I FIGLI DI ABELE - Nomadi e sedentari: di chi è la terra?
di Carlo Brevi
I testi di storia ci insegnano che l’umanità scoprì l’agricoltura tra il 10.500 e l’8.000 a.C. Una prima conseguenza di questa fondamentale rivoluzione fu un radicale cambiamento nel modo in cui l’umanità stessa si rapportava con il suolo e con la terra.
In precedenza le varie popolazioni vivevano di quello che la terra offriva loro e una volta esaurite le risorse di un luogo si spostavano, alla ricerca di nuove distese da sfruttare. Questo era il ben noto modo di vivere naturale dei popoli pre–storici, il nomadismo.
Ma con la scoperta dell’agricoltura la rivoluzione fu grande: una stessa porzione di terra poteva fornire sostentamento per molte generazioni, ... ... e alcuni popoli misero termine al loro pellegrinare. Conseguenza ultima del nuovo vivere sarebbero state le città.
L’urbanizzazione fu la definitiva consacrazione dei popoli sedentari.
Ma non tutti i popoli scelsero questa via: per millenni intere etnie continuarono nei loro spostamenti, e quando nomadi e sedentari entravano in contatto lo scontro era inevitabile.
La questione fondamentale, irrisolvibile, era una sola: con che diritto i popoli sedentari prendevano possesso della terra?
Non era una questione semplice; la proprietà privata degli oggetti era universalmente accettata e non era messa in discussione, ma il suolo era per definizione universale, creato dagli dei a beneficio di tutti gli uomini.Chi si fosse trovato su un determinato luogo aveva diritto di goderne i frutti e ricavarne sostentamento, ma non aveva nessun diritto sul suolo stesso.
Con che diritto quindi i popoli sedentari rivendicavano il possesso di quel suolo per sempre? La storia ha risposto in maniera molto semplice: chi prendeva possesso della terra basava le sue ragioni esclusivamente sull’uso della forza; il suo diritto svaniva nel momento in cui una popolazione più forte glielo toglieva.
Ma vediamo cosa ci dicono i testi antichi, attraverso i miti che ci hanno tramandato, riguardo questo proposito.
Un’interessante chiave di lettura vedrebbe lo scontro tra nomadi e sedentari descritto sotto forma allegorica nella Bibbia, nel noto episodio di Caino e Abele.
Nella Genesi si narra di due fratelli che conducono due esistenze differenti. Abele è un pastore, accompagna le sue greggi nei loro spostamenti: è un nomade, non lavora la terra. Caino invece è un agricoltore e nel racconto biblico rappresenterebbe i primi popoli sedentari.
Lo scontro fra Abele e Caino descrive quindi l’inevitabile scontro tra i due modi di vivere che si andavano delineando, e poiché Abele è la vittima ci da anche l’indicazione su chi effettivamente uscì vincitore da questo scontro.
Dopo il delitto Dio costringe Caino alla fuga, e ci viene detto che la sua opera successiva fu la fondazione di una città, inevitabile conseguenza del modo di vita che conduceva.
Ritroviamo le stesse caratteristiche del racconto della Genesi nella leggenda di Romolo e Remo e della nascita di Roma. Romolo, dopo un auspicio divino, acquista il diritto di fondare una città e di darle il suo nome; il fratello Remo non accetta questa prevaricazione e irridendo il solco che Romolo stava tracciando quale confine invalicabile della nuova città lo sfida.Romolo ritiene di avere il diritto di uccidere il fratello, e così fa.
Sono quindi riproposti alcuni aspetti fondamentali comuni alla storia di Caino ed Abele: anche in questa allegoria abbiamo due fratelli, che si ritrovano a condurre due esistenze diverse. Romolo fonda una città, come Caino, e si arroga il diritto di prendere possesso del suolo dove la città sorge. Remo non riconosce questo diritto, ma esce sconfitto dallo scontro.
Con la differenza che la vittoria di Romolo avviene con il benestare della divinità, che era invece assente nel mito di Caino e Abele. Questo sembrerebbe sancire la vittoria definitiva dei popoli stazionari sui popoli nomadi, vittoria ottenuta con l’uso della forza, sulla quale viene a basarsi l’intera storia di Roma e dell’occidente europeo.
E' interessante notare come la proprietà della terra sia associata in entrambi i miti con un delitto. Oggi infatti il diritto sulla terra non viene più messo in discussione, ma il mezzo attraverso il quale si esercita questo diritto non è affatto mutato: è sempre la forza.
Capita però che arrivi il momento di cercare delle soluzioni a dei problemi che questa situazione ha portato: come comportarsi con i popoli nomadi, in un ‘epoca in cui il loro “annientamento” diretto non è più possibile?
Sembrerebbe una mera questione speculativa, se non fosse che con l’evolversi delle strutture sovrannazionali queste considerazioni ritornano attuali.
Quando il processo di unificazione della nuova comunità europea verrà portato a termine, nel nostro continente la minoranza più numerosa sarà quella dei Rom. Nell’Europa dei 25 gli Zingari sono in nove milioni, qualcosa di più di una semplice minoranza.
Gli Zingari rappresentano l’ultimo popolo nomade presente in Europa, hanno una cultura comune e non hanno mai voluto abbandonare il loro modo di vivere tradizionale. Sono però inseriti in un contesto in cui pare che non vi sia spazio per chi rifiuti di considerare legittima la proprietà del suolo.
I popoli sedentari hanno vinto la loro battaglia molti secoli fa, ma gli Zingari, i figli di Abele, nella loro sconfitta si rifiutano di “amalgamarsi” con i vincitori e di assumere le loro usanze.
Lo scontro con la società “civile” è ancora una volta inevitabile.
Carlo Brevi (Santaruina)
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