IN SUD-AMERICA NON VOGLIONO LA DEMOCRAZIA
 
di Fabio de Nardis

24.4.04 - In uno studio recentemente pubblicato dal Programma Sviluppo delle Nazioni Unite, emerge che la maggior parte dei sudamericani accetterebbe un ritorno all’autoritarismo, se questo comportasse un miglioramento delle condizioni economiche e sociali. Dal rapporto si rileva anche che la classe dirigente non riesce a dare corpo a politiche pubbliche di ampio respiro, a causa della continua intromissione degli Stati Uniti e dei troppi vincoli all’attività di governo posti dalle istituzioni internazionali (leggi FMI). La ricerca copre un arco temporale di tre anni, e si basa su una rilevazione condotta in 18 paesi: Argentina, Bolivia, Brasile, Cile, Colombia, Costa Rica, Repubblica Domenicana, Ecuador, El Salvador, Guatemala, Honduras, Messico, Nicaragua, Panama, Paraguay, Perù, Uruguay e Venezuela. Sono tutti paesi di recente democratizzazione, di cui solo tre possono contare su una tradizione democratica di oltre venticinque anni.

Su 18.643 intervistati, il 58% si dichiara convinto che al Presidente debba essere lasciata la possibilità di agire fuori dalla legalità; il 56% crede che... ...lo sviluppo economico sia più importante di quello democratico; il 54% dichiara che sosterrebbe un governo autoritario, se questo proponesse un progetto credibile di risoluzione della crisi economica; il 44% (la maggioranza relativa) crede che la democrazia non sia la formula istituzionale più adatta a risolvere i tanti problemi sociali che affliggono il paese. Moltissimi sono coloro che affermano che al Governo dovrebbe essere consentito di ripristinare o mantenere l’ordine sociale anche attraverso l’uso (e non la minaccia) della forza. Insomma, un quadro preoccupante se si pensa che le giovani democrazie sudamericane sono ancora istituzionalmente fragili, mentre la popolazione povera di questi paesi, che è anche la maggioranza, da tempo dà segni di insofferenza. Eccone alcuni aspetti:

Da mesi, in Bolivia, gli attivisti di Aymara e gli indiani Quechua, di gran lunga la fascia più povera della popolazione, hanno occupato le stazioni di polizia in dozzine di villaggi, cacciando le autorità locali. In Argentina, il governo federale, già assediato dalle proteste a seguito del recente tracollo economico, ha da poco rimosso il Governatore eletto della Provincia di Santiago del Estero, coinvolto in uno scandalo di corruzione e cronaca nera, lamentando il problema della pratica sistematica di violazione della legge da parte delle autorità periferiche. A Gennaio, nella Repubblica Dominicana, uno scandalo bancario e la crisi economica hanno generato una violenta protesta popolare in cui molte persone sono rimaste uccise, mentre il Presidente Hipolito Mejia è stato messo sotto torchio dai suoi stessi compagni di partito, che lo accusano di frode in occasione delle elezioni primarie. In Perù, il Presidente Alejandro Toledo, che ha recentemente sostituito il governo autoritario di Alberto Fujimori, fatica a rimanere a galla e un sondaggio mostra che la sua popolarità è scesa all’8%. In Venezuela si è sfiorata la guerra civile a causa di una sollevazione della classe media sostenuta dai sindacati (tutt’altro che in buona fede) contro il Presidente Hugo Chavez, eletto democraticamente, che oggi rischia di essere defenestrato a colpi di referendum. Dal 2000 ben quattro Presidenti si sono dimessi più o meno volontariamente prima della scadenza istituzionale del loro mandato.

Il segretario generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, afferma che “la soluzione per l’America Latina non è il ritorno all’autoritarismo, ma il rafforzamento delle istituzioni democratiche”. Siamo d’accordo. Ma se proprio i cittadini delle classi inferiori, cioè quelli che almeno formalmente dovrebbero trarre giovamento da una democratizzazione del sistema, mostrano di non aver fiducia in un simile approdo, come poter sperare in un suo compimento? In Sud America vale lo stesso discorso fatto per l’Iraq. I latinoamericani identificano la democrazia con gli Stati Uniti, un paese che lì, come in Medio-Oriente, ha sempre portato avanti una politica di sciacallaggio politico ed economico per puri interessi nazionali. All’adozione repentina delle regole formali della democrazia non è corrisposta una trasformazione materiale dei comportamenti politici, e questo si percepisce a livello di consapevolezza pubblica.

Inoltre tutto il Sud America, ed in particolare quei paesi, come l’Argentina, che recentemente hanno dovuto affrontare crisi economiche di portata epocale, subiscono il costante ricatto del Fondo Monetario Internazionale, che presta loro denaro in cambio dell’adozione di politiche radicalmente liberiste. I paesi economicamente in crisi, però, non hanno bisogno di libertarismo economico, ma di regolazione pubblica, pena il vedere gli investimenti andare altrove e le privatizzazioni trasformarsi in svendite, a scapito, come al solito, delle classi economicamente subalterne.

Questa ricerca dimostra che la democrazia deve essere il prodotto di una scelta consapevole del popolo sovrano e non un’imposizione esterna dovuta al cambio di strategia politica del paese colonizzatore. Nello stesso tempo, mette in evidenza ancora una volta che non è possible scindere sviluppo strutturale (socio-economico) e sviluppo sovrastrutturale (politico-istituzionale). Come ha notato anche il politologo americano Robert Dahl (certo non un pericoloso marxista), la serenità o meno delle dinamiche democratiche non può essere svincolata da un processo di sviluppo economico in senso egualitario.

Insomma, la democrazia è un sintomo di crescita, non una cura, nè tantomeno un terapia d’urto.

Fabio de Nardis