Ieri è morto il padre di un nostro amico. Il nome non ha importanza: è uno di noi, e la morte dobbiamo affrontarla tutti. Prima affrontiamo quella degli altri - parenti, amici o semplici sconosciuti – poi affrontiamo, incredibile ma vero, anche la nostra.
Nonostante questa ineluttabilità, che in realtà determina alla base le nostre esistenze, della morte non parliamo quasi mai, e quando lo facciamo la trattiamo come una specie di intruso che sia venuto a disturbare una bella festicciola.
Ci sorprendiamo sempre se qualcuno muore. Ci sorprendiamo quando la cosa accade all’improvviso – e questo è ancora comprensibile - ma ci sorprendiamo anche quando sapevamo già da tempo che la persona stesse per morire.
In realtà non è l’evento di quella morte che ci sorprende, ma il concetto di morte in sè, che noi non conosciamo, e che quindi inconsciamente rifiutiamo.
Persino chi “crede in Dio” fatica spesso ad accettare fino in fondo quello che dovrebbe essere, secondo la sua fede, una semplice transizione da uno stato all’altro.
Ma non è colpa nostra: veniamo da lunghi secoli di razionalismo cartesiano, ... ... nei quali abbiamo imparato che tutto ciò che è tangibile e verificabile ha valore, mentre il resto non conta nulla.
Fino al XVI secolo, imperava l'astrologia, nella quale i pianeti e le stelle avevano una valenza ben superiore a quella del loro semplice corpo fisico. Ma da quando l'astronomia l’ha rimpiazzata, l'astrologia è stata relegata a livello di semplice superstizione, da tollerare al massimo, se non da condannare del tutto.
Eppure lo stesso Keplero, che della rivoluzione astronomica fu uno degli artefici, suggeriva di non gettare l'antica sapienza alle ortiche, dicendo che "non stupirebbe trovare nell’astrologia un grammo della grande verità”.
Invece la scienza, nel prendere il sopravvento, ha preferito ricominciare da zero, sgomberando il campo da tutta la sapienza accumulata fino a quel giorno dalle civiltà che l’avevano preceduta.
In quel modo, certamente, ha avuto le mani più libere per crescere nella direzione voluta, ma si è trovata in costante affanno nel dare risposte a domande che l’uomo, nel frattempo, non ha mai smesso di porsi.
- Da dove veniamo?
- Non lo so, e non mi riguarda.
- Dove andiamo?
- Non lo so, e non mi riguarda.
- Ma allora, cosa stiamo qui a fare?
- Non lo sappiamo. Ci siamo e basta.
Un pò poco, per un’entità complessa e delicata come l’essere umano, che senza una chiara motivazione fatica persino a compiere un piccolo gesto quotidiano. Figuriamoci cosa debba essere per lui il tormento di una vita passata in quello stato.
Purtroppo, il razionalismo ci ha insegnato ad osservare il mondo esterno dal nostro punto di vista, e questo ci pone dei pesanti limiti per riuscire a dare un senso alla nostra presenza nell’universo. Chi guarda la vasca dei pesci dall’esterno sa bene dove inizia e dove finisce, ma il pesce, dal suo interno, non è in grado di vederla tutta in un colpo solo.
Nemmeno le religioni ci offrono delle reali certezze. Specialmente chi si rivolge ad esse mosso dalla paura dell'ignoto, e non magari dalla curiosità spirituale, trova solo risposte di tipo razionale, che non possono in alcun modo tacitare paure che abitano invece nel profondo del nostro inconscio.
Una cosa è sentirsi dire da qualcuno che “esiste una dimensione divina, fatta così e cosà”, ben altra è incontrare personalmente quella certezza, assoluta e irrevocabile, che tutti vorremmo possedere.
Ma è proprio nel nostro inconscio – sostengono alcuni - che abita anche la risposta a quelle paure. Sta a noi trovare la strada per liberarla e farla risalire in superficie, almeno fino a livello intuitivo, se non proprio a quello razionale.
Chi abbia fatto questo percorso descrive una sensazione estatica di "appartenenza" ad un unico sistema superiore, intelligente e organizzato, chiamato universo.
Tanto piccolo diventa l'uomo di fronte a questo universo, quanto grande diventa la sua serenità nell’essere cosciente di farne parte. Ci si accorge infatti, a quel punto, che non si cercava affatto un “luogo” dove collocarsi, ma semplicemente una ragione, valida e sensata, per esserci.
Questa certezza interiore non è qualcosa che si possa acquisire con un corso per corrispondenza, nè si può “decidere” razionalmente di perseguirla, da un momento all’altro, solo perchè pensiamo che possa aiutarci a stare meglio.
Coloro che l’hanno raggiunta hanno fatto un percorso del tutto imprevisto, mossi da un desiderio sconosciuto che giungeva da zone estremamente remote del nostro essere.
Alcuni la chiamano gnosi, altri illuminazione, altri ancora conoscenza. Per quanto abbia dato il nome ad una precisa scuola religiosa, la gnosi è caratterizzata dalla totale assenza di strutture e gerarchie di tipo umano, poiché l'unico lavoro viene svolto al proprio interno.
E’ “gnostico” il guru tibetano come lo sciamano mesoamericano, il saggio sufi o il mistico cristiano, ma può esserlo tranquillamente anche il ragioniere di Lambrate: “gnosein”, in greco, significa semplicemente “sapere”, "conoscere" (da cui il detto “gnozi seautòn”, conosci te stesso).
Ed è proprio nel vangelo "gnostico" di Tommaso che troviamo alcune frasi particolarmente significative riguardo alla questione della vita e della morte. (Il vangelo di Tommaso è detto anche “gnostico” perché fu recuperato nella zona di Alessandria, dove era fiorita la scuola gnostica, rinchiuso in un otre che lo ha protetto per 1.800 anni).
«Colui che scopre l'interpretazione di queste parole non assaporerà la morte».
«Conosci ciò che ti sta davanti, e ti si manifesterà ciò che ti è nascosto. Giacché non vi è nulla di nascosto che non sarà manifestato».
«Passerà questo cielo e passerà ciò che è sopra di esso, i morti non sono vivi e i vivi non morranno.»
«Colui che cerca non desista dal cercare fino a quando non avrà trovato; quando avrà trovato si stupirà. Quando si sarà stupito, si turberà e dominerà su tutto».
I discepoli di Gesù dissero: «Manifestaci quale sarà la nostra fine». Gesù rispose: «Avete scoperto il principio voi che vi interessate della fine? Infatti nel luogo ove è il principio, là sarà pure la fine. Beato colui che sarà presente nel principio. Costui conoscerà la fine e non assaporerà la morte».
Non a caso le classiche domande “da dove veniamo?” e “dove andiamo?” compaiono sempre insieme. E’ curioso però, come sottolinea il testo citato, che noi non ci preoccupiamo minimamente di comprendere le nostre origini, mentre pensiamo costantemente alla destinazione, in maniera quasi ossessionante.
Accogliamo la nascita come se fosse una banalità scontata, ma piombiamo della più nera depressione di fronte alla morte. Chiamiamo la seconda “mistero”, senza ricordarci di definire la prima “miracolo”.
Non ci rendiamo conto che non possano esistere, l’una senza l’altra, poichè sono sostanzialmente la stessa cosa.
Massimo Mazzucco
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Il segmento che segue è tratto all'articolo "Edgar Mitchell, l'uomo che ha visto Dio".
(Trascrizione)
Quando andai sulla Luna, 27 anni fa, la convinzione generale, sia per la scienza che per la teologia, era che noi fossimo il centro biologico dell'universo.
Ma negli ultimi 25 anni quel concetto è profondamente cambiato, è oggi credo che non ci sia più nessuno, fra coloro che abbiano approfondito seriamente la materia, che ancora creda che noi siamo al centro biologico dell'Universo.
Ed è anche di questo che parleremo stamattina: in che genere di Universo ci troviamo?
Questo naturalmente ci porta al fatto che io abbia avuto l'onore di essere scelto fra un gruppo di privilegiati, che per primi hanno esplorato un altro pianeta, la nostra Luna. Ho avuto il privilegio di aver fatto parte di quel gruppo, con gente meravigliosa, e abbiamo fatto quello che abbiamo detto di aver fatto: abbiamo completato la nostra missione, abbiamo ottenuto interessanti dati scientifici, e li abbiamo riportati indietro, per poter osservare da vicino per la prima volta un altro mondo.
Ero però del tutto impreparato per quello che mi è accaduto sulla via del ritorno.
Avevamo completato con successo la missione, e il mio compito, come responsabile del modulo lunare e delle attività sulla superficie lunare, era praticamente terminato. Sulla via del ritorno ero una specie di "ingegnere operativo", in una astronave che funzionava molto bene, e avevo ben poco da fare oltre a tenere d'occhio i vari indicatori... e contemplare l'Universo.
E l'impatto nel vedere la Terra dallo spazio, di vederla collocata nel Cosmo, di vedere le stelle e le galassie e i gruppi di galassie e pianeti, l'essere in grado di vederli dalla Terra come mai li avevamo visti, dieci volte più luminosi e dieci volte più numerosi, è stato per me qualcosa di assolutamente travolgente.
La prima cosa che mi venne in mente fu un'interconnessione, il fatto che non siamo in un Universo - come dice la nostra scienza - fatto di molecole che rimbalzano una contro l'altra come palline da ping-pong, ma che si tratta di un sistema molto più intelligente e organizzato, di un "sistema organico", in cui le molecole del mio corpo e quelle della navicella spaziale erano dei prototipi realizzati in una remota epoca cosmica.
Questo mi ha colpito personalmente, è stato un grosso impatto a livello emotivo e non soltanto razionale.
Ed è interessante che questo momento sia stato accompagnato da una esperienza mistica, estatica, come quella di chi giunge finalmente in vetta a una montagna.
Allora ho capito che la nostra storia è incompleta, che la nostra scienza è incompleta, e forse anche ingannevole, e che anche le tradizioni cosmologiche [religioni] emerse dalle antiche culture erano incomplete, e forse anche ingannevoli, e che le domande su chi siamo e dove veniamo, in questa nuova epoca spaziale, andavano reimpostate daccapo.
Questo è essenzialmente quello che mi è successo durante il viaggio.
Quando sono rientrato mi sono trovato con un bruciante desiderio di capire che tipo di organismo fosse il nostro, quale tipo di cervello ci permette di vedere le cose in una diversa prospettiva, per poi rimanere così trasformato da questa realizzazione? Con un pò di ricerca, grazie anche a Manly Hall e alla lettura di alcuni suoi lavori, ho scoperto che quello che io avevo vissuto viene descritto nella tradizione mistica come l'esperienza samadica, nella quale si riesce a vedere l'Universo nelle sue varie parti - atomi pianeti e molecole - ma si comprende che c'è una unità di fondo, e questo è accompagnato da un senso di estasi.
Questo mi ha portato su un sentiero di ricerca nel quale ho compreso che le questioni fondamentali che ci poniamo, nella contrapposizione fra la "cosmologia culturale" e la "cosmologia scientifica" [fra religione e scienza], dipendano da una domanda che si pone al centro di tutto: qual'è la natura della nostra coscienza?
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