(Pubblicazione originale: 8/2/2007) All'età di nove anni vissi i novanta minuti più intensi della mia vita (fino a quel momento, si intende). Fu in occasione della finale intercontinentale Inter-Independiente, che ascoltai alla radio perchè mio padre era contrario all'acquisto della TV. Diceva che serve solo a rincoglionire la gente.
Quell'emozione fu superata l'anno seguente, in occasione della nuova finale di Coppa Intercontinentale. Quel giorno mio padre - che ancora si rifiutava di comprare la TV - mi portò in un bar di Milano, dove c'era una grande sala con la televisione. Fra le dense volute di fumo, seduto nelle ultimissime file, ricordo ancora la magia di quei piccoli fantasmi in bianco e nero che si muovevano veloci sullo schermo. Erano loro, i giocatori, in carne ed ossa. Per la prima volta "vedevo", fisicamente, una partita di calcio, mentre fino al giorno prima le avevo solo immaginate, ascoltandole alla radio.
Quando ci furono i mondiali del '70, mio padre dovette finalmente cedere alle pressioni dei figli, e così potemmo goderci la storica semifinale Italia-Germania dal televisore di casa nostra. Ho ancora impresso negli occhi l'ultimo goal di Rivera, che si sovrappone continuamente all'urlo infinito di Tardelli, nella vittoria mondiale dell'82, sempre contro la Germania.
Ormai il calcio in TV era diventato un'abitudine, con la Domenica Sportiva che anticipava nella sua breve sintesi tutto quello che si sarebbe discusso il giorno dopo al bar, sugli autobus e nei luoghi di lavoro.
Ma la cosa finiva li. Il calcio era un evento episodico, che iniziava a riscaldarsi il sabato, esplodeva la domenica, e il lunedì sbolliva, appunto, con i lazzi e gli sberleffi fra i tifosi delle parte avverse.
Poi accadde qualcosa di speciale. Fu un piccolo evento, all'apparenza, … … ma era destinato a cambiare per sempre la nostra percezione del gioco del calcio. Era nata "la moviola". La Domenica Sportiva non era più soltanto una serie di goal recitati alla velocità di un rosario, che iniziava e finiva nell'arco di pochi minuti. Ora con il "ralenti" si poteva vedere e rivedere all'infinto quella maledetta palla che picchava sotto la traversa, alzava una nuvoletta di polvere bianca all'interno della porta, e poi rimbalzava di nuovo in campo, finendo fra le braccia del portiere allibito. "Rivediamolo ancora una volta, al ralenti…" ci diceva il televisore, e milioni di occhi si fissavano attenti su quella macchia chiara che si spostava veloce sul fondo scuro: la palla aveva o non aveva oltrepassato del tutto la linea bianca? L'arbitro aveva fischiato il goal, ma se la palla era entrata tutta, come si spiegava la nuvoletta bianca? Bastava inoltre la rotazione presa sotto la traversa, per giustificare il suo ritorno in campo, se era entrata del tutto?
Di fronte a questi dilemmi esistenziali, la chiacchierata al bar del lunedì mattina cominciava a non essere più sufficiente: la moviola aveva compiuto il miracolo di moltiplicare all'infinito un qualunque istante di una qualunque partita visto da qualunque angolazione, e questo moltiplicava automaticamente per mille le questioni da chiarire nella mente dei tifosi.
Nacque cosi "Il processo del lunedì", che rimandava al giorno seguente la "chiusura dei conti" fra le parti avverse al bar, a scuola o sul luogo di lavoro.
"Il processo" ebbe un grande successo, e portò automaticamente alla nascita dell' "Appello del martedi", prolungando così fino al mercoledì mattina tutte le diatribe sorte nei brevi 90 minuti di campionato, la domenica precedente.
A quel punto, qualcuno deve essersi accorto che c'era un'immensa audience potenziale, tanto affamata di pallone quanto facile da accontentare. Volete mettere quanto costa produrre un'ora di sceneggiato TV, anche il più trucido e inguardabile, rispetto a un'ora passata a fissare una palla che rimbalza su una qualunque linea bianca di un qualunque campo di calcio italiano?
Erano anche, casualmente, gli anni in cui gli imprenditori edili sognavano di mettere su delle televisioni private, e grazie a qualche aiutino da parte dei politici ci riuscivano pure.
Crebbero così i canali a disposizione del cittadino, e crebbero anche, in progressione geometrica, i programmi dedicati al calcio. Poi vennero i programmi su quei programmi, e infine i programmi che prendevano in giro i programmi su quei programmi dedicati al calcio.
Di colpo non esisteva più quel momento isolato, unico e irripetibile, dei "90 minuti giocati tutti d'un fiato", passati trattenendo il respiro con l'orecchio incollato alla radiolina, ma ci si trovava a galleggiare in un universo permanente, omnidirezionale, nel quale le singole azioni di quei 90 minuti si spezzettavano, si moltiplicavano, e si rifrangevano all'infinito, pervadendo il nostro spazio mentale per buona parte della settimana lavorativa.
E se per caso si presentava un momento di stanca, c'erano sempre le Coppe a riempire le nostre discussioni, insieme al recupero del martedì, l'anticipo del sabato, la notturna del giovedì, l'allenamento del lunedì mattina e lo spareggio del venerdì pomeriggio.
E tutto passava regolarmente in TV.
Ma, come tutti sappiamo, i programmi televisivi significano soldi per chi li produce. Sono i soldi della pubblicità. E quando tanti soldi si muovono insieme, fanno molto rumore.
I calciatori cominciarono a capire di non essere più soltanto degli sportivi amati dalla fauna locale, ma dei personaggi in grado di richiamare, con un colpo di tacco o una rovesciata volante, legioni e legioni di telespettatori che si volevano gustare quel momento all'infinito.
Nacquero i contratti miliardari. E i contratti miliardari fecero ancora più rumore, destando l'interesse del mondo dell'industria verso questa nuova genìa di eroi popolari, a cui avrebbe potuto affidare il ruolo di testimonial dei prodotti più disparati.
I calciatori si trasformavano così in manichini in carne ed ossa, gestiti da uno stuolo di manager, segretari e press agent, e griffati dalla testa ai piedi. Bastava che tenessero la bocca chiusa, e il successo popolare era assicurato.
Elevati al ruolo di star, cominciarono a vedersi attorniati da donne sempre più appariscenti, che andavano lentamente sostituendosi alla fidanzata di paese, "salita a nord" dieci anni prima con il calciatore in cerca di fortuna.
E' la legge, impietosa, degli
status symbol.
Le riviste si accorsero a loro volta che la scappatella della fidanzata di un calciatore poteva fare copertina esattamente quanto l'ultimo flirt di Ornella Muti, e così il cerchio si chiuse: il confine fra sport e spettacolo era stato annullato per sempre, e indietro, da quel punto, non si sarebbe più tornati.
Ma all'interno di quel cerchio c'era un prigioniero: il tifoso di una volta, che era rimasto completamente spiazzato da questa rapida e profonda trasformazione, e faticava ad adeguarsi. Il meccanismo originale di identificazione, che gli permetteva di vivere - nella pelle dei suoi idoli preferiti - quei 90 minuti settimanali di profonde emozioni, si trovava ora diluito in tutta la sua vita quotidiana, dal mattino del lunedì fino a notte inoltrata della domenica successiva.
Non bastava quindi più andare al bar il lunedì mattina, e schernire l'amico tifoso per i goal presi nel derby del giorno prima. Ora le tensioni fra le fazioni opposte si estendevano anch'esse per l'intera settimana, ricalcando fedelmente "i problemi" proposti dalle mille trasmissioni televisive dedicate al calcio.
Ma se due persone discutono ininterrottamente, 24 ore al giorno per sette giorni alla settimana, senza mai infrapporre il giusto tempo della distensione, la discussione è destinata prima o poi a diventare un litigio furibondo.
E quando a litigare in continuazione non sono due individui, ma le opposte tifoserie di due diverse città, la "guerra della domenica" è un risultato garantito.
Quando nacquero i primi scontri, sarebbe stato relativamente facile intervenire: bastava una sana campagna nazionale contro la violenza, sponsorizzata da tutti gli atleti più conosciuti, con la chiara emarginazione delle frange più violente, e si poteva ancora far rientrare il tutto nella normalità.
Ma qualcuno deve aver capito che al cittadino con la mente perennemente occupata dalle faide di campanile, restava ben poco tempo per porsi domande di ben altra portata, e deve aver trovato opportuno lasciare che le cose rimanessero così. Anzi, ha probabilmente fatto in modo che peggiorassero, istruendo e aizzando le forze di polizia ad agire in maniera sempre più violenta, con il chiaro scopo di alzare ancora di più la tensione, invece di placarla.
È stato detto che chi controlla i soldi controlla il mondo. A questo punto basta aggiungere che chi controlla il calcio controlla i soldi, e non abbiamo più nessun bisogno di litigare l'uno con l'altro per cercare di capire se è stata la bomba-carta piuttosto che il sasso lanciato contro il suo fegato a uccidere il poliziotto di Catania.
Non ha nessuna importanza il motivo preciso per cui è morto. É lo scontro fra i due che non avrebbe mai dovuto esserci.
Vittima e assassino sono due proletari qualunque, identici nelle loro passioni, identici nelle loro paure. Diversi nella loro divisa, ma ambedue strumenti dello stesso meccanismo di controllo sociale, che utilizza ormai fin troppo palesemente il calcio come valvola di sfogo per tutte le ingiustizie e le frustrazioni che i cittadini si trovano quotidianamente ad affrontare, proprio a causa di chi ci comanda: chiunque passi oggi un solo minuto a discutere se la colpa è stata della polizia o dei tifosi, avrà fatto soltanto un grande regalo a chi ha saputo metterci così astutamente e cinicamente gli uni contro gli altri.
Mio papà aveva ragione: la TV rincoglionisce la gente.
Massimo Mazzucco
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