di Marco Cedolin
Quello della solidarietà internazionale è un universo estremamente composito che negli ultimi decenni ha conosciuto una crescita esponenziale in grado di stravolgere in profondità tanto gli obiettivi originari dei progetti quanto le dinamiche attraverso cui le varie organizzazioni interagiscono con le realtà specifiche all’interno delle quali si trovano ad operare.
Si stima che nel mondo siano attive ad oggi almeno 50.000 ONG che ricevono oltre 10 miliardi di dollari annui di finanziamenti ed occupano centinaia di migliaia di operatori distribuiti su vari livelli, più della metà dei quali provenienti dai paesi occidentali.
La sola Associazione delle ONG Italiane raggruppa 160 organizzazioni, si interessa di 3.000 progetti in 84 paesi del mondo, occupa 5.500 persone e gestisce 350 milioni di euro l’anno.
Se un tempo dedicarsi alla solidarietà internazionale rappresentava una scelta di vita “per pochi”ardimentosi idealisti che avevano deciso di mettersi al servizio del prossimo, oggi quello in mano alle ONG è un vero e proprio mercato economico gestito attraverso le regole del marketing da professionisti della “solidarietà” formati per mezzo di master universitari e corsi di specializzazione che abbracciano le tematiche più svariate spaziando dal peacekeeping al commercio equo, alla cooperazione allo sviluppo.
Proprio fra le pieghe del termine “sviluppo” impropriamente usato ed abusato quale sinonimo di benessere e prosperità, si può cogliere l’approccio strumentale attraverso il quale l’occidente interagisce nei confronti di società e culture differenti, senza prestare alcuna attenzione alle singole specificità.
Il sistema politico ed economico occidentale, caratterizzato dal consumismo più sfrenato, dalla mercificazione dell’esistente, dall’appiattimento dei valori morali ed umani sull’altare dell’economicismo, ... ... viene assunto come “modello” da esportare dappertutto in un mondo che si vuole sempre più globalizzato e convertito ai dogmi del sistema sviluppista. Colonialismo e neocolonialismo hanno sradicato culture millenarie ed economie di sussistenza basate sul rapporto armonico con la natura, attraverso guerre ed invasioni spesse volte definite ipocritamente preventive o umanitarie, causando l’impoverimento d’interi continenti, la cui popolazione è stata costretta a “competere” nell’arena della modernità industriale senza avere i requisiti per poterlo fare.
Il modello occidentale basato sul miraggio della crescita infinita continua a fagocitare nuovi popoli e nuovi territori, alla perenne ricerca dell’energia che gli consenta la sopravvivenza e del “capitale umano” necessario ad alimentare la macchina di produzione. Si tratta di un atteggiamento invasivo e distruttivo attuato con supponenza senza il minimo rispetto per le differenze politiche e culturali, in totale spregio di ogni dimensione comunitaria di scambio e reciprocità locale. La cultura dello “sviluppo” forte della propria aggressività e dei falsi valori di civiltà di cui si fregia in maniera arbitraria ed autoreferenziale, continua ad imporre sé stessa in totale spregio delle altre culture, degli stili di vita differenti e del diritto all’autodeterminazione dei popoli.
L’universo della solidarietà internazionale si muove nell’alveo della cultura sviluppista, proponendosi di porre rimedio alle devastazioni create dallo sviluppo, proprio attraverso pratiche politiche, sociali ed economiche che si basano sullo stesso concetto di sviluppo, il più delle volte corredato dall’aggettivo sostenibile. Il corto circuito logico alla base di un simile progetto risulta evidente ed esso va letto alla luce delle profonde trasformazioni che dagli anni 80 ad oggi hanno caratterizzato le organizzazioni dedite alla solidarietà, limitandone in profondità l’autonomia di movimento. Abbandonato lo spontaneismo le ONG hanno dovuto nel corso degli anni assumere una veste molto più strutturata, al fine di essere riconosciute dai grandi organismi mondiali e dai governi nazionali, in modo da potere avere accesso ai finanziamenti e agli sgravi fiscali.
Tale trasformazione suffragata dalla necessità di evitare sprechi, disfunzioni e malversazioni ha in realtà contribuito a rendere il settore poco trasparente, arrivando ad incidere in maniera notevole sulla stessa natura “non governativa” delle organizzazioni. La possibilità per le ONG di realizzare progetti di assistenza ed aiuto accedendo ai finanziamenti necessari è infatti subordinata al riconoscimento a loro accordato da parte dell’ONU, della UE, della Banca Mondiale e degli altri organismi governativi. Questo fa si che i progetti delle organizzazioni umanitarie finiscano per doversi conformare agli interessi dei propri “donatori” anziché alle esigenze reali delle persone interessate, creando in questo modo una sorta di sudditanza fra coloro che si propongono di lenire le sofferenze e quegli organismi governativi che hanno contribuito al loro dilagare.
Sostanzialmente l’azione delle ONG, nonostante l’impegno e la buona fede di molti fra coloro che in esse si adoperano, sta diventando sempre più funzionale agli obiettivi politici ed economici dei governi e le organizzazioni umanitarie si ritrovano sempre più spesso costrette ad assecondare le strategie militari, fino a diventare parte integrante dei processi di “stabilizzazione” successivi ai conflitti armati, nella misura e nei modi voluti dai vertici degli eserciti. Così come è accaduto e sta accadendo nella ex Jugoslavia, in Afghanistan e in Iraq le ONG hanno finito per interpretare il ruolo ambiguo di garanti del processo di democraticizzazione ottenuto tramite “l’esportazione armata” della cosiddetta democrazia liberale che ha imposto lo smantellamento di qualsiasi forma di democrazia di base, partecipazione alla gestione del bene e comune e aggregazione sociale esistente in loco.
Altrettanto spesso le ONG si ritrovano a gestire il cospicuo business degli aiuti con la partecipazione degli elementi più opportunisti della vecchia classe dirigente, contribuendo a creare una sorta di elite composta da una ristretta cerchia di funzionari il cui potere è determinato dall’ingente disponibilità di risorse finanziarie in loro possesso.
Un esempio su tutti delle contraddizioni che caratterizzano il mondo della solidarietà ci è stato fornito dalla recente storia dell’Afghanistan. Nel 2001 tutte le ONG presenti in loco lasciarono Kabul prima dell’attacco americano, proprio quando sarebbe stato maggiormente necessario l’intervento umanitario. A guerra finita tornarono più numerose di prima con corredo di jeep nuove fiammanti e grandi disponibilità di denaro, parte del quale fu usato per affittare o acquistare immobili a prezzi di molte volte superiori a quelli di mercato.
La maggior parte del denaro donato alle organizzazioni umanitarie spesso non raggiunge infatti coloro che soffrono ma viene dissipato nei mega stipendi e rimborsi spese degli alti dirigenti, nella remunerazione generosa degli altri dipendenti, negli affitti o acquisti d’immobili e autovetture e in altre spese accessorie non sempre indispensabili, con la prerogativa di privilegiare negli acquisti di prodotti e servizi le aziende del paese che fa le donazioni.
Il mondo della solidarietà riflette in larga misura le storture della nostra società occidentale ed ha ormai tutti i connotati di un business in espansione all’interno del quale molti ambiscono a ritagliarsi una “posizione” per motivi di profitto e di prestigio. La presenza delle ONG “allineate” è gradita tanto alla politica che attraverso di esse purifica la propria immagine e la propria coscienza, quanto agli apparati militari che ne sfruttano le capacità stabilizzatrici, quanto ai grandi poteri economici e finanziari che usano le organizzazioni umanitarie come teste di ponte per cogliere le grandi opportunità connesse alla ricostruzione.
Nonostante molte persone siano animate dalle migliori intenzioni ed operino in totale buona fede, larga parte delle ONG si è ormai discostata dagli obiettivi di solidarietà ed aiuto del prossimo che dovrebbero essere la base di ogni progetto umanitario.
Si può infatti aiutare veramente gli altri solamente riconoscendoli come tali, rispettando la loro identità culturale e attribuendo loro la nostra stessa dignità. Qualunque forma di solidarietà matura deve essere vissuta all’insegna della reciprocità e non può prescindere dal rispetto delle peculiarità del prossimo, senza la pretesa di volerlo “convertire” ed appiattire sulla falsariga del nostro modello di società, senza doverlo per forza di cose considerare un “selvaggio” in via di sviluppo.
Marco Cedolin
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