Nel comune parlare, si intende per “logica del profitto” qualsiasi comportamento – di solito da parte di un’azienda, o di un datore di lavoro in generale - che porti a preferire un proprio vantaggio economico al rispetto di certi canoni etici, sociali o morali ai quali si ritiene che tutti debbano aderire.
Un proprietario di fabbrica, ad esempio, che trascuri le norme di sicurezza per “mettersi in tasca più soldi” , è un individuo che - nel comune parlare - agisce “secondo la logica del profitto”.
Ben diversa invece l’accezione corretta del termine, che lo colloca però nell’ambito della teoria economica, che in questo caso non ci interessa.
Parliamo, in altre parole, di avidità umana, un “difettuccio” talmente antico da figurare nei Sette Peccati Capitali, e da essere condannato in pari misura da molte altre tradizioni antiche.
Ma è anche un difetto facilmente spiegabile dalla stessa natura umana, visto che risponde all’istinto primordiale di sopravvivenza: se c’è cibo soltanto per quattro persone, e siamo in cinque, è chiaro che uno deve perire. Una bella legnata in testa al più distratto, e anche per oggi il pasto è assicurato.
Il problema etico casomai si pone quando non sia più in ballo la sopravvivenza, ma l’individuo continui a comportarsi come se lo fosse. Osservare ad esempio Dick Cheney che, dopo aver preso trenta milioni di dollari di liquidazione dalla Halliburton, ... ... continua imperterrito a cercare di trarre il massimo profitto da ogni operazione in cui è coinvolto – ed è coinvolto in quasi tutte ormai - può anche lasciare stupiti: che cosa se ne può fare, ci si domanda, di “altri” venti milioni di dollari? Che cosa può ancora comperarsi, che già non abbia acquistato con i primi mille milioni che ha guadagnato?
In realtà, quello di Dick Cheney è un esempio fuori luogo: egli non lucra (almeno, non più) per beneficio individuale, ma agisce in quella sfera dove le ingenti masse di denaro che vengono spostate si traducono in quote di potere a livello globale.
Ma ogni caso, il potere finisce per tradursi in una soddisfazione personale, e dobbiamo quindi dedurre che all’origine ci sia, nell’umano, una generica volontà di supremazia sui suoi simili, che in qualche modo lo fa “sentire meglio”. Chiamala senso di sicurezza, chiamala affermazione personale, chiamala spirito di competizione, è innegabile che l’uomo tenda in tutti i modi a sopravvalere sul proprio simile.
Anche nel quotidiano, infatti, continuiamo tutti a “fregarci“ l’uno con l’altro, convinti che valga ancora il primordiale principio mors tua vita mea.
Una volta constatato che ci trasciniamo questo “difetto” fin dai tempi delle caverne, capiamo forse meglio perchè la “logica del profitto” – lo ripeto, intesa esclusivamente come espressione dell’avidità umana - venga spesso considerata come qualcosa di inevitabile, e la si giustifichi anche quando non si dovrebbe.
Folgorante in questo senso fu una risposta di Bush, che all’alba del suo insediamento alla Casa Bianca dichiarò ai giornalisti che le previste regole anti-inquinamento non si potevano implementare, semplicemente “perchè sarebbero costate troppo”. Fu il candore assoluto con cui fece questa dichiarazione, a tradire la scontatezza di certi principi nell’ambito dei nostri comuni parametri sociali. Come dire, “se non costasse così tanto, certo che lo faremmo! Ma così le industrie resterebbero troppo penalizzate”.
E il bello fu che i giornalisti, invece di contestare in qualche modo quell’affermazione, si guardarono fra loro come se stessero dicendo: “Ah, già, che stupidi. Non ci avevamo pensato”.
Ma nel momento in cui si permette alla logica del profitto di causare un qualunque danno all’essere umano - individuo o società che sia – si sorpassa una linea oltre la quale è molto difficile fare inversione di marcia.
Infatti oggi viviamo in un sistema in cui le corporations – intese come entità slegate ormai da ogni responsabilità individuale – dettano legge. E’ vero infatti che ci sono sempre degli individui a cui far risalire certe responsabilità, ma è anche vero che se costoro non si adattano in pieno alla logica del sistema, ne vengono immediatamente stritolati ed espulsi.
Non diventi direttore generale di una azienda, se non fai solo ed esclusivamente gli interessi di quell’azienda. E gli interessi delle aziende vanno quasi sempre contro quelli dei singoli individui (a meno che questi siano gli azionisti, ovviamente).
Se poi per caso l’azienda si chiama Stati Uniti d’America, gli “interessi” di quell’azienda diventano la propria sussistenza economica sul mercato mondiale, ed il mantenimento interno del proprio standard di vita. Da cui invadere l’Iraq diventa un’azione necessaria, e le 650.000 morti civili che l’invasione ha causato sono un “collateral damage” tanto pesante quanto inevitabile.
In questo modo, con quattro semplici passaggi, siamo arrivati a depenalizzare completamente la logica del profitto: nessuno pagherà mai per quei morti, e quelli dell’Iraq non saranno certo gli ultimi nella storia.
Di questo passo, inoltre, il prossimo ad andarci di mezzo potrebbe essere chiunque di noi. Una volta accettato che il fine giustifica i mezzi, che cosa succederà il giorno in cui qualcuno dovesse decidere che, ad esempio, nella zona in cui viviamo noi ci sono centomila abitanti di troppo, e mantenerli è diventato un costo non più accettabile? I mezzi per liberarsene non mancano di certo (dalle scie chimiche alle radiazioni di ogni tipo, dall’inquinamento chimico alle più disparate tecnologie misteriose, c’è solo da scegliere), e la famosa linea di demarcazione fra profitto ed etica è diventata un ricordo troppo lontano per potervisi appellare.
Esiste, a questo punto, una ragionevole via di uscita?
Massimo Mazzucco
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