione dello statista DC è stato il pentito Patrizio Peci, che ha raccontato però di aver appreso che Moro fu tenuto nascosto nel retrobottega di un negozio poco fuori Roma. La versione di Peci venne in seguito smentita da Antonio Savasta, catturato il 28 gennaio 1982 alla fine del rapimento Dozier. Il Savasta cominciò subito a collaborare e disse di aver saputo che Moro venne tenuto prigioniero in un appartamento di proprietà di Anna Laura Braghetti. All'inizio l'attenzione degli inquirenti si concentrò sull'appartamento che era stato del padre in via Laurentina 501, ma poco dopo le indagini si orientarono su via Montalcini, una casa acquistata nel giugno 1977 per 50 milioni circa, e dove Anna Laura Braghetti si era trasferita nel dicembre dello stesso anno. Due anni dopo anche Valerio Morucci e Adriana Faranda hanno confermato che Moro trascorse tutta la sua prigionia nell'appartamento abitato non solo dalla Braghetti ma anche da Prospero Gallinari, e frequentato da Mario Moretti e da - ma lo si è saputo molto dopo - Germano Maccari, il fantomatico "Ingegner Altobelli". Prima cosa bizzarra è il fatto che il 5 luglio 1980 il giudice Ferdinando Imposimato apprese che l'UCIGOS, nell'estate 1978, aveva svolto indagini sulla Braghetti e via Montalcini. L'appunto sulle indagini gli venne consegnato il 30 Luglio, ma era in forma anonima e non conteneva i nomi di chi aveva svolto le indagini. Sempre a tale proposito, nel febbraio 1982 sul quotidiano "La Repubblica" Luca Villoresi scrisse: " Sono passati pochi giorni dalla strage di via Fani quando alla polizia arriva una prima segnalazione, forse una voce generica, forse una soffiata precisa [...] ma all'interno 1 di via Montalcini 8 gli agenti non bussano ". Nel 1988 si venne poi a sapere che verso la metà di luglio 1978, pochi mesi dopo il sequestro, l'avv. Mario Martignetti (che sembra lo avesse saputo da una coppia di suoi parenti) segnalò all'On. Remo Gaspari che una Renault 4 rossa come quella in cui le Br lasciarono il cadavere di Moro era stata vista in via Montalcini 8 nel periodo del rapimento ed era scomparsa dopo la morte di Moro. Gaspari informò il ministro Rognoni il quale attivò le indagini subito affidate all'UCIGOS. In seguito, l'ispettrice dell'UCIGOS incaricata del caso ha riferito che dalle indagini era emerso che, fino al giugno 1978, con la Braghetti abitava un uomo che si faceva chiamare Ingegner Altobelli. L'ispettrice disse anche che, ritenendo che una perquisizione a due mesi dalla morte di Moro avrebbe dato esito negativo e avrebbe insospettito la Braghetti, preferì farla pedinare per cercare di arrivare ad Altobelli o scoprire se frequentava gruppi eversivi. I pedinamenti durarono fino alla metà di Ottobre ma ebbero risultati negativi perché la Braghetti usciva puntualmente per recarsi al lavoro e al ritorno a casa faceva cose normali. Il 16 ottobre 1978, un appunto dell'UCIGOS informò la magistratura che gli inquilini dell'interno 1 non destavano sospetti. I pedinamenti e le richieste di informazioni sul suo posto di lavoro (di cui la Braghetti viene a sapere) spinsero però la terrorista ad entrare in clandestinità e a lasciare (il 4 ottobre '78) l'appartamento, che nel frattempo aveva venduto ad una signora (moglie del segretario particolare dell'ex ministro Ruffini). Nell'agosto 1978 la Braghetti ebbe un'accesa disputa con l'ex inquilino dell'appartamento, Gianfranco Ottaviani, che aveva mantenuto la disponibilità della cantina; la Brigatista scardinò la porta della cantina e l'ex inquilino chiamò immediatamente la polizia. Per una lite banale la brigatista rischiò così un pericoloso intervento della polizia. Ma invece proprio quella lite venne usata dall'UCIGOS per spiegare che la Braghetti e Altobelli, che risultava trasferito in Turchia da qualche mese per motivi di lavoro, non erano sospettabili, perché altrimenti avrebbero evitato la lite con l'intervento del 113. Solo nel 1993 si è arrivati alla vera identità del così detto "quarto uomo", Germano Maccari, che sembra proprio essere quell'ing. Altobelli a cui erano intestate le utenze di luce e gas, come lui stesso ammette nel 1996. Stranamente l'individuazione di Maccari avvenne proprio lo stesso giorno in cui trapelarono dalla stampa le dichiarazioni di Saverio Morabito secondo il quale Antonio Nirta, killer della mafia calabrese e confidente del generale dei carabinieri Francesco Delfino, era stato " uno degli esecutori materiali del sequestro dell'on. Aldo Moro " . Molto interessante mi è parsa una circostanza apparsa nel suo recente libro "Il delitto Moro" da Francesco Biscione, e riguardante il fatto che nelle immediate vicinanze di via Montalcini, a pochi passi dal covo delle Br, abitavano numerosi esponenti della Banda della Magliana. L'elenco è molto dettagliato: " In via G. Fuggetta 59 (a 120 passi da via Montalcini) abitavano Danilo Abbruciati, Amelio Fabiani, Luciano Mancini; in via Luparelli 82 (a 230 passi dalla prigione del popolo) abitavano Danilo Sbarra e Francesco Picciotto (uomo del Boss Pippo Calò); in via Vigna due Torri 135 (a 150 passi) abitava Ernesto Diotallevi, segretario del finanziere P2ista Carboni); infine in via Montalcini al n°1 c'era Villa Bonelli, appartenente a Danilo Sbarra ". In effetti la "Prigione del Popolo" era situata proprio nel quartiere romano della Magliana, una zona notoriamente controllata in modo capillare da quel particolare tipo di malavita collegato, come poi si è saputo con certezza, a settori dei servizi segreti, alla P2 e all'eversione nera. Se davvero Aldo Moro è stato tenuto nel territorio della Banda della Magliana per tutto il periodo del sequestro, appare altamente improbabile che la malavita della zona non ne fosse venuta a conoscenza. Ma lo Stato si stava dando da fare per rintracciare la "Prigione del Popolo"? Ad un osservatore inesperto i numeri sembrerebbero dire di si. Dalla relazione della Commissione Moro emerge che dal 16 marzo al 10 maggio '78 vennero attuati 72.460 posti di blocco di cui 6.296 nella sola Roma; effettuate 37.702 perquisizioni domiciliari di cui 6.933 nelle case dei cittadini della capitale; controllate 6.413.713 persone (cioè circa un italiano ogni 10) impegnando ogni giorno 13.000 uomini delle forze dell'ordine con l'ausilio di 2.600 automezzi. Questa enorme mobilitazione non portò apparentemente a nulla, anzi, nel periodo del rapimento Moro le Br commisero 2 omicidi, 6 ferimenti, 5 incendi di auto ed un attentato contro una caserma dei Carabinieri. Come ha affermato il Procuratore generale di Roma Pascalino: «Tante volte si fanno azioni dimostrative per tranquillizzare la popolazione [...] non posso spiegarlo, non sta a me spiegare perchè si prferì fare operazioni di parata anzichè ricerche. E in quei giorni si fecero operazioni di parata». Però non ho usato il termine "apparentemente" a caso: nonostante tutto le forze di polizia il 3 aprile '78 era riuscita a fermare o individuare molti personaggi legati o vicini alle Br. tanto per fare alcuni nomi importanti si potrebbero citare Valerio Morucci, Adriana Faranda, Bruno Seghetti. Incredibilmente però queste operazioni di controllo non ebbero alcun seguito di indagine. Per quanto riguarda la gestione del rapimento, il campo si ristringe, diminuiscono drasticamente le prove e di contro aumenta il numero di indizi e deduzioni logiche possibili.

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QUINTA PARTE :


Due avvenimenti accaduti il 18 aprile segnarono a mio avviso gli sviluppi successivi del rapimento proprio in questa direzione: la misteriosa scoperta del covo di via Gradoli ed il quasi contemporaneo ritrovamento del falso comunicato n°7. La scoperta di una base delle Br in Via Gradoli avvenne in un modo casuale ma alquanto strano: i pompieri furono chiamati dagli inquilini dei piani inferiori per una perdita d'acqua dall'appartamento dove andava a dormire il leader delle Br, Mario Moretti (colui che interrogò Aldo Moro). L'ipotesi che ho cercato di avvalorare - come sempre tra mille difficoltà e poche prove certe - è che quel covo, sia stato "bruciato" da qualcuno [servizi segreti? Un infiltrato? Oppure dei brigatisti contrari all'uccisione di Moro?] grazie al trucchetto della doccia rivolta verso il muro per permettere a chi di dovere di recuperare le carte di Moro riguardanti la P2, Gladio e tutto ciò che era probabilmente contenuto nelle sue borse scomparse nonché le confessioni fatte dal presidente alle Br. Un'altra teoria riguarda il fatto che la scoperta del covo di via Gradoli fu in qualche modo pilotata dallo stesso Moretti per indurre un certo stato d?animo nell'organizzazione, per forzare la mano con i propri compagni e farli convincere che non c'era più tempo. Comunque sia, il tutto venne fatto in modo assai rumoroso per permettere agli inquilini di essere informati per tempo dalla TV e poter così continuare a gestire il rapimento. Serviva però un diversivo, qualcosa che distogliesse l'attenzione generale dal covo; ecco che lo stesso giorno "qualcuno" fece ritrovare il falso comunicato N°7, quello dove si sosteneva che il cadavere di Aldo Moro si trovava in fondo al Lago della Duchessa. Allo stesso tempo questa doppia operazione ha probabilmente segnato in modo decisivo il rapimento, nel senso che questo era un chiaro avvertimento rivolto alle stesse Br: "Guardate che possiamo prendervi quando vogliamo, che non vi venga in mente di far concludere il sequestro in un modo differente da quello indicato dal falso comunicato perché potreste pagarlo caro...". Dunque mentre il comunicato arrivava al Viminale, i vigili del fuoco arrivavano in via Gradoli: le due messinscene che procedettero in perfetta sincronia, due "sollecitazioni" fatte affinché il sequestro si concludesse rapidamente e nella maniera più idonea. Nello stesso comunicato - oltre a suggerire ai brigatisti quale fosse l'epilogo più opportuno del rapimento - si trovano infatti dei precisi "segnali" che dovevano indirizzare le Br in tale direzione, come l'accenno alla morte di Moro mediante suicidio, proprio come era accaduto ai capi della RAF in Germania nel carcere di Stammheim. Non è affatto credibile poi che l'appartamento di Via Gradoli 96 sia stato lasciato da Moretti e Barbara Balzerani nelle condizioni in cui è stato descritto nei verbali della polizia: bombe a mano sparse sul pavimento, un cassetto messo in bella mostra sul letto e contenente una pistola mitragliatrice, documenti e volantini disseminati ovunque [proprio come se qualcuno avesse messo sottosopra il covo per cercare qualcosa...]. E pare perfino incredibile che le forze dell'ordine si siano comportate in un modo così "rumoroso" (volanti giunsero a sirene spiegate e immediatamente si formò una piccola folla di curiosi e giornalisti) subito dopo la scoperta del covo, quando invece dopo il ritrovamento della base di Robbiano di Mediglia avevano atteso con la massima discrezione il rientro dei terroristi arrestandoli uno dopo l'altro. A mio avviso, l'occulta regia della duplice manovra del 18 Aprile poté procedere liberamente all'interno del covo predisponendo una messinscena, allo stesso tempo diffuse un comunicato falso ma "tecnicamente" verosimile, chiaro segnale di una perfetta conoscenza dei retroscena del sequestro e di come le Br e Moretti lo stessero conducendo. Appare comunque quantomeno bizzarra anche la scelta (effettuata da Moretti nel 1975) di Via Gradoli come luogo adatto a stabilirvi un covo delle Br, e non un covo qualsiasi, ma il primo e principale punto di riferimento dei brigatisti a Roma, abitato nell'ordine da Franco Bonisoli, Carla Brioschi, Valerio Morucci, Adriana Faranda, Mario Moretti e Barbara Balzerani ma noto anche ad altri brigatisti. La bizzarria risiede nel fatto che via Gradoli era una strada stretta e circolare, lunga seicento metri e con un solo accesso-uscita sulla via cassia; dopo un breve tratto rettilineo di appena cento metri la strada disegnava un circuito di mezzo chilometro e ritornava al breve tratto "obbligatorio", dal quale si poteva agevolmente controllare gli spostamenti di tutti gli abitanti della via, l'esatto opposto, dunque, delle normali cautele adottate normalmente dai brigatisti. Caso vuole poi che al n° 89 di via Gradoli, nell'edificio che fronteggiava - dalla parte opposta della strada - il civico 96 con il covo delle Br, abitava il sottufficiale dei Carabinieri Arcangelo Montani, agente del SISMI. Ma i servizi segreti non si limitavano solamente a controllare la via, via avevano addirittura stabilito un proprio ufficio; di questo un ex militante di Potere operaio aveva avvisato le Br, ma esse, una volta localizzato con precisione quell'ufficio, decisero incredibilmente di mantenere ugualmente il covo in quella strada. Tornando ai giorni del rapimento, una delle possibili implicazioni logiche che la scoperta "accidentale" del covo comportò fu quella di far diventare anche la prigione di via Montalcini piuttosto insicura, dunque è possibile - anzi, assai probabile - che Moro sia stato portato velocemente in un altro covo-prigione. Le carte di Moro all'interno del covo "bruciato" furono forse ritrovate, ma probabilmente non nella loro totalità, e la cosa dovette suscitare le ire degli interessati, tant'è vero che - ma qui forse le mie ipotesi diventano troppo fantasiose - chi nel corso degli anni ne è stato probabilmente in possesso è stato in qualche modo eliminato (Pecorelli e Dalla Chiesa, tanto per fare due nomi). Con il duplice messaggio del 18 Aprile, rivolto chiaramente al vertice Br, la gestione del sequestro entrò in una nuova fase; non c'era altro tempo, le Brigate rosse non avevano più la possibilità di proseguire la "campagna di primavera" da loro progettata ma dovevano piegarsi a delle volontà indiscutibilmente superiori: apparati "deviati" dello stato ed il loro occasionale "braccio destro", la "Banda della Magliana" cui apparteneva Chichiarelli. Come vedremo, molti indizi ci indirizzano proprio in questo sentiero. Ma esiste un'altra ipotesi da valutare. Come sostenuto dal recente volume 'Il Misterioso intermediario' di Fasanella e Rocca: "A lasciare aperta la doccia potrebbe essere stato lo stesso Moretti. E usando la logica capovolta, che spiega molti episodi di queste trame occulte, se ne può comprendere anche il perché. Il capo brigatista si era impossessato della gestione del sequestro, esautorando di fatto i compagni. Forse voleva che ai militanti giungesse il messaggio che a Roma non c'era più nessun nascondiglio sicuro, visto che era stata scoperta perfino la base del capo; e che di conseguenza, bisognava affrettarsi a portare Moro fuori città". Ma se il 18 Aprile '78 fu la data dalla quale cambiò materialmente la gestione del rapimento, il momento in cui venne presa - e da più parti - la decisione di intervenirvi direttamente fu con ogni probabilità immediatamente successiva, e precisamente quando venne resa nota la prima lettera di Moro a Cossiga, in cui sollecitava la trattativa con le Br invocando la ragion di stato e non motivi umanitari. Quella lettera doveva restare segreta e nelle intenzioni di Moro doveva servire ad aprire un canale diretto per la trattativa. Invece Mario Moretti la allegò al comunicato numero 3 delle Br, in cui si annunciava che il processo a Moro stava continuando " con la piena collaborazione del prigioniero ", e la fece recapitare ai giornali. A quel punto probabilmente si attivarono molti servizi segreti: quelli occidentali per proteggere gli eventuali segreti rivelati da Moro, quelli orientali per carpirli. I primi promettendo salvacondotti ai brigatisti; i secondi aiuti e appoggi alla rivoluzione. Una conferma che la base Br di Via Gradoli 96 - "centrale operativa" del sequestro Moro - fosse nota a molti si ebbe pochi giorni dopo il rapimento di Moro, quando cinque agenti del commissariato "Flaminio Nuovo", guidati dal maresciallo Domenico Merola perquisirono appunto gli appartamenti di via Gradoli 96. Durante il primo processo, Merola racconta che l'ordine era venuto, la sera prima dell'operazione, dal commissario Guido Costa. " Non mi fu dato l'ordine di perquisire le case. - dice il maresciallo ai giudici - era solo un'operazione di controllo durante la quale furono identificati numerosi inquilini, mentre molti appartamenti furono trovati al momento senza abitanti e quindi, non avendo l'autorizzazione di forzare le porte, li lasciammo stare, limitandoci a chiedere informazioni ai vicini. L'interno 11 fu uno degli appartamenti in cui non trovammo alcuno. Una signora che abitava sullo stesso piano ci disse che li' viveva una persona distinta, forse un rappresentante, che usciva la mattina e tornava la sera tardi ". " Fui io a disporre i controlli dei mini appartamenti della zona - conferma il vice questore Guido Costa - in seguito ad un ordine impartito dal questore, che allora era Emanuele De Francesco. L'esito dell'operazione fu negativo ". La data della mancata perquisizione del covo è il 18 marzo 1978, due giorni dopo il rapimento, almeno secondo la relazione informativa scritta da Merola e consegnata da De Francesco ai giudici solo nel 1982, perché fino a quel momento non era stato possibile trovarla. Nell'estate del 1978, il giornalista Sandro Acciari scrisse sul "Corriere della sera" che tra il 16 e il 17 marzo, alla segreteria del ministero dell'Interno era arrivata una segnalazione anonima dell'esistenza di un covo delle Br in via Gradoli e che il ministro Cossiga aveva incaricato il capo della polizia Parlato di disporre perquisizioni nella zona. Parlato, interrogato dal giudice Achille Gallucci aveva smentito questo fatto. Nel 1982, al processo, Acciari disse di aver appreso la notizia, a livello di indiscrezione, negli ambienti del palazzo di giustizia, e di avere avuto conferma da Luigi Zanda, all'epoca addetto stampa del ministro dell'Interno Cossiga. Acciari ha precisato però di aver saputo in seguito dallo stesso Zanda che nella loro conversazione telefonica ci fu un equivoco, perché Zanda credeva che Acciari si riferisse alla vicenda della seduta spiritica in cui emerse il nome "Gradoli". Anche il giornalista Mino Pecorelli, ucciso un anno dopo in circostanze ancora oscure, e anche lui presente nelle liste della P2, scrisse sul numero del 25 aprile 1978 del suo settimanale "OP": " Nei primi dieci giorni dopo il sequestro di Moro, in seguito ad una soffiata preziosa, via Gradoli e in modo speciale lo stabile numero 96 erano stati visitati ben due volte da squadre di polizia. Ma davanti alle porte degli appartamenti trovati disabitati, i poliziotti avevano desistito. Avevano bussato doverosamente anche alla porte dell'appartamentino-covo e non ricevendo l'invito ad entrare se n'erano andati ". Prima di procedere oltre mi preme sottolineare quanto affermato da Flamigni sulle fonti di Pecorelli (già affiliato alla P2 ma ai tempi del rapimento 'dissociato'): "la rete informativa e le fonti di Pecorelli durante i 55 giorni del sequestro Moro risulteranno documentate dalle agende del giornalista. Vi erano annotati contatti, telefonate e incontri [...] soprattutto con appartenenti ai servizi segreti: dal P2ista Umberto D'Amato (esperto di intelligence, consigliere del ministro dell'interno e capo della Polizia), a Vito Miceli (ex capo del SID, affiliato alla P2) dal generale Maletti (P2) al capitano Labruna (P2) al capitano d'Ovidio (P2)". Ma c'erano anche incotri con i magistrati Infelisi e DeMatteo, con avvocati, con politici di varie forze politiche, con il venerabile maestro Licio Gelli. Le informazioni a sua disposizione erano dunque sempre di primissima mano. Tra le vicende inusuali accadute durante i 55 giorni del rapimento Moro è da menzionare - se non altro per il nome dei presenti - anche quella del 2 aprile 1978. Nella casa di campagna di Alberto Clò a Zappolino, alle porte di Bologna, si riunì un gruppo di professori universitari con tanto di mogli e bambini. Erano presenti l'ex presidente del Consiglio Romano Prodi con la moglie Flavia, Alberto, Adriana, Carlo e Licia Clò, Mario Baldassarri e la moglie Gabriella, Francesco Bernardi, Emilia Fanciulli. Secondo i racconti, per allentare la noia di una giornata di pioggia, a qualcuno dei partecipanti venne la bizzarra idea di tenere una seduta spiritica. I partecipanti avrebbero quindi evocato gli spiriti di don Luigi Sturzo e Giorgio La Pira chiedendo loro dove si trovasse la prigione di Aldo Moro. Gli spiriti - incredibilmente - formarono le parole Bolsena-Viterbo-Gradoli e indicarono anche il numero 96. Secondo i racconti dei partecipanti, fu proprio il terzo nome ad incuriosirli, tanto da prendere un atlante per controllare se esistesse una località chiamata Gradoli. Il 4 aprile, a Roma per un convegno, Prodi parlò di questa indicazione a Umberto Cavina, capo ufficio stampa della DC, che la trasmise a Luigi Zanda, addetto stampa del ministro dell'Interno, il quale fece un appunto per il capo della polizia, Giuseppe Parlato. Parlato ordinò di perquisire la zona lungo la statale 74, nel piccolo tratto in provincia di Viterbo, in località Gradoli, casa isolata con cantina. Il rastrellamento della zona viene effettuato il 6 aprile, senza risultati. Nel luglio 1982, al processo, Eleonora Moro, moglie di Aldo Moro, ha raccontato che, quando venne a sapere della seduta spiritica (in quell'occasione, la signora Moro dice però che l'indicazione Gradoli venne fuori " due o tre giorni dopo il rapimento " e questo contrasta con la data indicata per la seduta spiritica), riferì " la cosa all'on. Cossiga e ad un funzionario che credo fosse il capo, il responsabile delle indagini, ma non ricordo come si chiamasse. Chiesi loro - continua la signora Moro - se erano sicuri che a Roma non esistesse una via Gradoli e perché avessero pensato subito, invece, al paese Gradoli. Mi risposero che una tale via non c'era sulle pagine gialle della città. Ma quando se ne andarono da casa, io stessa volli controllare l'elenco e trovai l'indicazione della strada. In seguito mi dissero che erano stati a vedere in quella zona, ma avevano trovato solo alcuni appartamenti chiusi. Si giustificarono dicendo che non potevano sfondare le porte di ogni casa della strada ". Il giorno dopo Giovanni Moro, figlio di Aldo, conferma che fu Cossiga a sostenere che via Gradoli non esisteva nello stradario di Roma. Cossiga ha però escluso di essere lui la persona che negò l'esistenza di via Gradoli. Nel 1995, la relazione sulle stragi e il terrorismo presentata dal presidente della commissione parlamentare Giovanni Pellegrino sostenne che l'indicazione di Gradoli era filtrato negli ambienti dell'Autonomia bolognese e il riferimento alla seduta spiritica non era altro che un trasparente espediente di copertura della fonte informativa.

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SESTA PARTE:


A parziale conferma di ciò sta anche la testimonianza di Giulio Andreotti che, davanti alla Commissione, ha detto: " non credo alla storia di Gradoli a cui si arrivò con la seduta spiritica. Quell'indicazione venne dall'Autonomia operaia di Bologna. Non lo si disse per non dover inguaiare qualcuno ". Pochi giorni dopo, Bettino Craxi intervenne sul caso Moro sostenendo che " nessuno può credere alla tesi della seduta spiritica dal momento che le notizie su via Gradoli si seppero da ambienti legati strettamente all'organizzazione terroristica. Gli stessi che ci diedero notizie anche di via Montalcini ". " Gradoli - ha confermato in quei giorni l'avv. Giancarlo Ghidoni, difensore di molti esponenti dell'autonomia bolognese - era una parola che nell'ambiente di Autonomia Operaia si sussurrava. L'organizzazione all'epoca del sequestro Moro premeva perché lo statista non fosse ucciso e fosse liberato. L'Autonomia era molto preoccupata, voleva che cessassero certe attività, convinta che il fucile stesse sopravanzando la testa, e che certe cose andassero a danno della sinistra rivoluzionaria [...] Una persona, di cui non posso ovviamente rivelare il nome, mi disse: "Hanno detto che Moro è a Gradoli. Intendeva proprio il paesino del viterbese dove andarono a cercare Moro, non la via romana con lo stesso nome. Evidentemente le informazioni che aveva erano parziali" ". Infine, da una nota della DIGOS del 19 agosto 1978, che riprende un appunto precedente dell'UCIGOS, risulta che via Gradoli era sotto controllo già in epoca precedente al sequestro Moro per la segnalazione nella strada della ripetuta presenza di un furgone Volkswagen di proprietà di Giulio De Petra, militante di Potere Operaio, il cui numero telefonico era nell'agenda di Morucci. Le cose non devono però sorprendere; in effetti Valerio Morucci era ritenuto un valido appoggio "militare" da parte di tutte l'ala dura dell'ormai disciolto Potere Operaio, pochi però sanno che egli agiva d'intesa con Piperno e Pace svolgendo il ruolo di cerniera tra le Br e l'Autonomia nell'ambito della progettata unificazione di tutte le organizzazioni armate, al fine di rendere praticabile " l'irlandizzazione della capitale ". Nel 1997 l'on. Enzo Fragalà, chiedendo l'audizione di Prodi in commissione parlamentare d'inchiesta sulle stragi e il terrorismo, ha detto: " in via Gradoli vi erano quattro interni 11, due civici 96 con due scale ciascuna. Vi furono indicazioni diverse fra DIGOS e commissariato Flaminio Nuovo sulle scale da perquisire; vi sono legami di società intestatarie di alcuni interni 11 e altre società collegate con il ministero dell'Interno e con il Sisde; all'interno del covo Br fu ritrovato il numero di telefono dell'immobiliare Savellia, società di copertura del Sisde; perché non si é indagato sui mini-appartamenti di via Gradoli 96 e 75 intestati all'ex capo della polizia Parisi e sui rapporti tra Domenico Catracchia, già amministratore del palazzo, e lo stesso Parisi ? ". All'Immobiliare "Savellia" era intestato anche un palazzo in via di Monte Savello (vicino al ghetto ebraico e a via Caetani), di cui c'erano tracce in un appunto di Moretti. L'8 marzo 1998, l'ex deputato socialista Falco Accame, criticando la mancata attuazione del "piano Paters", segnalò l'appartamento di via Gradoli come riconducibile alla società immobiliare Savellia, società di copertura del SISDE. Secondo Accame, come per Fragalà, " i mini appartamenti di via Gradoli, numeri 96 e 75, erano intestati all'ex capo di polizia ". Attualmente l'Immobiliare Savellia risulta di proprietà del Sovrano Ordine di Malta. In Via Gradoli i servizi segreti italiani disponevano però anche di un ufficio; la cosa venne riferita alle Br da un'ex militante di Potere Operaio, ma nonostante questo, i brigatisti decisero di mantenere ugualmente il loro covo in quella strada, in barba a qualsiasi legge della logica e della sicurezza (tanto più che nella stessa via Gradoli c'era anche un covo frequentato da estremisti di destra) 46. Anche questo fatto risulta essere piuttosto strano. C'è però un'altra pista da seguire: c'era qualcuno che all'interno delle Brigate rosse riteneva talmente sbagliata l'operazione in progetto da tentare di farla fallire avvertendo in anticipo le forze istituzionali ? Un'ipotesi da fare è che all'interno delle Brigate rosse vi fosse un partito della trattativa che mirava alla salvezza della vita di Moro e che questo gruppo, oltre a discutere per tentare di far maggioranza sulla propria opinione, abbia messo addirittura lo Stato sulle tracce, per esempio, del covo di via Gradoli. Infatti, scoprire quel covo avrebbe significato arrivare subito a Moretti. Ed a via Gradoli fu mandata per ben tre volte la Polizia ed addirittura fu fatta arrivare a Prodi ed a Clò l'indicazione "Gradoli", che poi fu mistificata con la famosa seduta spiritica di cui tutti sappiamo. E' vero che vi era questo partito della trattativa (altrimenti detto "ala Movimentista") all'interno delle Brigate rosse il quale, ritenendo politicamente disastrosa l'uccisione di Moro, tentò in tutti i modi di far scoprire il covo di via Gradoli, alla fine addirittura col telefono della doccia in cima ad un manico di scopa messo contro il muro per far allagare l'appartamento di modo che, visto che non se ne poteva più di uno Stato che non riusciva a scoprire il covo, fossero almeno i pompieri ad arrivarvi, trovando sul muro steso il drappo delle Brigate rosse e sul tavolo tutte le armi affinché fosse chiarissima l'indicazione che si trattava proprio di un covo dei terroristi? E' bene ricordare che la porta del covo non era stata scassinata e inoltre che per motivi di sicurezza, era abitudine dei brigatisti non avere più di due chiavi di ogni covo, dunque siccome Via Gradoli 96 era in quel periodo frequentata solo da Moretti e da Barbara Balzerani, è logico supporre che solamente loro avessero le chiavi. Questa spiegazione è supportata - ovviamente - dalla Faranda, cioè da colei che (assieme a Morucci) potrebbe essere l'artefice di un tale piano essendo il duo notoriamente contro un epilogo tragico del rapimento Moro. Dagli atti del processo "Metropoli" traspare (a mio avviso perfino in modo un pò eccessivo) che Morucci e Faranda erano pedine in mano a Piperno, leader dell'Autonomia, e guarda caso è proprio dalle file dell'Autonomia che provenivano tutti i "messaggi" a favore degli inquirenti (da quello di Radio città futura a quello emerso nella seduta spiritica di Prodi). Dunque Morucci e la Faranda, nel periodo di circa due mesi in cui lo avevano abitato, avevano fatto delle copie della chiave che apriva il covo di Via Gradoli ? Furono loro ad architettare il tutto ? E' una possibilità, è in quanto tale la riporto, però oggettivamente non mi sento di dargli troppo peso, anche e soprattutto in considerazione della "coincidenza" temporale con il ritrovamento del falso comunicato n° 7, vero punto di svolta del sequestro. A dire il vero c'è un'altra possibilità, cioè che effettivamente il nome Gradoli sia stato fatto saltar fuori proprio come riferimento al paesino di Gradoli -sito nella zona di Bolsena- e poi effettivamente rastrellato da circa 2000 agenti, perché l'operazione di polizia in quel paese serviva a dare l'allarme agli occupanti di via Gradoli che, infatti, dopo poco abbandonarono il covo. A questa ipotesi mi sento di rispondere che in questo caso i brigatisti avrebbero certamente evitato di abbandonare il covo con tutto il materiale che vi è stato poi ritrovato, armi e documenti in primis, e poi la perquisizione del paesino è un pò troppo antecedente. A questo punto sorge però spontanea un'altra domanda: a Moretti e alla Balzerani deve aver fatto piuttosto paura sentire che la polizia stava perlustrando un posto con lo stesso nome della via ove si recavano a dormire, questo però solo usando la logica, una logica che gli avrebbe dovuto suggerire di abbandonare velocemente quel covo, un logica che invece non li ha guidati, se è vero com'è vero che i due brigatisti hanno dormito in quell'appartamento fino alla sera precedente la sua scoperta. Come potevano essere sicuri che la polizia non sarebbe arrivata e avrebbe messo sotto sopra anche la Via Gradoli dopo il paesino Gradoli del Viterbese ? Fu incoscenza o certezza ? L'8 maggio 1978, alla vigilia dell'uccisione di Aldo Moro: il Corriere della Sera pubblicò in prima pagina un articolo, firmato da Sandro Acciari e Andrea Purgatori, che parlava di elenchi trovati nel covo Br di via Gradoli, scoperto il 18 aprile. Gli elenchi di cui si parlava sarebbero stati due: uno contenente nomi di politici, militari, industriali e funzionari di enti pubblici, l'altro di esponenti della DC a livello regionale, provinciale e comunale. L'articolo rendeva noti anche alcuni dei nomi contenuti nel primo elenco: Loris Corbi, Beniamino Finocchiaro, Michele Principe, Publio Fiori. Del secondo elenco era citato solo Girolamo Mechelli (ferito in un attentato il 26 aprile 1978), la cui presenza nelle liste venne però smentita dalla DIGOS, che così confermò implicitamente l'esistenza degli elenchi. Il giorno dopo, il 9 maggio, mentre tutti i giornali si occupavano della vicenda, il Corriere della sera pubblicò un altro articolo sullo stesso argomento e vennero fatti anche i nomi di Gustavo Selva e dell'on. Giacomo Sedati (DC). Il 10 maggio i giornali furono completamente occupati dalla notizia dell'avvenuta uccisione di Moro, verificatasi il 9, e quindi la serie di rivelazioni si interruppe. Naturalmente questi elenchi, trovati in un covo Br, vennero ritenuti una "schedatura" di potenziali vittime di attentati, un'ipotesi rafforzata dal fatto che Fiori era già stato ferito in un agguato, il 2 novembre 1977. Nel 1978 però erano ancora sconosciuti gli elenchi dei presunti iscritti alla P2 [ poi trovati dalla Guardia di Finanza a Castiglion Fibocchi nel 1981 ] e nessuno poteva far caso ad un qualsiasi legame esistente tra quei nomi. Solo adesso possiamo notare infatti che, a parte Sedati, i nomi delle altre cinque persone (su sei), Corbi, Principe, Finocchiaro, Fiori e Selva comparivano anche nelle liste della P2, composta, in effetti, soprattutto da politici, militari, industriali e funzionari di enti pubblici, come l'elenco trovato in via Gradoli. E' una coincidenza un po' strana, soprattutto se si pensa che la stessa mattina del 18 aprile, giorno della scoperta del covo di via Gradoli, "qualcuno" architettò il falso comunicato del lago della Duchessa. Il falso comunicato, preparato da Toni Chichiarelli (falsario legato alla banda della Magliana) e tutto ciò che logicamente ne sarebbe seguito, sembra dunque essere stato organizzato anche per distrarre l'attenzione generale dal materiale ritrovato in via Gradoli. Se però questo materiale si trovava in via Gradoli insieme ad un elenco di iscritti e funzionari locali della DC, è probabile che provenisse da quelle famose borse di Moro che sembrano non esser mai state ritrovate (i brigatisti - o meglio Gallinari che ne fu incaricato - hanno detto di aver bruciato tutte le carte di Moro) e che poteva contenere informazioni su apparati dei servizi segreti paralleli e altre organizzazioni di sicurezza allora sconosciute (Gladio, P2, ecc...). Assolutamente incredibile - anche a detta della Commissione Moro - fu poi il ritardo con il quale venne studiato il materiale ritrovato all'interno del covo di Via Gradoli: un'analisi attenta avrebbe infatti permesso alle forze di polizia di arrivare facilmente alla tipografia Triaca di Via Foà, ove le Br stampavano tutto il loro materiale e dove lo stesso Moretti spesso passava. Le forze di pubblica sicurezza giunsero all'individuazione della tipografia soltanto dopo la conclusione del rapimento di Aldo Moro. Obbligatorio adesso fare un excursus sulla figura del falsario Toni Chichiarelli, colui che scrisse il falso comunicato n°7, ed a questo proposito nulla mi è sembrato meglio delle parole con cui il defunto On. Cipriani argomentò le sue scoperte di fronte alla Commissione Parlamentare: " Toni Chichiarelli è un personaggio romano legato alla banda della Magliana, con tutto ciò che ne consegue: conosciamo infatti i collegamenti della banda della Magliana con la mafia, con la destra eversiva e con i servizi segreti, in particolare con la persona del generale Santovito che guarda caso faceva parte di uno dei comitati di crisi. Toni Chichiarelli era anche in contatto con un informatore, un agente del Sisde, tale Dal Bello, un personaggio di crocevia anche con la malavita romana, con i servizi segreti e la banda della Magliana. Toni Chichiarelli interviene nella vicenda Moro dimostrando di essere un personaggio assai addentro alla vicenda stessa (questo è quanto scrive il giudice Monastero che ha condotto l'istruttoria sull'assassinio di Toni Chichiarelli), come dimostrano due episodi. Il primo, che è stato chiarito, è il seguente: Toni Chichiarelli è l'autore del comunicato n.7, il falso comunicato del Lago della Duchessa;
ed è anche l'autore del comunicato n.1 in codice, firmato Brigate rosse-cellula Roma sud. Toni Chichiarelli fece trovare un borsello su un taxi, all'interno di questo borsello erano contenuti alcuni oggetti che facevano capire che lui conosceva dal di dentro la vicenda Moro. Fece trovare infatti nove proiettili calibro 7,65 Nato, una pistola Beretta calibro 9 (e si sa che Moro è stato ucciso da undici colpi, dieci di calibro 7,65 e uno di calibro nove); fece trovare dei fazzoletti di carta marca Paloma, gli stessi che furono trovati sul cadavere di Moro per tamponare le ferite; fece trovare quindi una serie di messaggi in codice, e una serie di indirizzi romani sottolineati; fece trovare dei medicinali e anche un pacchetto di sigarette, quelle che normalmente fumava l'onorevole Moro; inoltre un messaggio con le copie di schede di cui farà ritrovare poi l'originale in un secondo episodio. Vi è un secondo aspetto.....segue

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8 Anni 6 Mesi fa #1916 da Giano
Risposta da Giano al topic La storia nascosta
Articolo interessante, il moderatore mi dice che può stare su questo forum.


STORIA E COMPRENSIONE DEL MONDO
di Pierluigi Fagan

"Il Mondo si è presentato di recente alla nostra attenzione. Nel passato, molte forme di riflessione hanno avuto il Mondo ad oggetto ma, in una prospettiva più ampia, si sono poi rivelate proiezioni di un locale ad universale, una forma induttiva scarsamente fondata. Il “cosmo” dei Greci, il paese del centro 中国 (Zhōngguó) che è sotto il “Cielo” (天, Tiān) per i cinesi, erano proiezioni di questo tipo, proiezioni il cui proiettore era precisamente posizionato sulla superficie di questo “mondo” che poi si è rivelato una sfera. Va de sé che la pretesa di essere centro di qualcosa, stando sulla superficie di una sfera, sia infondata. Eppure, di nuovo, l’autocomprensione che gli europei hanno sviluppato a partire dal 1492, è proprio una complessa e ben infondata convinzione proprio del loro ruolo “speciale”. Questa convinzione si è poi trasferita al sistema occidentale o atlantico (Europa + Nord America) ed avvolgendo il Mondo con una rete di mercati, colonie, istituzioni locali e mondiali sempre nelle loro ben salde mani, gli europei prima e gli occidentali poi, hanno tentato di convincere il Mondo che loro ne fossero il centro. Di questo sistema di pensiero è parte fondante la narrazione storica perché in tutti i sistemi ideologici, l’interpretazione del mondo è ben più importante del mondo in quanto tale.
Accade però che, negli ultimi anni, prima si è scoperta ed appresa empiricamente la vastità e varietà della sfera, processo nato proprio dal periodo della Grandi navigazioni partito alla fine del XV° secolo, poi si sono sperimentate varie forme di interrelazioni con altri presunti centri e la pluralità dissolve con la sua stessa presenza percepita la pretesa di singolarità. Infine, percezioni (esperienze concrete) confortate da dati, hanno reso esplicito che i centri sono tanti, sono interdipendenti, sono relativi e il centro occidentale, tra l’altro, non è quanti-qualitativamente poi così massivo e soprattutto è oggi in una parabola di contrazione relativa all’espansione degli altri centri. In sede storica, ci si è posti allora il problema di come trasformare i paradigmi dello sguardo specifico (lo sguardo storico ovvero lo sguardo su i
fatti e gli eventi di uno spazio-tempo) per meglio allineare l’immagine del mondo al Mondo. Ne sta conseguendo una distruzione creatrice che abbandona progressivamente le forme epistemiche della storia otto – novecentesca e crea (sarebbe meglio dire “propone” perché si è ancora nella fase costruttiva della disciplina) una nuova forma di sguardo. Abbastanza chiaro il versante del “da cosa dobbiamo emanciparci” cioè il versante critico dell’eurocentrismo e dei suoi collaterali epistemici, ancora non ben definito il “di quali metodi e forme dobbiamo dotarci” sul versante costruttivo. Questo sguardo in transizione che ha per oggetto il mondo nella sua complessità sferica, si chiama World history.
(...)"
Continua qui: pierluigifagan.wordpress.com/2016/02/02/...prensione-del-mondo/
I seguenti utenti hanno detto grazie : Starburst

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8 Anni 6 Mesi fa #1941 da Starburst
Risposta da Starburst al topic La storia nascosta
Roberto Bartali
Rilettura critica della storia delle br e del rapimento di Aldo Moro

SETTIMA PARTE:


Dopo la rapina della Securmark, ad opera della banda della Magliana con Toni Chichiarelli come mente direttiva, quest'ultimo fa trovare - lo scrive il giudice Monastero - una busta contenente un altro messaggio con gli originali di quattro schede riguardanti l'on. Ingrao ed altri personaggi. Questa volta, come dicevo, ci sono gli originali: si tratta di schede relative ad azioni che erano state programmate e previste; fa trovare però anche un volantino falso di rivendicazione delle Brigate rosse. Il giudice poi scrive: "Si rinveniva una foto Polaroid dell'onorevole Moro apparentemente scattata durante il sequestro". Viene eseguita una perizia di questa foto, e si rileva che non si tratta di un fotomontaggio. Come sappiamo, delle Polaroid non si fanno i negativi; è quindi una foto originale di Moro in prigione che Chichiarelli, dopo l'episodio del borsello, fa ritrovare in questo secondo messaggio, con le schede originali che riguardano Pietro Ingrao, Gallucci, il giornalista Mino Pecorelli, che sarà in seguito ucciso, e l'avvocato Prisco ". Anche volendo ignorare buona parte delle coincidenze riscontrate e tutte le deduzioni fattibili, resta intatta una domanda: come mai ad un certo punto del rapimento Moro si iniziano a trovare tracce che portano direttamente alla Banda della Magliana ? Il bello è che la pista legata a questa feroce banda romana non si esaurisce, ma riguarda anche la morte di Aldo Moro. Ai miei occhi, infatti, è sempre stata poco credibile la versione raccontata dalle Br secondo la quale Moretti, che aveva discusso con il presidente DC per 55 lunghi giorni, con una freddezza fuori dal normale comunica al prigioniero che verrà liberato, poi gli spara a sangue freddo con due armi differenti perché la prima si inceppa, poi sale sulla Renault rossa e porta il cadavere dello statista fino a Via Caetani, poi non contento va a scrivere il comunicato conclusivo del rapimento. No, riesce veramente difficile credere a questa novella di un Moretti "superuomo". La verità forse è altrove, anche per altri motivi. Vediamo dunque cosa dicono gli appunti di Luigi Cipriani sul come venne ucciso il presidente della Democrazia cristiana: " Degli 11 colpi i primi due [sono stati sparati] col silenziatore, gli altri quando era già morto. Perché questo rituale? Dopo i primi due colpi Moro ha agonizzato per 15 minuti. Solo i primi due colpi hanno lasciato tracce sulla Renault, Moro è stato ucciso in macchina e portato altrove ? ". A conferma dei dubbi evidenziati dai quesiti che si poneva Cipriani, Francesco Biscione ha scritto: "...laddove la comune versione dei brigatisti lasciava trasparire una falla che nasconde verosimilmente una menzogna è nella narrazione delle modalità con cui l'ostaggio sarebbe stato ucciso ". Non è il solo che, a posteriori, si affianca a Luigi Cipriani. Nella sentenza del cosiddetto Moro-quinquies gli stessi magistrati giudicanti non possono esimersi dall'evidenziare il loro scetticismo sulla versione fornita dai brigatisti rossi sottolineando, ad esempio, l'impossibilità da parte dei carcerieri di " ritenere in anticipo che l'on. Moro, chiuso in una cesta da dove poteva avere una discreta percezione della situazione ambientale, non essendo né narcotizzato né imbavagliato, avrebbe continuato remissivamente a tacere senza chiedere aiuto nemmeno lungo il tragitto per le scale fino al box, pur percependo voci come quella della Braghetti. Non si comprende - scrivono ancora i magistrati - come i brigatisti abbiano accettato un simile e gratuito rischio quando avrebbero potuto facilmente evitarlo ad esempio uccidendo l'on. Moro nella sua stessa prigione e trasportandolo poi da morto; ed incredibile sembra il fatto che si sia programmata l'esplosione di una serie di colpi, quanti risultano dalle perizie, in un box che si apriva nel garage comune degli abitanti dello stabile, essendo noto che anche i colpi delle armi silenziate producono rumori apprezzabili che potevano essere facilmente percepiti da persone che si trovassero a passare, così come furono distintamente percepiti dalla Braghetti ". Alle condivisibili considerazioni dei giudici del quinto processo Moro, dobbiamo aggiungere il rilievo che i colpi sparati con il silenziatore furono soltanto due. E gli altri 9, esplosi senza il silenziatore, non li ha avvertiti nessuno? Ne erano così certi i brigatisti rossi Mario Moretti e Germano Maccari ? E, infine, perché lasciare Aldo Moro agonizzante per altri 15 lunghissimi minuti, come conferma la perizia medico-legale, senza che un rantolo, un gemito, un grido disperato sia veramente uscito dalla bocca di un uomo morente e ferito ? In conclusione, " anche su questo punto, la versione delle Brigate rosse non sta in piedi, o almeno zoppica fortemente [...] un uomo che, senza essere narcotizzato, senza essere legato ed imbavagliato, si fa infilare in una cesta, deporre nel portabagagli di un'auto, ricevere nel corpo due pallottole che lo lasciano in vita per altri 15 minuti; e in tutto questo tempo non tenta la disperata reazione di chi non ha più nulla da perdere, effettivamente non è credibile ". La passività di Aldo Moro, se mai ci fu, può trovare solo logica e coerente spiegazione in due fattori: il luogo dove si trovava, solitario, dove il suo urlo disperato si sarebbe perso nel silenzio; il numero dei suoi uccisori, tale da scoraggiarne a priori ogni tentativo di fuga o reazione violenta 51. " Un testimone - scriveva Cipriani - vide una Renault rossa presso la spiaggia di Fregene col posteriore aperto. La perizia sulla sabbia dei pantaloni di Moro confermò che il litorale corrisponde a quello. Sabbia trovata in molte parti dei vestiti, calze, scarpe e sul corpo compreso bitume e sulle ruote della Renault. Sul battistrada - concludeva Cipriani - fu trovato un frammento microscopico di alga analogo ad altro rinvenuto sul corpo ". E gli accertamenti ulteriori confermano pienamente questa realtà: " Le risultanze tecniche - ricorda Biscione - riguardano innanzitutto la sabbia e i frammenti di flora mediterranea trovati nelle scarpe, negli abiti e sul corpo di Moro, come pure sulle gomme e sui parafanghi dell'auto di Moretti rinvenuta in via Caetani. Le tracce sugli abiti e sulle scarpe lascerebbero pensare ad una permanenza o ad un passaggio presso il litorale romano (la perizia giudica quel tipo di sabbia proveniente da una zona compresa tra Focene e Palidoro) ". Mario Moretti e compagni, quindi, affermano il falso, come asseriva giustamente perentorio Luigi Cipriani nei suoi appunti: " Savasta e Morucci mentono [o forse non sono a conoscenza della verità ndr.] dicendo che la sabbia era un depistaggio...". Concorda con l'ex parlamentare di Democrazia Proletaria anche Francesco Biscione, il quale scrive: " ...lascia fortemente perplessi la machiavellica spiegazione di Morucci (confermata da Moretti e ribadita anche dalla Braghetti nel corso del processo Moro-quater) secondo la quale ai primi di maggio 1978 alcuni militanti [la Faranda e la Balzerani] furono incaricati di andare a reperire sulle spiagge del litorale laziale acqua marina, sabbia, catrame, parti di piante da mettere sui vestiti e sotto le scarpe di Moro per depistare le indagini successive al ritrovamento del cadavere...". Quali vantaggi si proponessero di ricavare i brigatisti facendo credere agli inquirenti ed all'opinione pubblica di aver custodito Aldo Moro sul litorale laziale piuttosto che in un appartamento al centro di Roma ? A mio parere nessuno. C'è poi la testimonianza di Pierluigi Ravasio, ex carabiniere-paracadutista, ex addetto all'ufficio sicurezza interna della VII sezione del Sismi a Roma, che venne resa allo stesso Luigi Cipriani. L'ex agente del Sismi e componente delle Stay-behind affermò che "il suo gruppo indagò sul caso Moro e venne a conoscenza del fatto che Moro era tenuto dai malavitosi e riferito ciò ai superiori, le indagini vennero fermate, il loro gruppo sciolto ed i componenti dispersi, mentre i rapporti che quotidianamente venivano compilati furono bruciati...". Francesco Biscione, pur con cautela, non può fare a meno di rilevare che " se si pensa che nel maggio 1991, allorché fu raccolta l'intervista, era pressoché sconosciuto il ruolo svolto durante il sequestro di Moro dalla banda della Magliana, si è portati a dubitare che le parole di Ravasio siano frutto di pura fantasia (semmai, per una certa brutalità nei riferimenti si sarebbe indotti a credere che egli fosse a conoscenza di questa vicenda non per averla vissuta in prima persona, bensì per averne avuto notizia da altri)...". Che il racconto di Pierluigi Ravasio sia quantomeno credibile lo dimostrano non solo il preciso riferimento fatto alla presenza del colonnello Camillo Guglielmi, suo diretto superiore al Sismi, in via Fani il 16 marzo 1978, quanto soprattutto le tracce di sabbia e bitume trovate sui vestiti, il corpo di Aldo Moro e la Renault rossa sulla quale venne poi trasportato in via Caetani. Bisogna anche rilevare, a favore della veridicità di quanto narrato dall'ex agente del Sismi, che le sue dichiarazioni, divulgate da Cipriani, caddero in un momento in cui l'intervento della malavita nel sequestro Moro veniva dato per certo, un fatto ormai acquisito ma datato ad operazione di prelievo avvenuta e considerato cessato, a seguito delle pressioni esercitate dai nemici politici dell'esponente democristiano prigioniero, entro i primi giorni di aprile del 1978. Anche il "premio" concesso ai delinquenti della Magliana dallo Stato e dai suoi apparati è perfettamente verosimile: " Come ricompensa per il rapimento e la gestione del caso Moro - ha raccontato Ravasio - il Sismi consentì alla banda di compiere alcune rapine impunemente. Una avvenne nel 1981 all'aeroporto di Ciampino, quando i malavitosi travestiti da personale dell'aeroporto sottrassero da un aereo una valigetta contenente diamanti provenienti dal Sudafrica. Una seconda avvenne nei pressi di Montecitorio dove furono aperte molte cassette di sicurezza e da alcune, appartenenti a parlamentari, furono sottratti documenti che interessavano il Sismi ". Fatti che ci riportano alla rapina alla Brink's Securmark ed a quella strana rivendicazione che ebbe con tutta probabilità il valore di un avvertimento allo Stato perché non perseguisse i suoi autori. Un solo punto, nel racconto di Pierluigi Ravasio, suscita perplessità ed interesse insieme: la pretesa che il sequestro fu organizzato e gestito da " ex detenuti e malavitosi ", dal suo inizio alla sua conclusione. Sappiamo, viceversa, che i brigatisti rossi in via Fani c'erano, come furono presenti durante tutte le fasi dell'operazione, eliminazione fisica di Aldo Moro compresa, sebbene su questo punto la verità venne presumibilmente esposta in forma criptica, da un ex appartenente alle Stay-behind che, con le sue rivelazioni, si era già esposto molto alle reazioni ed alle rappresaglie dello Stato. Dunque c'è un tassello che non ha ancora trovato la sua collocazione ufficiale, è il tassello determinante, quello che da solo sarebbe in grado di spiegare ciò che è rimasto di totalmente oscuro - ma non di insolubile - nel sequestro di Aldo Moro: i brigatisti rossi guidati da Mario Moretti, furono obbligati a cedere il loro ostaggio con tutta la documentazione da lui prodotta nei giorni della prigionia, agli "amici" della banda della Magliana ? Ha fondamento concreto questa intuizione di Luigi Cipriani, poggiata su indizi concreti e da lui esposta di fronte alla commissione parlamentare ? Cipriani aveva individuato in Antonio Chichiarelli la figura chiave per comprendere la reale dinamica del sequestro di Aldo Moro e del suo omicidio. Il mio personale punto di vista è che probabilmente ci fu un passaggio di mano dalle Br alla banda della Magliana, e che le altre organizzazioni malavitose (Mafia, Camorra, la banda di Francis Turatello), che all'inizio del rapimento erano state "attivate" dal mondo politico per ritrovare Moro, ad un certo punto - dopo aver fatto il loro compito - vennero bloccate. E di questo fatto sono sicuri perfino i membri della Commissione parlamentare d'inchiesta. D'altronde lo dimostrano le molte testimonianze: durante i 55 giorni le organizzazioni malavitose si erano mobilitate - affiancando le polizie ufficiali - nella ricerca del leader DC su precisa richiesta dei vari esponenti politici dell'ex "scudo crociato". Dopo poche settimane, improvvisamente, Mafia, Camorra e ndrangheta si ritirarono, lasciando ai loro emissari nella capitale il compito di compiacere la volontà del potere politico. Dai primi di Aprile, la parola d'ordine divenne quella lanciata, senza mezzi termini a Francesco Varone, a casa di Frank Coppola: " Quell'uomo deve morire ". Probabilmente, una volta certe delle sorti di Moro, le cosche ritirarono i loro scagnozzi. " Un'accurata lettura - ricorda Francesco Biscione - di documenti giudiziari quali intercettazioni telefoniche e altri riscontri ha consentito al giudice Giovanni Salvi di stabilire che attorno al 10 aprile cessò del tutto l'attivazione di Cosa nostra ". A conferma di questo percorso, narrato a più riprese anche da alcuni pentiti, si aggiunge poi la testimonianza di Raffaele Cutolo che riferisce come Nicolino Selis gli disse che, del tutto casualmente, era venuto a conoscere la collocazione del covo nel quale era tenuto sequestrato Aldo Moro. A dire di Nicolino Selis - racconta Cutolo - la prigione del parlamentare democristiano si trovava nei pressi di un appartamento che egli teneva come nascondiglio per eventuali latitanze. Dopo aver proposto l'ubicazione della "prigione del popolo" ad alcuni esponenti della DC, l'ex boss della camorra si sentì dire: " Fatti gli affari tuoi ". Dunque siamo in possesso di un paio di indizi che indicano la strada indicata all'inizio del ragionamento. A questo punto del discorso si inserisce perfettamente anche la domanda posta da Michela Cipriani, moglie del defunto deputato di Democrazia Proletaria: " Perché [ parlando delle Br ] non svelare e gestire politicamente il memoriale-bomba che parlava fra l'altro di Stay behind e che costituiva il maggior risultato politico conseguito dalla lotta armata? ". Eppure, nel terzo comunicato del 29 marzo 1978, i brigatisti avevano annunciato trionfanti che l'interrogatorio di Aldo Moro "...prosegue con la completa collaborazione del prigioniero. Le risposte che fornisce chiariscono sempre più le linee controrivoluzionarie che le centrali imperialiste stanno attuando [...] proprio sul ruolo - prosegue il comunicato - che le centrali imperialiste hanno assegnato alla DC, sulle strutture e gli uomini che gestiscono il progetto controrivoluzionario, sulla loro interdipendenza e subordinazione agli interessi imperialisti internazionali, sui finanziamenti occulti, sui piani economici-politici-militari da attuare in Italia [...] il prigioniero politico Aldo Moro ha cominciato a fornire le sue illuminanti risposte. Le informazioni che abbiamo così modo di reperire, una volta verificate, verranno rese note al movimento rivoluzionario che saprà farne buon uso nel prosieguo del processo al regime che con l'iniziativa delle forze combattenti si è aperto in tutto il paese ". Quindi nella primissima fase del rapimento le Br, di fronte ad un Moro che gli raccontava situazioni cui probabilmente non osavano nemmeno sperare, cantano vittoria. Poi però - incredibilmente - si assistette ad un repentino cambio di rotta. Un'allucinante retromarcia delle Br si nota - è bene dirlo - già nel comunicato n°6 del 15 aprile 1978, prima quindi che venisse inviato ai brigatisti - come afferma nel suo libro Francesco Biscione - il messaggio del 18 Aprile che di fatto imponeva loro di uccidere Aldo Moro. Mario Moretti ed i suoi compagni informarono infatti che: " l'interrogatorio di Aldo Moro è terminato. Rivedere trenta anni di regime democristiano, ripercorrere passo passo le vicende che hanno scandito lo svolgersi della controrivoluzione imperialista nel nostro paese, riesaminare i momenti delle trame di potere, da quelle pacifiche a quelle più sanguinarie, con cui la borghesia ha tessuto la sua offensiva contro il movimento proletario, individuare attraverso le risposte di Moro le responsabilità della DC, di ciascuno dei suoi boss, nell'attuazione dei piani voluti dalla borghesia imperialista e dei cui interessi la DC è sempre stata massima interprete, non ha fatto altro che confermare delle verità e delle certezze che non da oggi sono nella coscienza di tutti i proletari...". La deduzione che viene da fare è che evidentemente a Moretti, attraverso chissà quali canali, erano già giunte pressioni di una certa entità, interferenze tali da far tremare la dirigenza delle Br. I brigatisti fecero dunque intendere in modo esplicito che Aldo Moro aveva parlato di tutto e di tutti, però conclusero in una forma oscura: " Non ci sono segreti che riguardano la DC, il suo ruolo di cane da guardia della borghesia, il suo compito di pilastro dello Stato delle multinazionali, che siano sconosciuti al proletariato..." 60. Ma il messaggio per la DC, lo Stato ed i suoi apparati istituzionali era lampante: Mario Moretti ed i brigatisti rossi che hanno gestito il sequestro Moro informavano che non avrebbero rivelato niente di quanto appreso. " Non ci sono segreti che riguardano la DC " scrissero, quindi " cosa mai si potrà dire al proletariato che già non sappia ? ".......segue

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8 Anni 6 Mesi fa #2024 da Starburst
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Roberto Bartali
Rilettura critica della storia delle br e del rapimento di Aldo Moro

OTTAVA E ULTIMA PARTE:


Alla luce del memoriale ritrovato nel 1990 a Milano, nel covo di Via Montenevoso, e dello studio compiuto da Biscione [agli atti processuali], sappiamo che non era certamente così. Esaminando in dettaglio le dichiarazioni contraddittorie rese dai brigatisti su questo specifico punto si giunge alla conclusione che, con molta furbizia, alcuni di loro possono aver mantenuto segreti il memoriale ed il suo contenuto per poi usarlo come merce di scambio quando se ne fosse presentata la necessità nell'ambito di una futura trattativa in campo giudiziario. Ed il trattamento carcerario riservato ad alcuni di loro dal 1987 in poi (ad esempio a Mario Moretti e Barbara Balzerani) avvalorava questa ipotesi: per quanto non sia poco il tempo che hanno passato in prigione, si deve convenire che è molto poco rispetto a quanto avrebbero dovuto effettivamente trascorrere. Salta agli occhi per esempio la differenza tra un Moretti che si è fatto a malapena 20 anni di carcere essendo condannato a più ergastoli per vari reati di sangue, ed un Franceschini che si è fatto poco meno pur non avendo mai sparato un solo colpo di pistola. Forse la differenza l'hanno fatta proprio quei segreti sul caso Moro che Moretti, tacendo, ha posto a suo favore sul piatto della "bilancia giudiziaria" ? Come non sottolineare poi la mancanza delle registrazioni degli interrogatori di Moro. I nastri registrati - che avrebbero fatto conoscere meglio l'andamento dei colloqui e lo sviluppo delle strategia posta in essere da Moro - non si sono mai trovati; i brigatisti affermano di aver distrutto il tutto per motivi di sicurezza, ma questa affermazione appare assai poco credibile. Poiché si da per acquisito che ad interrogare lo statista DC fu Moretti, e poiché Moretti si era già esposto, bruciandosi, con la lunga telefonata fatta alla famiglia del sequestrato, non ha alcun senso nascondere la voce dell'interrogante per impedirne una eventuale identificazione, a meno che gli interrogatori non siano stati fatti da una persona del tutto diversa (ancora sconosciuta ed importante, dunque da proteggere) dai brigatisti finora noti. La presenza insistente della malavita, impegnata a gestire il sequestro di Aldo Moro rivestendo il duplice ruolo di fiancheggiatore dello "Stato sotterraneo" (che lo voleva morto) e dei brigatisti rossi che non sapevano più cosa fare, può essere provata dal comunicato n°7 del 20 aprile 1978 che " appare allo stesso tempo - scrive Biscione - l'ultimo della prima serie ed il primo della seconda... - perché - [...] iniziava da parte delle Brigate rosse l'offensiva sulla trattativa: il rilascio del prigioniero Aldo Moro può essere preso in considerazione solo in relazione alla liberazione dei prigionieri comunisti. La DC dia risposta chiara e definitiva se intende percorrere questa strada; deve essere chiaro che non ce ne sono altre disponibili; seguiva l'ultimatum: 24 ore di tempo per una risposta a partire dalle ore 15 del 20 aprile ". Erano passati solo due giorni dal comunicato del lago della Duchessa, redatto da Toni Chichiarelli ed ispirato, scrivono gli stessi brigatisti su indicazione di Aldo Moro " da Andreotti ed i suoi complici ", ed i carcerieri del presidente della Democrazia cristiana abbandonano l'alta politica e passano al concreto : " Il comunicato n°7 è anche il primo - rileva Biscione - che non porta in chiusura lo slogan consueto "portare l'attacco allo Stato imperialista", ma "libertà per tutti i comunisti imprigionati" ". Un segnale preciso a quanti in carcere attendevano che si realizzasse lo scopo primario dell'operazione Moro: la liberazione dei detenuti ed allo stesso tempo un modo per tenere buoni i membri del nucleo storico. Dunque la minaccia venne recepita da Moretti, il quale rivolse anch'egli un messaggio rassicurante ai detenuti, non solo comunisti ma anche malavitosi. Avevano - ed in questo ha probabilmente ragione Biscione - indubbiamente compreso, insieme al resto, l'ordine di uccidere Aldo Moro, ma sottolineavano l'inutilità del gesto se questo fosse stato eseguito senza avere ottenuto almeno la scarcerazione dei detenuti, divenuta l'obiettivo primario di un sequestro che aveva invece prodotto, sul piano politico, frutti eccezionali come la confessione del presidente della Democrazia cristiana su fatti e misfatti del sistema di potere italiano. Considerato però che di questa confessione i brigatisti non avrebbero mai potuto fare uso, ed avendo pubblicamente annunciato questa loro rinuncia, la scarcerazione di un numero ragionevole di detenuti avrebbe permesso loro di salvare le apparenze e di riportare un simulacro di vittoria restituendo vivo Aldo Moro. Da qui la cancellazione, in tutta fretta, dello slogan " portare l'attacco al cuore dello Stato imperialista " con l'unico che potesse avere un significato per coloro che stavano in galera, " libertà per tutti i comunisti imprigionati ". Così nel comunicato n°8 le Br chiesero la liberazione di 13 detenuti, in questo modo venne segnata, definitivamente, la sorte di Aldo Moro, e per motivi opposti a quelli che gli storici ufficiali ritengono. Questi ultimi, difatti, sono convinti che " l'insostenibile richiesta dello scambio tredici contro uno, rendeva ancor più fioca la voce già flebile e minoritaria dei sostenitori della trattativa. Che il significato del comunicato n°8 fosse l'attestazione di una posizione nuova che, contrariamente a varie ragionevoli aspettative, manifestava che si stava andando verso l'esecuzione dell'ostaggio fu dunque - conclude Biscione - una considerazione abbastanza diffusa ". Secondo i calcoli dei brigatisti, fissando in tredici il numero dei liberandi, davano prova di quella ragionevolezza che li avrebbe condotti a condurre, finalmente, una trattativa riservata e diretta con la Democrazia cristiana per poi stabilire con Piazza del Gesù un accordo di cui solo una parte avrebbe avuto pubblicità; l'altra parte avrebbe dovuto rimanere segreta, uno di quegli scambi "all'italiana" destinati ad essere taciuti per sempre da entrambe le parti. Qualcuno potrebbe essere indotto a pensare che quella compiuta da Mario Moretti e dai suoi compagni (la richiesta di uno scambio 13 ad 1) sia stata una mossa per chiudere ogni possibilità ad ogni altra probabile trattativa e, quindi, poter procedere all'esecuzione di Aldo Moro scaricandone ogni responsabilità sulla Democrazia cristiana. Così probabilmente non fu, e per convincersene è sufficiente riascoltare la telefonata che, con totale e stupefacente imprudenza, un Mario Moretti al colmo dell'agitazione nervosa, fece a casa della famiglia Moro il 30 Aprile 1978: " Solo un intervento diretto, immediato, chiarificatore e preciso di Zaccagnini può modificare la situazione " dice Mario Moretti che usa un tono giustificatorio " sa, una condanna a morte non è una cosa sulla quale si possa prendere alla leggera [...]". "Non possiamo fare altrimenti...", conclude un Moretti che appare nella posizione di chi subisce una decisione, non l'assume e tanto meno la impone. Egli si rivolse alla famiglia forse perché credeva che Eleonora Moro potesse contare qualcosa, dimostrò di essere informato sui movimenti che i congiunti del presidente avevano fatto, a riprova che riteneva la "carta umanitaria" essenziale, perché era l'ultima cosa che gli è rimasta in mano essendo stato costretto a rinunciare all'altra, la più importante, quella decisiva: le rivelazioni di Moro su uomini e fatti. L'ultimo tentativo lo fece, per loro conto, Daniele Pifano che incontrò il rappresentante del Procuratore generale Pietro Pascalino, il sostituto procuratore Claudio Vitalone, e gli propose lo scambio di uno contro uno, un detenuto magari malato contro Aldo Moro e, ricevuto un rifiuto, ripiegò sul suggerimento della "soppressione delle norme restrittive dei colloqui dei carcerati con i familiari". Ma ormai la questione Moro era irrimediabilmente arrivata al capolinea. Lo "Stato parallelo" non si era esposto in prima persona ma aveva fatto ricorso ad un altro tipo di "occasionali alleati", la spietata Banda della Magliana cui Tony Chichiarelli era legato. Ciò venne confermato anche dall'on. Benito Cazora, recentemente scomparso: " ...recentemente - scriveva Luigi Cipriani - il senatore Cazora ha confermato al magistrato romano che sta indagando sulle trattative condotte durante il sequestro Moro, che si ebbe coscienza del fatto che il presidente della DC fosse "custodito" dalla Banda della Magliana ". L'ex parlamentare di Democrazia proletaria poté così legittimamente avere una ulteriore e definitiva conferma della sua tesi e di quanto aveva dichiarato il 14 settembre 1978 al quotidiano Repubblica il senatore democristiano Giovaniello, molto vicino ad Aldo Moro ed alla sua famiglia: " Quando sapemmo che Moro stava per essere affidato a criminali comuni per il terribile atto conclusivo, facemmo le cose più impensabili per arrivare prima degli altri, ma senza fortuna ". Nel sequestro di Aldo Moro fu dunque un livello di potere occulto, e non Mario Moretti ed i suoi compagni, a stabilire tempi e modalità della prigionia e, infine, della sua morte. Lo stesso Stato che Aldo Moro conosceva come debole, insicuro, pronto a compromessi di ogni sorta, aveva improvvisamente risposto con una fermezza ed una decisione fino ad allora sconosciute; il destino dello statista DC era segnato, questo lui lo capì bene, come traspare evidente dalle sue ultime lettere, pesantissime quanto profetiche nei confronti di un partito - la DC - che pensava di conoscere come nessun altro. Durante il sequestro era accaduto qualcos'altro di molto, troppo, pericoloso: Aldo Moro stava parlando di tutto e tutti: delle trattative segrete per la nascita del centro-sinistra, del tentativo di golpe di De Lorenzo, della strage di P.zza Fontana, del ruolo della DC nella strategia della tensione, della riforma dei servizi segreti, dell'affare "Lockeed", dei piani anti-guerriglia previsti per il nostro paese dalla NATO, del sistema di potere e di sostentamento economico del colosso democristiano. Il rischio che queste verità venissero alla luce in quegli anni era veramente pesante, un rischio troppo elevato per i sostenitori e gli oltranzisti dell'alleanza atlantica, gli unici effettivi artefici della politica interna italiana. Fu così, il presidente della Democrazia cristiana si ritrovò schiacciato dalla forza delle due superpotenze, dei loro alleati e dalle loro reciproche paure, ansie dalle quali vennero liberate dalle "ignare" Brigate rosse proprio con il sequestro. " L'agguato di via Fani, l'eccidio della scorta ed il sequestro dell'onorevole Moro, lo scenario tragico dei luoghi della strage appena consumata, la rivendicazione e i successivi comunicati delle Br, la prigionia di Moro in un luogo sconosciuto e il processo cui questi veniva sottoposto, gli appelli sempre più pressanti e drammatici dell'ostaggio, il disconoscimento ufficiale della loro "autenticità", il rifiuto della trattativa, la sterile polemica che si aprì tra i fautori di questa e i sostenitori della fermezza, l'immane mobilitazione dell'apparato istituzionale di sicurezza, l'avvitarsi della vicenda verso il suo tragico epilogo, il macabro rinvenimento della salma di Moro in un luogo centrale della capitale dello Stato, equidistante dalle sedi dei due maggiori partiti presenti in Parlamento, le dimissioni del Ministro dell'Interno: queste furono le tessere che composero il mosaico visibile degli eventi, dove il delitto Moro, valutato come fatto storico, apparve come il momento di maggiore intensità offensiva del partito armato e, specularmente, come il momento in cui lo Stato si rivelò più impotente nel dare risposta appena adeguata all'aggressione eversiva ". Questo il parere espresso dalla Commissione Stragi durante l'ultima legislatura, un giudizio che pur non apparendo del tutto asettico, certamente non si lascia andare a nessun tipo di accusa diretta. E' esistito dunque (e, data la portata degli indizi, è proprio sotto gli occhi di tutti) un "lato oscuro", una sorta di mondo sotterraneo e parallelo a quello ufficiale che ha operato incessantemente sia lungo la vita delle Br, sia - e con maggiore visibilità ed incidenza - nei 55 giorni del rapimento di Aldo Moro. Anche la commissione parlamentare [della XII legislatura] sul caso Moro, pur con tutte le sue consuete e dovute cautele, è giunta ad affermare ad esempio che: " le nuove acquisizioni consentono di ritenere certo o almeno altamente probabile (come già affermato in alcune delle relazioni di minoranza della Commissione Moro, in particolare quella dell'onorevole Sciascia) il carattere intenzionale di almeno alcune delle omissioni, di almeno alcune delle inerzie che contribuirono al tragico epilogo della vicenda Moro ". O ancora che: "...inizialmente la criminalità organizzata si era attivata e sia stata attivata dall'esterno per favorire la liberazione di Moro: e che tale intervento si arrestò per valutazioni interne alla criminalità organizzata e per input esterni probabilmente coincidenti. Analogamente impressionante è la convergenza di indicazioni verso un intreccio fitto - e non ancora pienamente disvelato - di ambigui rapporti che legarono in ambito romano uomini di vertice delle organizzazioni mafiose e della criminalità locale al mondo di uno oscuro affarismo, ad esponenti politici, ad appartenenti alla Loggia P2, a settori istituzionali, in particolare dei servizi segreti ". Le Br che avevano progettato il sequestro di Aldo Moro con il ferreo convincimento che il mondo politico italiano avrebbe implorato pietà per la sua vita, si erano con ogni probabilità ritrovati nella condizione opposta: loro a cercare di salvare l'ostaggio ed il mondo politico - o almeno una parte di esso - a livello sotterraneo, a pretendere la sua morte senza condizioni. E con ogni probabilità quelle "15 gocce di Atropina", come citava un appunto rinvenuto in Via Gradoli e scritto da Mario Moretti, servirono alle Br per anestetizzare Moro e portarlo via dal covo prigione di Via Montalcini; forse proprio per consegnarlo alla Banda della Magliana. Sebbene - come sempre - manchino le prove per dimostrare che anche l'assassinio di Aldo Moro sia da far rientrare tra le interferenze attuate in Italia dal c.d. "oltranzismo atlantico", è certamente un dato di fatto che nel 1978, poco dopo l'assassinio di Aldo Moro, l'auspicato intervento del capitalismo occidentale e dei suoi investimenti avvenne massiccio. Le autorità monetarie consentirono a numerose banche Usa di aprire filiali nel nostro paese (Manifactures Hannover trust, Inrving trust Company, Wells fargo) con relativi sportelli (Security pacific). Alcune banche estere, tedesche americane e svizzere, dirottano i risparmi dei loro clienti verso la borsa di Milano. Tutti i titoli azionari - compresi quelli delle industrie decotte - subirono aumenti rilevanti: le Montedison salirono del 102%, le SNIA del 60,8%, Acqua marcia del 70,8%, Rinascente del 95,2%, le Fiat aumentarono del 40,5% superando per la prima volta le tremila lire. Un vero pompaggio di ottimismo nel capitalismo italiano, proprio nel momento in cui i governi di unità nazionale entravano in crisi e l'assassinio di Moro rimetteva in moto le forze della destra DC. Anche questa fu una semplice coincidenza ? Mino Pecorelli, già nell'ottobre del 1978, aveva scritto che il ministro dell'Interno, Francesco Cossiga, sapeva tutto: " perché non ha fatto nulla ? [...] Il ministro non poteva decidere nulla su due piedi, doveva sentire più in alto. E qui sorge il rebus - ironizzava Pecorelli - quanto in alto ? magari sino alla loggia di Cristo in Paradiso?..." . A chi si riferiva il direttore di "OP" ? Manco a dirlo anche su questo punto le opinioni degli osservatori divergono: " non paiono esservi dubbi sul fatto - si affretta a scrivere Francesco Biscione - che la "loggia di Cristo in Paradiso" alla quale il ministro si sarebbe rivolto per avere lumi sul da farsi fosse la P2 ". Stefano Fratini -sul suo sito internet- afferma invece che " Mino Pecorelli si riferiva a quella che egli stesso definiva la "Loggia vaticana", una loggia massonica di cui possedeva un elenco di nomi di cardinali ed alti dignitari ecclesiastici, completo di numero di matricola e data di iniziazione (nel numero di "OP" del 12 settembre 1978 Pecorelli pubblicò un elenco di affiliati alla loggia vaticana fra i quali, per limitarci ad un esempio, compariva il nome del cardinale Sebastiano Baggio, indicato come "Seba, numero di matricola 85/2640 e data di iniziazione il 14 agosto 1957"). Loggia o non loggia, il riferimento alle gerarchie ecclesiastiche è trasparente; inequivocabile dunque il fatto che anche dal Sacro Soglio qualcuno impose ad un Papa forse troppo debole l'avallo alla condanna di Aldo Moro". Difficile dire chi abbia ragione; a far pendere la bilancia dalla parte delle tesi di Fratini stanno tuttavia alcune frasi scritte da Aldo Moro e presenti più di una volta tra le 93 lettere manoscritte ritrovate nel 1990 nel covo di via Monte Nevoso a Milano [mentre le Br ne fecero recapitare solo 30 durante il sequestro]. "La chiave è in Vaticano", scrisse infatti lo statista DC, e di nuovo: " il Papa ha fatto un pò pochino...". Concludo ancora con le parole dell'informatissimo Mino Pecorelli: "L'agguato di Via Fani porta il segno di un lucido superpotere. La cattura di Moro rappresenta una delle più grosse operazioni politiche compiute negli ultimi decenni in un paese industriale integrato nel sistema occidentale. L'obiettivo primario è senz'altro quello di allontanare il PCI dall'area di potere nel momento in cui si accinge all'ultimo balzo. Perchè è comunque interesse delle due superpotenze mondiali mortificare l'ascesa del PCI, cioè del leader dell'eurocomunismo, dl comunismo che aspira a diventare democratico e democraticamente governare un paese industriale. Ciò non è gradito agli americani [...] e ancor meno è gradito ai sovietici [...] Ancora una volta la logica di yalta è passata sulle teste delle potenze minori. e' Yalta che ha deciso Via Mario Fani". Teorie, illazioni, supposizioni, castelli accusatori privi di fondamenta per la loro quasi totalità direbbe un giurista. Tutta la ricostruzione della storia delle Br, come ho cercato di mostrare, è costellata da precise interferenze . Emerge limpida una sola verità: non si hanno certezze. La realtà è ancora là, tutta da dimostrare. E' vero, esiste - ed è alquanto palese - un preciso sentiero indicato dagli indizi che ho riscontrato, però le prove certe e documentabili permangono in numero troppo esiguo per poter emettere delle sentenze, per avvalorare una tesi in modo definitivo. L'avventura brigatista, ed in questo concordo con la Commissione Gualtieri, non può e non deve considerarsi ancora materia per gli storici, ciò almeno fino a quando i dati a nostra disposizione non consentiranno di colmare i diversi vuoti di conoscenza che riguardano l'azione delle Br e quella dello Stato (ma soprattutto di chi ha agito nel nome suo...). Dalla morte di Aldo Moro sono passati 25 anni, sono stati fatti cinque processi (ed un sesto è in preparazione), i cosiddetti 'anni di piombo' sono finiti, la classe politica che in quegli anni governava l'Italia è stata spazzata via dall'esplosione di quel fenomeno giudiziario passato alla storia come "tangentopoli", molti dei brigatisti che parteciparono all'"Operazione Friz" hanno dichiarato come conclusa ed irripetibile l'esperienza della lotta armata e delle Brigate rosse, eppure di tanto in tanto emergono nuovi fatti, prove non emerse prima d'ora, testimonianze sconosciute o sottovalutate che costringono di volta in volta gli studiosi a riscrivere la storia e la magistratura ad aprire nuove indagini. L'ultima sconvolgente novità è emersa recentemente grazie alle rivelazioni di Antonino Arconte, ex agente segreto (nome in codice G71 VO 155 M, cioè agente della struttura Gladio, anno addestramento 1971, Marina Militare, Volontario numero 155) appartenente alla "Seconda Centuria Lupi" della struttura Stay Behind. Lo stesso Arconte definisce la struttura di intelligent di cui faceva parte come 'Gladio delle Centurie', gruppo appartenente ad un servizio segreto di cui si ignorava perfino l'esistenza, il SIMM (Servizio Informazioni Marina Militare) che aveva compiti operativi solo all'estero. Uomini super-addestrati che si muovevano all'interno delle strategie della Nato ed in linea con modelli operativi ispirati a quelli della CIA. Analizzando il racconto di Arconte, emerge come la 'Gladio delle Centurie' fosse una struttura ben diversa da quella 'Gladio' la cui esistenza venne svelata in Parlamento da Giulio Andreotti il 2 agosto 1990: non una rete di agenti ideata per fronteggiare una possibile invasione da parte delle truppe del Patto di Varsavia, ma una struttura informativa e operativa che agiva esclusivamente oltre confine, veri e propri reparti irregolari operanti fuori da quanto previsto dalla Costituzione e al di fuori della dipendenza dal Capo dello Stato, che, per l'Art. 87 della Costituzione, è il Capo delle Forze Armate.Arconte ha raccontato come i primi giorni di Marzo 1978 ricevette l'ordine di partire per una missione in Medio Oriente con il compito di " ricevere da un nostro uomo a Beirut dei passaporti che avrei poi dovuto consegnare ad Alessandria D'Egitto. Dovevo poi aiutare alcune persone a fuggire dal Libano in fiamme. Ma c'era un livello più delicato e più segreto in quella missione. Dovevo consegnare un plico a un nostro uomo a Beirut ". Si imbarcò così il 6 Marzo dal porto di La Spezia sul mercantile 'Jumbo Emme'. A Beirut Arconte incontrò l'agente G-219 e una volta tornati sulla nave gli consegnò il plico; al suo interno vi era un foglio di carta azzurra firmato dal capitano di vascello Remo Malusardi della X Divisione "S.B." (Stay Behind) della direzione del personale del Ministero della Marina e conteneva un 'ordine a distruzione immediata'. Il documento porta la data del 2 marzo 1978, e cioè 14 giorni prima del rapimento dell'On. Moro e dell'uccisione della sua scorta, ed ordinava ai 'gladiatori' di prendere contatti con i movimenti di liberazione nel vicino Oriente, perché questi intervenissero sulle Brigate Rosse, ai fini della liberazione di Moro. Contravvenendo agli ordini l'agente G-219 non distrusse il foglio e lo conservò fino a quando, verso i primi di luglio del 1995, decise di consegnarlo proprio ad Arconte durante un incontro avvenuto ad Olbia. Mario Ferraro venne trovato impiccato a casa sua, a Roma, un mese dopo questo incontro. L'ordine a distruzione immediata, autenticato dal notaio Angozzi, di Oristano, è stato recentemente sottoposto ad una perizia per verificarne l'autenticità. La risposta del perito è stata: " Il documento di Arconte è compatibile con l'epoca dei documenti di raffronto ", quindi dimostra che ambienti dei sevizi segreti erano al corrente del sequestro Moro prima che avvenisse, e anziché dare l'allarme si predisponevano a iniziative legate allo scenario del dopo-sequestro. Il ministro della Difesa non ha risposto alle interpellanze parlamentari (una delle quali del senatore Giulio Andreotti) sulla vicenda, nonostante sia trascorso un anno dalla loro presentazione e nonostante ripetuti solleciti. Come dicono gli inglese "The story continues...". Ma fino a quando non si riuscirà a fare piena luce sui lati oscuri, finché continueranno ad esistere dubbi e ad emergere nuove verità sulla 'Prima Repubblica' questa continuerà a gettare un'ombra sul presente, e non ci potrà essere una vera transizione verso la "Seconda Repubblica".

Roberto Bartali

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8 Anni 6 Mesi fa - 8 Anni 6 Mesi fa #2055 da Starburst
Risposta da Starburst al topic La storia nascosta
L'Assassinio di Caio Giulio Cesare

Quando i tiranni vengono ammazzati perche' amati dal popolo


Un altro esempio di storia piu' che nascosta occultata dietro l'apparente sete di giustizia e liberta',invece come leggeremo piu' avanti tratte da fonti storiche piu' che leggittime,piu' che giustiziare un tiranno fecero un atto infame.

LA MORTE DI GIULIO CESARE
 
Alle Idi di marzo del 44 a.C. Giulio Cesare venne ucciso durante una seduta del Senato di Roma.
Fu assassinato dai nemici a cui aveva concesso la sua clemenza, dagli amici a cui aveva concesso onori e gloria, da coloro che aveva nominato eredi nel suo testamento.
Il popolo di Roma lo pianse.
Di Cesare fu scritto:
"Così egli operò e creò, come mai nessun altro mortale prima e dopo di lui, e come operatore e creatore Cesare vive ancora, dopo tanti secoli, nel pensiero delle nazioni, il primo e veramente unico imperatore" (Th. Mommsen, Storia di Roma antica - Libro V - Cap. XI)
 
Località: Roma
Epoca: Idi di marzo - 44 a.C.

GLI EVENTI
I congiurati
Presero parte alla congiura più di 60 persone. A capo ne erano gli ex-pompeiani Caio Cassio, praetor peregrinus, e Marco Bruto, praetor urbanus. Alla congiura aderirono anche alcuni cesariani, tra cui Decimo Bruto, console designato per l'anno seguente, e Trebonio, uno dei migliori generali di Cesare destinato al consolato nel 42.
Cassio era il promotore e il vero capo della congiura. Marco Bruto aderì poco prima dell'assassinio, dando una parvenza di nobiltà all'azione. Infatti Marco Bruto era considerato un filosofo stoico, al di sopra degli interessi venali personali o di classe, benché facesse l'usuraio.
Il luogo e la data
I congiurati furono a lungo incerti se trucidarlo in Campo Marzio mentre faceva l'appello delle tribù in occasione delle votazioni, oppure se aggredirlo sulla via Sacra o all'ingresso del teatro.
Ma quando il Senato venne convocato per le Idi di marzo (15 marzo del 44 a.C.) nella Curia di Pompeo, preferirono quel tempo e quel luogo.
I congiurati portarono in Senato delle casse con le armi, facendo finta che fossero documenti.
Inoltre appostarono un gran numero di gladiatori nel teatro di Pompeo, a poca distanza dalla Curia.
Le Idi di marzo - A casa di Cesare
Il giorno delle Idi Cesare non si sentiva bene. Calpurnia, sua moglie, aveva avuto dei tristi presentimenti e lo scongiurava di non andare in Senato. Gli indovini avevano fatto dei sacrifici e l'esito era stato sfavorevole. Cesare pensò di mandare Marco Antonio ad annullare la seduta del Senato.
Allora i congiurati inviarono Decimo Bruto ad esortare Cesare a presentarsi in Senato perchè i senatori erano già da tempo arrivati e lo stavano aspettando. Annullare la seduta a quel punto sarebbe stata un'offesa per i magistrati.
Cesare credette a Decimo Bruto, all'amico fedelissimo, addirittura nominato suo secondo erede nel testamento.
Le Idi marzo - In Senato
Verso l'ora quinta, circa le undici del mattino, Cesare si mise in cammino. Effettuò le pratiche religiose previste ed entrò nella Curia. Il console Marco Antonio rimase fuori trattenuto da Trebonio.
Cesare era senza la guardia del corpo di soldati ispanici perchè poco tempo prima aveva deciso di abolirla. Solo senatori e cavalieri erano i suoi accompagnatori.
Appena si fu seduto, i congiurati lo attorniarono come volessero rendergli onore.
Cimbro Tillio prese a perorare una sua causa. Cesare fece il gesto di allontanarlo per rinviare la discussione. Allora Tillio lo afferrò per la toga. Era il segnale convenuto per l'assassinio.
Publio Servilio Casca colpì Cesare alla gola. Cesare reagì, afferrò il braccio di Casca e lo trapassò con lo stilo. Tentò di alzarsi in piedi, ma venne colpito un'altra volta.
Cesare vide i pugnali avvicinarsi da ogni parte. Allora si coprì la testa con la toga e con la mano sinistra la distese fino ai piedi. Voleva che la morte lo cogliesse dignitosamente coperto.
Ricevette 23 ferite. Solo al primo colpo si era lamentato. Poi solo silenzio.
Cadde a terra esanime. I senatori fuggirono in preda al panico. Rimasero solo i congiurati.
Tre schiavi deposero il cadavere su di una lettiga e lo riportarono a casa.
Cesare aveva 56 anni.
La vigilia delle Idi, discutendo su quale fosse la morte migliore, aveva detto a Marco Lepido "Ad ogni altra ne preferisco una rapida ed improvvisa". E così era stato.
Le Idi di marzo - Dopo l'assassinio
Inutilmente Bruto cercò di fermare i senatori terrorizzati.
Antonio sfuggì alla morte perché Bruto fermò Cassio intenzionato a far fuori anche il console.
I congiurati, snudando i pugnali insanguinati, si riversarono nel Foro inneggiando alla libertà e a Cicerone.
La notizia della morte di Cesare si sparse per Roma. I negozi vennero chiusi. Le strade divennero deserte.
La gente si chiuse in casa.
A sera, nonostante i tentativi di Bruto, la calma non era ritornata in città e i congiurati decisero di ritirarsi in posizione sicura sul Campidoglio. Alcuni, che non avevano preso parte alla congiura, decisero di unirsi agli assassini sperando di averne vantaggio. Gaio Ottavio e Lentulo Spintere furono tra questi.
Il 16 marzo
Durante la notte Lepido, magister equitum, ossia comandante della cavalleria, venuto a conoscenza di quanto era avvenuto occupò il Foro con i soldati e all'alba parlò al popolo contro gli assassini, che rimanevano rinchiusi sul Campidoglio.
Il console Marco Antonio, che era per poco sfuggito alla morte e aveva trascorso la notte travestito da schiavo, saputo che Lepido aveva preso il controllo della situazione, convocò il Senato nel tempio della dea Tellus.
Alla riunione partecipò anche Cicerone, la cui presenza durante l'assassinio è invece molto dubbia. Si dice che non fosse stato nemmeno informato dai congiurati perché ritenuto non molto affidabile. L'oratore, alla notizia della morte di Cesare, aveva scritto a Minucio Basilo, uno dei congiurati: "Tibi gratulor, mihi gaudeo", ossia "Mi congratulo. Io sono felice". E un mese dopo, il 27 aprile del 44, scriverà ad Attico di: "gioia assaporata con gli occhi, per la giusta morte del tiranno".
In Senato si raggiunse un compromesso tra le varie componenti. Marco Lepido avrebbe voluto sfruttare la forza di cui disponeva, ma Marco Antonio, privo di soldati, non intendeva lasciare il potere a Lepido, per cui si accordò con gli ex-pompeiani.
Il Senato concesse l'amnistia agli assassini, decretò onoranze solenni per Cesare, confermò tutti i decreti e le nomine di Cesare, assegnò a Bruto e ai suoi incarichi prestigiosi fuori Roma.
Tuttavia i congiurati non si fidavano a scendere dal Campidoglio e chiesero in ostaggio il figlio di Lepido e il figlio di Antonio. Poi Bruto andò a cena da Lepido, di cui era parente e Cassio a cena da Antonio.
Il testamento di Cesare
Su richiesta del suocero Lucio Pisone, in casa del console Antonio, venne aperto il testamento di Cesare, scritto alle Idi di settembre del 45 nella sua villa sulla via Labicana e affidato in custodia alla Vestale Maggiore.
Eredi erano nominati i suoi tre pronipoti per parte delle sorelle: Caio Ottavio ereditava i tre quarti, Lucio Pinario e Quinto Pedio il quarto residuo. Caio Ottavio veniva adottato.
Tra i tutori venivano nominati molti di coloro che poi l'avrebbero ucciso. Decimo Bruto era indicato secondo erede, ossia sarebbe subentrato ad Ottavio qualora questi non fosse venuto in possesso dell'eredità.
Al popolo vennero lasciati i giardini intorno al Tevere e 300 sesterzi furono assegnati ad ogni cittadino romano.
I funerali
Davanti ai Rostri, nel Foro, fu costruita un'edicola dorata, che riprendeva le forme del tempio di Venere Genitrice. All'interno su di un trofeo venne esposta la toga insanguinata che Cesare indossava al momento dell'assassinio.
Su di un cataletto d'avorio coperto di porpora e d'oro, portato a spalla dai magistrati, venne portato il corpo di Cesare davanti ai Rostri e deposto all'interno dell'edicola.
Durante i ludi funerari furono cantati dei versi, tra cui: "E io ne avrei salvati tanti per conservare chi perdesse me?" (Pacuvio, Giudizio delle armi)
Antonio fece leggere il senatoconsulto con cui i senatori si erano impegnati per la salvezza di Cesare. Poi tenne il discorso funebre.
Si discusse se cremare il corpo nel tempio di Giove Capitolino o nella Curia di Pompeo. Ma improvvisamente due uomini, con la spada al fianco e armati di giavellotto, gettarono due ceri accesi sul cataletto.
Immediatamente il popolo alimentò il fuoco portanto fascine e distruggendo le tribune di legno che erano state innalzate per la cerimonia.
I veterani delle legioni gettarono nelle fiamme le loro armi, le matrone i loro gioielli, i musicisti e gli attori, che avevano rappresentato gli antenati del defunto, le vesti indossate per l'ultimo trionfo di Cesare.
Intorno al rogo si avvicendarono anche gli stranieri ed in particolare i Giudei riconoscenti verso Cesare, che li aveva liberati dall'oppressione di Pompeo.
Intanto il popolo aveva preso dei tizzoni ardenti e si era diretto verso le case di Bruto e di Cassio per incendiarle, ma venne bloccato dai soldati.
In seguito
La Curia dove era avvenuto l'assassinio venne murata.
Le Idi di marzo presero il nome del "Giorno del parricidio".
Venne proibito di convocare il Senato in quel giorno.
Nel Foro venne innalzata una colonna di marmo con la scritta "Parenti Patriae", al Padre della Patria.

I CONGIURATI

Marco Giuni
o Bruto era figlio di Marco Giunio Bruto, tribuno della plebe nell'83 a.C.
Nacque verso l'85 a.C. da Servilia, sorellastra di Catone Uticense, e venne adottato dallo zio Quintus Servilius Caepio.
Servilia era stata uno degli amori giovanili di Giulio Cesare e i rapporti tra i due si mantennero sempre abbastanza intimi. Non è certo se il vero padre di Bruto fosse proprio Cesare.
Bruto studiò in Grecia. Venne considerato un filosofo di tendenze stoiche.
Fu stimato da Cicerone, che gli dedicò tre opere (De finibus bonorum et malorum; Orator, un gruppo di Lettere).
Nel 53 fu questore di Appio Claudio in Cilicia.
Bruto prestava denaro ad usura, anche del 48 per cento quando il tasso normale era del 12, e non mancava di utilizzare i soldati romani per riavere indietro i denari prestati. Cicerone, divenuto governatore della Cilicia, si rifiutò di mandare i militari romani a riscuotere un debito contratto dalla città di Salamina a Cipro, nonostante le reiterate insistenze di Bruto, che tra l'altro aveva cercato di nascondersi dietro due prestanome (Marco Scapzio e Publio Matinio) ingannando lo stesso Cicerone.
Bruto non era insolito a gesti del genere. Quando Appio Claudio era governatore della Cilicia, prima di Cicerone, aveva potuto godere di ogni appoggio militare in quanto Appio era suo suocero. Infatti Bruto in prime nozze aveva sposato sua figlia.
Nella guerra civile tra Cesare e Pompeo fu sostenitore di Pompeo, nonostante questi nel 77 avesse fatto uccidere suo padre, nonostante si fosse arreso a Modena.
Dopo Farsalo (48 a.C.) venne perdonato da Cesare ed entrò a far parte del suo stato maggiore, abbandonando Pompeo in fuga verso l'Egitto.
Nel 46 divorziò dalla moglie Claudia, figlia di Appio Claudo, e sposò Porcia, figlia di Catone Uticense, che era stato acerrimo nemico di Cesare. Porcia fu l'unica donna a conoscenza della congiura.
Nel 46 ebbe il governo della Gallia Cisalpina.
Nel 44 fu nominato praetor urbanus da Cesare.
Alle Idi di marzo, mentre aspettava Cesare nella Curia, gli giunse la notizia che sua moglie Porcia stava morendo. Bruto mantenne la calma e decise di non andare a casa. In realtà Porcia era solo svenuta a causa di un attacco di ansia non avendo notizie del marito, ma questo Bruto non lo poteva sapere.
Dopo la morte di Cesare fu, insieme a Cassio, il capo della guerra contro Ottaviano e Antonio.
Nel 42 morì suicida a Filippi.
Cassio
Caio Cassio Longino (prima dell'85 - 42 a.C.) fu questore di Crasso nella spedizione contro i Parti nel 53 a.C. Dopo la sconfitta ebbe l'incarico di difendere la Siria.
Fu cognato di Bruto, avendo sposato la di lui sorella Iunia Tertia.
Nel 49 fu tribuno della plebe.
Fu dalla parte di Pompeo durante la guerra civile che oppose questi a Cesare.
Venne perdonato da Cesare dopo Farsalo (48 a.C.). Divenne praetor peregrinus.
Cesare gli aveva promesso il consolato entro tre anni.
Nel 42 morì suicida a Filippi, dove comandava l'ala sinistra dello schieramento dei congiurati. Cassio stava per essere sconfitto e non sapeva che all'ala destra Bruto stava vincendo.
Decimo Bruto
Decimo Giunio Bruto era figlio di Decimo Bruto, console nel 77 a.C. Venne adottato da Postumio Albino.
Poco più giovane di Marco Bruto partecipò alla guerra in Gallia. Molto stimato da Cesare, riportò la vittoria sulla tribù dei Veneti.
Cesare gli aveva affidato la Gallia Cisalpina e lo aveva designato console per l'anno seguente.
Nel suo testamento Cesare lo aveva dichiarato tutore di Ottaviano e suo erede.
Dopo l'assassinio di Cesare e la guerra di Modena si rifugiò nella Gallia Comata. Non essendo riuscito a trascinare dalla sua parte il governatore Planco, tentò di raggiungere la Macedonia per ricongiungersi con Bruto e Cassio. Ma venne catturato ed ucciso per ordine di Antonio.
Trebonio
Gaio Trebonio fu tribuno della plebe nel 55 a.C.
Luogotenente di Cesare in Gallia negli anni 55-50.
Nel 49 condusse l'assedio di Marsiglia.
Dopo l'uccisione di Cesare fu proconsole in Asia, dove morì ucciso da Dolabella.
Fu amico di Cicerone.

Riferimenti bibliografici:
 
Antichità classica
Garzanti
Caio Velleio Patercolo
Storia romana
Rizzoli
Canfora L.
Giulio Cesare - Il dittatore democratico
Laterza
Carcopino J.
Giulio Cesare
Rusconi
Cassio Dione
Storia romana
Rizzoli
Floro
Epitome di storia romana
Rusconi
Jehne M.
Giulio Cesare
Il Mulino
Mommsen Th.
Storia di Roma antica
Sansoni
Plutarco
Vite parallele
Mondadori
Scullard H. H.
Storia del mondo romano
Rizzoli
Svetonio
Vite dei Cesari
Rizzoli
 


P.S. E' BENE RICORDARE CHE AL PARI DI ALTRI IMPERATORI DELL'ANTICA ROMA GIULIO CESARE SI MACCHIO' DI GENOCIDIO NELLE GUERRE GALLICHE.

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Ultima Modifica 8 Anni 6 Mesi fa da Starburst.
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8 Anni 6 Mesi fa - 8 Anni 6 Mesi fa #2114 da Giano
Risposta da Giano al topic La storia nascosta
Indagine sulle origini di Leonardo da Vinci: fu davvero un figlio illegittimo con madre araba?:question:


di Costanzo Gatta
"All’Università di Chieti, dopo tre anni di ricerche su oltre 200 impronte lasciate su 52 fogli leonardeschi è stata ricostruita, con sofisticate tecniche dattiloscopiche, l’impronta di un polpastrello del genio di Vinci, forse l’indice della mano sinistra. Il dermatoglifo rivela caratteristiche arabe, la struttura risulta tipica in due terzi della popolazione, per l’esattezza il 65%.
Stile aveva pubblicato in proposito due ampi servizi nel dicembre 2004, quando le ricerche erano agli inizi. “La trama dei polpastrelli - scrivevamo allora - avrebbe una tipologia orientale; ciò potrebbe confermare che la madre del pittore fosse una schiava venuta da lontano”.

Sangue arabo nelle vene di Caterina, madre di Leonardo? Da un pezzo lo si diceva, senza dar eccessivo credito alla storia. Ora c’è un motivo in più per tornare a parlare delle origini orientali di quella donna: non una contadinotta della campagna toscana ma una giovane levantina che avrebbe avuto una relazione con ser Pietro, il padre del futuro genio da Vinci.
Già molti anni fa si diceva che la mamma fosse una delle tante schiave che nel ’400 erano state portate, volenti o nolenti, a lavorare in Toscana: una poveraccia senza alcun diritto, senza un patronimico, forse appena convertita. Una serva chiamata come mille altre: Catharina.
Uno studioso toscano aveva frugato negli archivi per cercare contratti d’acquisto di schiavi. Voleva raccapezzarsi in questo mistero. Aveva ripercorso i vari flussi migratori ipotizzando che la donna fosse ebrea, circassa, araba. Negativi i risultati.
E così, ai tanti misteri della vita di Leonardo, si aggiunse anche questo della madre, la povera Caterina, con la quale il donnaiolo ser Pietro faceva bellamente all’amore, nonostante stesse per portare all’altare Albiera, figlia dell’Amadori, notaio.
La storia dice poco. Si sa solo che quando la serva fu mandata - secondo il costume dei paesi sulle colline toscane - a sgravarsi nel casale che ancora oggi esiste, era l’aprile del 1452. Una camera dal soffitto basso con pagliericcio, attaccata alla cucina col camino, poche nicchie nel muro per riporvi ramaiole, caldaie e il pennato: qui la giovane Catharina attese, assieme alla levatrice, che si rompessero le acque. Non era misteriosa la relazione del giovane ser Pietro, uno dei tanti borghesi di Vinci, la cui casata sfornava rampolli notabili che alternativamente venivano avviati alla carriera legale o alla vita ecclesiastica.
Per i casi della vita la nascita del genio venne messa - nero su bianco - da Antonio, il nonno. “Nachue (nacque) un mio nipote, figliuolo di ser Piero mio figliuolo, a dì 15 d'aprile (1452) in sabato a ore 3 di notte. Ebbe nome Lionardo…”.
Il resto si può immaginare: quattro soldi di dote per mandar via Caterina contenta e poi il battesimo, senza nemmeno la mamma. Lo sappiamo ancora dal nonno, che ebbe a registrare con precisione i presenti attorno a quel fonte di pietra, tuttora intatto. “Battizzollo Piero di Bartolomeo da Vinci, in presenza di Papino di Nanni, Meo di Torino, Pier di Malvolto, Monna Lisa di Domenico di Brettone”.
Insomma c’erano tutti: prete, testimoni e intimi. Mancava Caterina, che ritroveremo poi sposata a tale Antonio del Vacha, detto Accattabriga, soprannome che non prometteva nulla di buono. In gioventù doveva essere stato un soldataccio di ventura.
Nelle note del catasto di Vinci per l’anno 1457 si trova che nonno Antonio, di 85 anni, abitava nel popolo di Santa Croce, era marito di Lucia, di anni 64, e aveva per figli Francesco e Piero, d'anni 30, sposato ad Albiera, ventunenne. Convivente con loro era “Lionardo figliuolo di detto ser Piero non legiptimo nato di lui e della Chatarina, al presente donna d'Achattabriga di Piero del Vacca da Vinci, d'anni 5”.
Albera non poteva avere figli e Piero aveva accolto in casa l’illegittimo. Intanto Caterina lavorava con il marito un piccolo appezzamento di proprietà e i campi delle suore del convento di San Pier Martire.
Nonno Antonio morì novantaseienne, nel 1468, e negli atti catastali di Vinci Leonardo, che ha diciassette anni, risulta suo erede insieme con nonna Lucia, il padre Piero, la matrigna e gli zii Francesco e Alessandra. L’anno dopo, la famiglia del padre, divenuto notaio della Signoria fiorentina, e quella del fratello Francesco, che era iscritto nell'Arte della seta, erano in una casa di Firenze, abbattuta già nel Cinquecento, nell’attuale via dei Gondi.
Dell’Accattabriga si hanno invece notizie da un verbale di citazione durante un processo alla Curia vescovile di Pistoia. La data è il 26 settembre 1470, dopo i disordini verificatisi all’inizio del mese nella pieve di Santa Maria di Massa Piscatoria, nella palude di Fucecchio. Alcune persone, armate di lancia, capeggiate da due preti (uno della diocesi di Lucca, l’altro sotto la potestà del vescovo di Firenze) avevano disturbato la celebrazione durante la festa in onore della Madonna e interrotto la Messa. Antonio fu chiamato a testimoniare ma non si presentò.
Di Caterina si sa che fu donna prolifica, e da Accattabriga ebbe sicuramente almeno quattro femmine e un maschio. Rimasta sempre lontana da Leonardo, si ricongiungerà al figlio - pare certo - nel 1493 a Milano. E in una casa di Porta Vercellina, nel territorio della parrocchia dei Santi Nabore e Felice, morirà il 26 giugno 1494, dopo lunga malattia. Per le cure prima e poi per i funerali, Leonardo annotò le spese (eccessive per una servente, non certo per una madre): “Quattro chierici, cinque sotterratori, un medico, le candele…”.
Oggi Caterina ritorna in scena. A parlarci di lei sono le impronte digitali del figlio, quei polpastrelli che hanno creato uno sfumato magico, inimitabile. Evocano la donna, quelle ditate rimaste fra il cielo e il fogliame che fa da sfondo al ritratto di Ginevra Benci o su un disegno della Battaglia di Anghiari, fra i capelli di Cecilia Gallerani o sulle pagine dei Codici voltate con mani sporche.
Gli studi sulle impronte di Leonardo sono stati illustrati da Luigi Capasso, direttore dell'Istituto di antropologia e del Museo di storia delle scienze biomediche dell’Università di Chieti e Pescara, e da Alessandro Vezzosi, direttore del Museo Ideale di Vinci.
“Sulle pagine e sui dipinti di Leonardo - ha detto Capasso - possiamo trovare tantissime tracce, non necessariamente dell’epoca, come per esempio macchie, aloni e tracce biologiche. Il nostro primo compito è stato quello di distinguere le tracce sincroniche da quelle non sincroniche e ci siamo concentrati sulle macchie d’inchiostro, dato che è stato più semplice stabilire se la macchia derivava dallo stesso inchiostro usato per vergare le frasi”.
Proprio nelle macchie d'inchiostro sono state scoperte numerose impronte digitali, anche se parziali, che hanno portato alla ricostruzione di un intero polpastrello dell'artista.
“L'impronta - ha aggiunto Capasso - ha tra l’altro una struttura a vortice con diramazioni a y, dette triradio: tale tipologia di impronte è comune a circa il 65% della popolazione araba”.
“A questo punto - ha affermato Vezzosi - si rafforza l'ipotesi che la madre del genio fosse orientale: nello specifico, secondo i miei studi, una schiava."

www.stilearte.it/leonardo-darabia/


@Pyter
Mi è arrivato il libro di Magnani, sono circa alla centesima. Davvero niente male per il momento, lui ci sa fare alla grande, non credevo sarebbe stato così chiaro e scorrevole.
Spero soltanto che andando avanti non siano deluse le (notevoli) aspettative che crea nel lettore.
Grazie ancora!
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8 Anni 6 Mesi fa #2115 da polaris
Risposta da polaris al topic La storia nascosta
Giano

Mi è arrivato il libro di Magnani, sono circa alla centesima. Davvero niente male per il momento, lui ci sa fare alla grande, non credevo sarebbe stato così chiaro e scorrevole.

Arrivato all'ottantesima pagina ho smesso di leggerlo. Lo stile non è per nulla scorrevole e inoltre ci sono troppi nomi, date eccetera. In futuro lo ricomincerò.

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8 Anni 6 Mesi fa #2116 da incredulo
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Giano

“L'impronta - ha aggiunto Capasso - ha tra l’altro una struttura a vortice con diramazioni a y, dette triradio: tale tipologia di impronte è comune a circa il 65% della popolazione araba”.
“A questo punto - ha affermato Vezzosi - si rafforza l'ipotesi che la madre del genio fosse orientale


E se fosse stata di origine Ebraica?

Comunque sia, araba o ebraica, questo spiegherebbe la stranezza del suo tipico modo speculare di scrivere, ovvero da destra verso sinistra, una caratteristica questa, che è tipica delle lingue semitiche. :wink:

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8 Anni 6 Mesi fa #2117 da Giano
Risposta da Giano al topic La storia nascosta

polaris ha scritto: Giano

Mi è arrivato il libro di Magnani, sono circa alla centesima. Davvero niente male per il momento, lui ci sa fare alla grande, non credevo sarebbe stato così chiaro e scorrevole.

Arrivato all'ottantesima pagina ho smesso di leggerlo. Lo stile non è per nulla scorrevole e inoltre ci sono troppi nomi, date eccetera. In futuro lo ricomincerò.


Davvero? Pensa Polaris che ieri notte, arrivate le due, ho maledetto l' orologio perché dovevo abbandonare la lettura. Ti dirò di più: erano anni che non riuscivo a tenere così alta l' attenzione durante una lettura "in doping".
Trovo che riesca benissimo a descrivere la marea di personaggi senza mandarti in confusione, sono rimasto stupito proprio da questo: non sono un esperto di quel periodo storico ma non ho avuto nessuna difficoltà a seguire il filo del discorso.
Se proprio devo fare una critica la faccio non allo scrittore ma alla persona, presuntuosetto e un po' troppo enfatico sull' importanza delle sue ricerche (ma come dargli torto?).
(Anche un' altra: un libro del genere avrebbe meritato immagini decisamente migliori, soprattutto più grandi.)
Ritenta, magari non eri nello stato d' animo giusto!
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8 Anni 6 Mesi fa #2119 da Giano
Risposta da Giano al topic La storia nascosta

incredulo ha scritto: Giano

“L'impronta - ha aggiunto Capasso - ha tra l’altro una struttura a vortice con diramazioni a y, dette triradio: tale tipologia di impronte è comune a circa il 65% della popolazione araba”.
“A questo punto - ha affermato Vezzosi - si rafforza l'ipotesi che la madre del genio fosse orientale


E se fosse stata di origine Ebraica?

Comunque sia, araba o ebraica, questo spiegherebbe la stranezza del suo tipico modo speculare di scrivere, ovvero da destra verso sinistra, una caratteristica questa, che è tipica delle lingue semitiche. :wink:


Ciao Incredulo, vero! Potrebbe solo essere una coincidenza, oppure no! All' epoca c' erano anche schiavi ebrei?

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8 Anni 6 Mesi fa #2120 da Shavo
Risposta da Shavo al topic La storia nascosta

polaris ha scritto: Giano

Mi è arrivato il libro di Magnani, sono circa alla centesima. Davvero niente male per il momento, lui ci sa fare alla grande, non credevo sarebbe stato così chiaro e scorrevole.

Arrivato all'ottantesima pagina ho smesso di leggerlo. Lo stile non è per nulla scorrevole e inoltre ci sono troppi nomi, date eccetera. In futuro lo ricomincerò.


Beh è necessario conoscere il contesto storico. Per me è stato un invito ad approfondire il Rinascimento, di pari passo alla lettura del libro. In tutta onestà probabilmente ho passato più tempo a informarmi sui fatti citati che sulle idee dell'autore. D'altronde questa ricerca parallela mi ha permesso di verificare certe sue intuizioni, alcune forse un po' tirate...certi richiami nei paesaggi io non li ho colti nel modo che voleva intendere. Anche riguardo la data incisa sul planisfero di Palazzo Besta..dalle foto non son riuscito a verificare quel che ha visto lui, ma mi son riproposto di visitare di persona il posto, magari in primavera.

Nonostante poche perplessità l'ho trovato un lavoro solido, coerente...e certe intuizioni geniali. Certo mi è già successo di prendere una cantonata gigantesca per colpa di un ricercatore indipendente...con la speranza di aver appreso dagli errori....


Una bellissima scoperta l'ho fatta ricercando le immagini di una certa villa, che Magnani nomina soltanto...non voglio linkare la fotografia per non rovinarvi il piacere. E questa villa, che resta immortalata nei secoli dei secoli, che in data odierna risulta in vendita per chi solo disponesse della misera somma di 5.000.000 €... è la prima volta che mi pesa non essere un milionario.
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8 Anni 6 Mesi fa - 8 Anni 6 Mesi fa #2121 da incredulo
Risposta da incredulo al topic La storia nascosta
Giano

Ciao Incredulo, vero! Potrebbe solo essere una coincidenza, oppure no! All' epoca c' erano anche schiavi ebrei?


In quel periodo storico vi fu la persecuzione degli Ebrei sefarditi in Spagna, costretti alla conversione al Cristianesimo.

Molti Ebrei si convertirono solo esternamente al Cristianesimo ma rimasero fedeli all'Ebraismo.

Qui ti puoi fare un'idea più precisa.

Anche il Fondatore dell'ordine dei Gesuiti, Ignazio di Loyola era uno di loro.

Molti Ebrei sefarditi si imbarcarono come schiavi con Colombo, erano un terzo dell'equipaggio.

Non so se sia il caso della schiava che viveva con il padre di Leonardo, ma è indubbio che in quel periodo gli Ebrei sefarditi erano perseguitati e resi schiavi da Portogallo e Spagna. :wave:

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