di Marco Pizzuti
Come sanno bene gli esoteristi, la tradizione alchemica trae principalmente origine dalla casta sacerdotale dell’antico Egitto. Fino ad oggi però l’ancestrale scienza della trasmutazione è stata considerata poco più di una leggenda da tutti gli accademici ortodossi. Ma ciononostante, le associazioni più misteriose, potenti e longeve della storia come la massoneria, oltre a far risalire le origini della propria conoscenza ai costruttori delle piramidi, sembrano avere avuto sempre lo stesso “chiodo fisso”, l’alchimia. Le cattedrali gotiche realizzate dalle logge massoniche esprimono infatti il compimento della “grande opera alchemica” attraverso il linguaggio ermetico e silente della simbologia pagana. E’ forse possibile ipotizzare allora che dietro le mentite spoglie di una leggenda “dura a morire” l’antica casta egizia sia riuscita veramente a tramandare alcuni grandi segreti della fisica ai suoi più stretti discendenti? | La porta alchemica di P.zza Vittorio (Roma) |
La testimonianza di Girolamo Segato
Nessuno fino ad ora è mai riuscito a dimostrare direttamente che la tradizione alchemica abbia avuto qualche fondamento scientifico, eppure a ben vedere, la misconosciuta storia di Girolamo Segato (1792-1836) può costituire un importante indizio in tale direzione. L’eclettico cartografo italiano infatti riuscì a produrre le prove che bastano ad acclarare una volta per tutte ... .l’effettivo grado di conoscenza della fisica posseduto dagli antichi egizi. La sua storia personale può quindi essere intesa metaforicamente come un sentiero tracciato nel regno oscuro dell’alchimia.
Girolamo non era solo un abile disegnatore tecnico, ma nutriva numerosi interessi eterogenei alla sua professione. Tra questi, occupava un posto speciale la tecnica di imbalsamazione a cui si era dedicato con passione. Fremeva quindi per conoscere la terra dei faraoni e per poter studiare le ben più raffinate tecniche di mummificazione. Partì per il suo primo viaggio durante il quale vide le rovine dell'obelisco di Eliopoli e disegnò con grande abilità numerosi luoghi e reperti. Un secondo, importante viaggio lo fece a partire dal maggio del '20 aggregandosi ad una spedizione militare diretta nel Sudan Orientale, e con l'occasione rimase ad Assuan per un mese.
Abbandonata la spedizione, si inoltrò verso la Nubia, nel deserto degli Abadi per poi arrivare a Wadi Halfa e quindi a File e a Elefantina.Tornò quindi al Cairo, portando con sé una preziosa documentazione , che purtroppo andò dispersa nel 1817. In casa De Rossetti, il materiale interessò l’archeologo Enrico Minatoli. Sempre il Minutoli, il 19 dicembre 1820 lo convinse a partire per Saqqara, con meta la piramide di Abu-Sir.
Qui il Segato si fermò e iniziò gli scavi e le rilevazioni, mentre il Minutoli si diresse verso il Nilo. Ritornato al Cairo, su incarico del Minutoli riempì ben 90 casse di reperti archeologici per inviarle a Berlino dove ne arrivarono solo 20, a causa di un naufragio. Queste ultime però furono comunque sufficienti per fondare il museo egizio della capitale germanica.
Nei primi anni della sua permanenza in Egitto, Girolamo Segato oltre a preparare mappe, disegni e opere cartografiche si dedicò soprattutto all'archeologia e all'approfondimento della civiltà egiziana. Negli anni a seguire intensificò le sue ricerche sulla cultura egizia, riproducendo e descrivendo esattamente l’allora sconosciuto cubito, l'antica unità di misura egizia.
Si dedicò inoltre a esperimenti chimici e studi di alchimia utilizzando il laboratorio farmaceutico dei De Rossetti. Esaminò persino la composizione chimica dei colori dei dipinti murali egizi e gli elementi utilizzati nei processi di mummificazione, arrivando a scoprire il segreto della pietrificazione dei corpi umani e animali. Realizzò quindi centinaia di esperimenti di pietrificazione perfettamente riusciti, i cui reperti sono oggi materialmente visibili da tutti presso la facoltà di medicina dell’Università di Firenze (dipartimento di Anatomia, Istologia e Medicina Legale).
Un busto e una testa pietrificati da Girolamo Segato, attualmente custoditi all’Università di Firenze
Girolamo attirò così la morbosa attenzione degli scienziati ai quali confidò solo di avere appreso l’antica arte da un papiro egizio. Subì allora molte pressioni per rivelare le formule che aveva scoperto ma rimase sempre nel riserbo più assoluto. E qualche tempo dopo avere acquisito una certa notorietà molti dei suoi preziosi reperti egizi finirono in fiamme nel suo laboratorio del Cairo in circostanze poco chiare. I primi riconoscimenti ufficiali sulla tecnica di pietrificazione gli giunsero nel 1835 quando l'Accademia della Valle Tiberina Toscana lo nominò socio corrispondente. Morì a soli 44 anni portandosi nella tomba il segreto del papiro egizio. A 200 anni dalla nascita il comune di Sospirolo gli dedicò un apprezzato convegno dal quale emerse soprattutto il grande contributo che il geniale Girolamo Segato ha dato all'inizio della egittologia moderna (Wolynski Arturo, "Girolamo Segato: viaggiatore, cartografo e chimici", Stab. Giuseppe Civelli, Roma 1894; Pieri Gino, "Girolamo Segato", Istituto Veneto di Arti Grafiche, Belluno 1936; Pocchiesa Ivano - Fornaro Mario, "Girolamo Segato esploratore dell'ignoto", Media Diffusion Ed. Treviso 1992).
Il principe alchimista Raimondo di Sangro
Raimondo di Sangro (Torremaggiore 1710 – Napoli 1771), discendente diretto della stirpe carolingia e gran maestro della setta massonica dei Rosacroce, rimane uno dei più oscuri e controversi personaggi della storia dell’Alchimia. Di Sangro è noto per alcune invenzioni che lo hanno reso allo stesso tempo famoso ed inquietante. Di alcune di esse abbiamo le prove tangibili, mentre di altre solo dei resoconti destinati a rimanere in bilico tra il serio ed il faceto.Stando alle testimonianze dell’epoca sembra infatti che egli sia riuscito a realizzare il “c.d. lume eterno”, un focolare in grado di bruciare per millenni, di cui troviamo menzione nelle antiche tradizioni egizie (citaz. “Iside Svelata”, M. Blavatsky).
Di certo sappiamo invece che produsse dei mantelli impermeabili per il re Carlo III di Borbone, quando ancora non si conosceva nessun procedimento di impermeabilizzazione. Il Principe insomma dedicò tutta la sua vita all’antica arte dell'alchimia, e il suo palazzo acquistò fama di essere diventato un laboratorio. Alambicchi, forni e provette finirono per riempire tutti gli scantinati della sua sfarzosa dimora, il cui interno è ancora caratterizzato da complementi d’arte davvero unici al mondo.
Le statue che fece realizzare hanno dell’incredibile , e basta vederle per rendersene conto. Il celebre “Cristo velato”, ad esempio, sembra essere stato realizzato con la tecnica alchemica della pietrificazione. Ufficialmente infatti l’opera venne commissionata allo scultore Giuseppe Sammartino (1720-1793), ma vi sono alcune cose che non tornano.
Il “Cristo velato” del Principe di San Severo - a destra, un particolare del volto
Il corpo del Cristo dovrebbe essere stato ricavato da un unico blocco, ma osservandolo bene da vicino è possibile intravedere le membra perfettamente scolpite sotto uno strato di marmo talmente sottile da risultare trasparente. Occhi, naso, bocca, mani, piedi e persino le vene del Cristo traspaiono con stupefacente realismo davanti allo sguardo incredulo di chiunque abbia avuto la possibilità di ammirarlo da vicino.
Nessuno sa spiegare come sia stato possibile realizzare un'opera del genere, e tutte le ipotesi tradizionali prima o poi si ritrovano a dover fare i conti con l’alchimia. Peraltro non si tratta di un opera “solitaria”. A farle buona compagnia ne troviamo almeno altre due, di pari impressionante bellezza: la “Statua della Pudicizia” di Antonio Corradini, e la “Statua del disinganno” di Francesco Queirolo.
Da notare che la rete è completamente in pietra ed è talmente perfetta da apparire reale.
Ma mentre per la prima ritroviamo la stessa tecnica incredibile utilizzata per il Cristo velato, nella seconda possiamo osservare addirittura una complicatissima rete di pietra che avvolge la statua. Una rete che per giunta sarebbe stata ricavata dall’unico blocco a cui apparterrebbe tutta l’opera. Ma oltre ad non esistere nulla di simile al mondo, basta vedere queste sculture dal vivo, o su fotografie ad alta risoluzione, per rendersi conto della loro unicità. Per quanto concerne le ipotesi tradizionali sulla loro realizzazione, l’unica cosa certa è che non riescano a svelarne il mistero. Per tale ragione sono in molti a credere che, mentre le statue regolarmente commissionate non abbiano nulla di sorprendente, la rete e i veli delle opere siano state aggiunte dopo con qualche amalgama alchemica sconosciuta.
Nella cappella del Principe di S. Severo inoltre, sono conservate le c.d. macchine anatomiche, ovvero dei “manufatti” antropomorfi davvero raccapriccianti. Anche se per la scienza ufficiale (CICAP in testa) si tratterebbe solo di corpi umani eccezionalmente riprodotti, alcuni ricercatori indipendenti riconoscono nei loro dettagli una perfezione tale da generare forti sospetti che in realtà siano veri. Del resto, alcune caratteristiche funzionali sul loro presunto utilizzo medico risultano essere particolarmente inquietanti. Normalmente infatti, i modelli anatomici realizzati per scopi didattici sono dotati di una postura da riposo e di arti mobili. In questo caso invece, gli arti sono rigidi, perfettamente immobili e il braccio destro della donna è addirittura bloccato verso l’alto come se si fosse irrigidito durante l’ultimo spasmo vitale.
Entrambe le “macchine anatomiche” presentano inoltre solo lo scheletro e la fitta rete di vasi sanguigni umani perfettamente definiti, cuore compreso.
Le “ macchine anatomiche” del Principe di San Severo.
Ciò che fa venire i brividi a chi non ha mai creduto alla teoria accademica dei manichini, è la circostanza che la donna presenti una gravidanza in atto, con lo scheletro del povero infante perfettamente visibile. Secondo una interpretazione meno seguita, infatti, le c.d. macchine anatomiche non sarebbero altro che un uomo e una donna reali, trattati con qualche tipo di coktail chimico per via endovenosa, mentre erano ancora in vita.
Il fluido avrebbe poi “metallizzato” i vasi sanguigni dei due corpi, rendendo il materiale biologico umano irriconoscibile alle perizie scientifiche.
Marco Pizzuti (Primus)