di Enrico Sabatino
Negli ultimi giorni le relazioni bilaterali tra gli USA e la Turchia hanno toccato il livello peggiore della loro storia. Ciò che sta accadendo tra i due Paesi, passato abbastanza in sordina nei nostri mainstream media, potrebbe causare una serie di ripercussioni, in primis nella regione curda del nord Iraq.
Alleati di ferro da sempre, Turchia e USA già da alcuni mesi sono sempre più in attrito a causa soprattutto delle diverse posizioni sulle modalità di contrasto nei confronti della guerriglia del PKK, che negli ultimi mesi è riuscita a infliggere molte perdite tra le fila dell’esercito turco.
Un conflitto cominciato nel 1984 per la creazione di uno stato curdo indipendente e che ha già provocato più di 30.000 morti.
Solo pochi giorni fa tredici soldati turchi sono stati uccisi nel sud-est della Turchia in un attacco da parte del PKK avvenuto nella provincia di Sirnak, nei pressi del confine con l'Iraq. La sparatoria e' cominciata mentre le forze di sicurezza turche stavano tentando di intercettare ... ... un gruppo guerriglieri pronti a fuggire nel Kurdistan iracheno.
E qualche giorno prima un pulmino era stato fatto esplodere in un villaggio sempre nella provincia di Sirnak. Dodici le vittime, tra cui sette paramilitari addetti alla sorveglianza di alcuni villaggi. L'attentato era stato subito attribuito al PKK che però aveva nettamente negato ogni responsabilità.
L’esercito turco sta mostrando da tempo evidenti segni di impazienza e vuole operare direttamente in territorio iracheno per sradicare la guerriglia, ma gli USA sono assolutamente contrari.
Anche l’UE è contraria a un intervento militare turco nel nord Iraq e a poco è servito l’accordo firmato tra Turchia e Iraq il 28 settembre scorso, con il quale il governo iracheno si impegnava a vietare ogni aiuto logistico al PKK e a bandire la propaganda dei ribelli curdi, senza tuttavia concedere all’esercito di Ankara la licenza di intervenire liberamente in territorio iracheno.
Ma il premier turco Erdogan, dopo le sue forti tensioni della scorsa primavera con l’esercito per via della decisione di far eleggere a tutti costi Abdullah Gul Presidente della Turchia, ha ceduto alle pressioni dei militari e pochi giorni fa ha dato mandato alle forze istituzionali, forze armate soprattutto, di
“continuare la lotta al terrorismo adottando tutte le misure economiche, politiche, legali, comprese le operazioni militari oltre confine, che si riterranno opportune”.
Ovviamente qualunque azione militare su vasta scala dovrà prima ricevere l’autorizzazione del Parlamento, ma questo non rappresenta un ostacolo vista la schiacciante maggioranza di seggi di cui gode il partito di Erdogan dopo le elezioni del luglio scorso.
Ma come se ciò non bastasse, l’ultimo episodio che sta mettendo a dura prova gli storici ottimi rapporti bilaterali tra USA e Turchia è la risoluzione approvata dalla Commissione Esteri del Congresso Usa che definisce "genocidio" le stragi degli armeni in Turchia tra il 1915 e il 1920.
E’ noto quanto sia delicato questo tasto per i turchi che hanno sempre negato il genocidio e anche il massacro degli armeni – stime ufficiali parlano di un milione e mezzo di armeni uccisi.
I turchi hanno sempre affermato che questa cifra è gonfiata e che si era trattato invece di una guerra civile in cui 300.000 armeni e almeno altrettanti turchi erano morti in seguito alla rivolta in armi degli armeni nell’Anatolia dell’est per l’indipendenza dall’Impero Ottomano, spronati dall’invasione russa durante la Prima Guerra Mondiale.
Ora questa risoluzione della Commissione Esteri passerà al Congresso USA per un eventuale voto.
Ma senza aspettare ulteriormente il Presidente turco Gul ha rilasciato subito questa dichiarazione di fuoco
“Questa inaccettabile decisione della Commissione….non ha alcun valore e rispettabilità per il popolo turco. Sfortunatamente, alcuni politici negli Stati Uniti hanno ignorato gli appelli al buon senso e ancora una volta hanno agito sacrificando le grandi questioni per piccoli giochi di politica interna”.
Anche il governo turco ha emesso un comunicato in cui afferma che
“L'approvazione della risoluzione da parte di una commissione è stato un atto irresponsabile, che in momento particolarmente delicato renderà ... i rapporti più difficili con un alleato e un amico. Il nostro governo si rammarica e condanna questa scelta. E' inaccettabile che la nazione turca venga accusata per qualcosa che non è mai avvenuta nel corso della storia”.
A queste dure dichiarazioni ha già fatto seguito il primo passo concreto da parte della Turchia che ha richiamato in patria per consultazioni il proprio ambasciatore negli USA.
Il Presidente USA Bush aveva cercato di correre ai ripari con la richiesta ai membri della Commissione di respingere questa risoluzione dichiarando
“Sollecito i membri del Congresso a opporsi alla risoluzione sul genocidio degli armeni all'esame della Commissione esteri. Siamo tutti profondamente spiacenti per le tragiche sofferenze del popolo armeno, cominciate nel 1915, ma questa risoluzione non è la risposta giusta a questo massacro storico e la sua approvazione causerebbe un grande danno alle nostre relazioni con un alleato chiave nella Nato e nella guerra globale al terrorismo".
Anche la Rice aveva messo in guardia il Congresso affermando che
“Approvare quella risoluzione potrebbe creare problemi” e il Segretario alla Difesa Gates si era detto preoccupato sulle possibili ritorsioni turche ricordando che circa il 70% dei trasporti cargo aerei diretti in Iraq transitano proprio dalla Turchia.
Ma la risoluzione è passata ugualmente con 27 voti a favore e 21 contrari.
Comunque dietro queste tensioni tra USA e Turchia non c’è ovviamente solo l’approvazione della risoluzione sul “genocidio” armeno e la guerra con il PKK.
Un intervento militare turco su vasta scala in territorio iracheno metterebbe fine infatti alle menzogne americane sulla pacificazione del Nord Iraq, che se è parzialmente vera per Erbil e Sulemanya, non lo è affatto per Mosul e Kirkuk dove sanguinosi attentati e omicidi mirati proseguono senza sosta.
Kirkuk rappresenta poi una questione cruciale per la Turchia e non solo; la città infatti galleggia letteralmente su un lago di petrolio e ha una forte presenza turcomanna, oltre che curda e araba.
Secondo la Costituzione irachena del 2005, entro il 31 dicembre di quest’anno dovrebbe svolgersi il referendum sul futuro della città, rivendicata dal governo autonomo del Kurdistan iracheno presieduto da Massoud Barzani ma anche dalla Turchia che teme un’eventuale annessione di Kirkuk alla regione autonoma kurda come preludio ad una vera e propria indipendenza del Kurdistan iracheno che potrebbe incoraggiare i separatisti curdi del sud-est turco.
Barzani naturalmente spinge perché il referendum abbia luogo nei tempi stabiliti, il governo iracheno di Al-Maliki temporeggia, la Turchia invece ne vuole la posticipazione e gli USA non sanno dove sbattere la testa.
Barzani ha già ammonito che
“se non verrà data attuazione all'articolo 140 della Costituzione, allora ci sarà una vera guerra civile”. L’articolo in questione prevede che, prima del referendum, i curdi espulsi dalla città - durante le campagne di "arabizzazione" volute da Saddam Hussein negli anni '80 - devono potervi tornare. Successivamente deve essere fatto un censimento per determinare quale gruppo etnico è maggioranza nella popolazione.
La questione perciò è potenzialmente esplosiva e sempre Barzani nell’agosto scorso aveva dichiarato che nel Consolato turco di Mosul non operano diplomatici ma militari e agenti dei servizi turchi con lo scopo di creare problemi nella regione attraverso azioni di intelligence e sanguinosi attentati, che in effetti avvengono quasi quotidianamente.
In sintesi, questo deterioramento dei rapporti tra USA e Turchia contribuirà a smascherare e ad aggravare ulteriormente il disastro provocato dall’invasione USA dell’Iraq.
E il 31 dicembre si avvicina.
Enrico Sabatino