Metti un Cristo troppo umano sulla croce (Scorsese), e fai incazzare i neri del Bible Belt, che lo vogliono inarrivabile e divino. Metti un Cristo troppo bianco sulla croce (Mel Gibson), e fai incazzare gli ebrei, che lo trovano troppo antisemita. Metti un Cristo troppo nero sulla croce - è questo il caso di oggi - e fai incazzare i bianchi, che si sentono offesi e degradati. (Se poi vuoi farli incazzare tutti insieme, metti in croce un Cristo donna, come fece una scultrice americana qualche anno fa, e lì il putiferio è assicurato. Ma questo un altro discorso.)
Oggi tocca, come dicevamo, al regista sudafricano Mark Dornford-May giocarsi la carta dell'iconoclasta, appendendo alla croce l'attore africano Andile Kosi, nel film "Son of Man" (Figlio dell'Uomo), in concorso al Sundance Film Festival.
Ecco quindi che il film "palesemente dissacratore" perde tutta la sua forza ... ... già in partenza, presentandosi nel tempio convenzionale della dissacrazione per eccellenza: Sundance infatti è il festival cinematografico "alternativo", che da anni lancia i finti rivoluzionari dello schermo, per poi subito inghiottirli e metabolizzarli nella grande macchina produttiva - Hollywood - che sta a poche centinaia di chilometri di distanza.
Alberto Moravia diceva "il ruolo sociale dell'artista è quello di essere antisociale".
E' invece interessante notare come, in un mondo in cui domina il pensiero "scientifico", guidato da esseri "razionali", pieno zeppo di sedicenti "atei", costellato di "stati laici", che godono tutti pomposamente della "separazione fra Stato e Chiesa", un argomento come quello del Cristo sia in grado di accendere regolarmente delle polveriere praticamente inesauribili.
Mark Dornford-May ha collocato la sua storia in un ipotetico stato africano moderno, facendo del protagonista - un poveraccio qualunque nato in una bidonville qualunque - un vero e proprio rivoluzionario, con tanto di mitra in braccio. "Cristo era nato in un paese oppresso e occupato - ha detto il regista - ma predicava l'uguaglianza, e questo non piaceva molto a chi comandava in quel momento". Ecco quindi il parallelo con la moderna Africa, oppressa e depredata dall'occidente, che la mantiene in costante stato di guerra e di sudditanza.
Sai che idea.
Eppure il regista la racconta come uno che avesse appena scoperto la cura per il cancro, o trovato la soluzione al quinto Teorema di Euclide. Ma poi si tradisce da solo, rivelando la più bieca ipocrisia conformista, quando ci dice che "comunque il mio Cristo è di origine divina, e sua madre rimane una vergine".
Ti pareva. L'Africa travolta dall'AIDS, che non ha nemmeno l'autorizzazione ad usare il preservativo, aveva giusto bisogno di un Cristo la cui madre non ha mai dovuto confrontarsi con i più elementari problemi anticoncezionali. (Metti che ti toccava pure prendere posizione, a quel punto….)
"Però la mia Maria ha abbastanza personalità da mettersi a discutere con gli angeli", aggiunge il regista, con un sussulto tardivo che sa di coda di paglia lontano un miglio.
Va bene, vediamoci anche questo Cristo nero allora. Quando saremo arrivati al Cristo jamaicano, con lo spinello in bocca, il volto di Madonna tatuato sul bicipite, e il baschetto alla Che Guevara sulle ventitrè, sapremo di essere finalmente alla frutta.
Mentre tutti tornano ad azzuffarsi sull'icona tramandataci dalla storia - era bianco, era nero, o era verde? - senza scavare di un solo millimetro nella sostanza, nessuno pare ancora volersi occupare di quale sia stato, almeno secondo i documenti storici oggi disponibili, il vero messaggio lasciato da quel signore - divino o umano che fosse - che rispondeva, con tutta probabilità, al nome di Jeshua ben Pandera.
Massimo Mazzucco