di Davide Oggionni
Marco Badiali aveva quarantotto anni ed era a cavallo della sua passione quando si è trovato a terra, con un filo spinato conficcato nella giugulare, la carotide squarciata.
E' un'immagine volutamente forte, quella che descrive la morte assurda di un giovane motociclista.
Ne sentiamo tante: bambini seviziati da insegnati dell'asilo, ragazzine uccise in metropolitana, sparatorie da far west tra cinesi milanesi, rom che investono motorini da ubriachi, governi di superpotenze che organizzano auto-attentati per poi addossare la colpa ad organizzazioni fino a quel momento sconosciute.
Ne sentiamo tante, ed ognuno si ferma, se si ferma, a riflettere su questo o su quello. Fisiologicamente è impossibile stare a rimuginare su ogni avvenimento del mondo: non basterebbero cento vite per farlo.
Ma questo avvenimento ha una caratura così grottesca, così incredibile, che si rende necessario un attimo di riflessione. Hannah Arendt parlava della banalità del male, ... ... parlava dei nazisti. Il discorso è complesso, ma un riassunto può essere: non è necessario essere pieni di pura malvagità, figli del demonio, orchi fuori di testa, per fare il male più grande.
Anzi, il male più grande si alimenta e si compie grazie alla banalità più patetica, alla semplicità più disarmante. Per trucidare milioni di persone non occorre essere tutti Hitler. Infatti, di Hitler uno solo ce n'è stato. Ma ci sono state migliaia di militari, poliziotti, semplici cittadini, che hanno realizzato le idee di un mitomane evasore fiscale di periferia senza batter ciglio. Affrontando la cosa come il giorno prima affrontavano il cappuccino e la brioche.
Ci spiega come sia orrendamente semplice fare del male, perché proprio la banalità dello stesso ne rende facile l'attuazione. Diceva molto altro, la Arendt, diceva molto meglio. Ma questo ci basta per capire, o meglio intuire, come quel filo spinato abbia stroncato la vita di Marco.
Ci si chiede com'è possibile anche solo pensare una cosa del genere. Ci si chiede quale raptus abbia fulminato i neuroni di quel contadino, quale forza sia in grado di ottenebrare qualunque emozione umana (non per forza intesa come pietà, ma come semplice sentimento proprio dell'essere umano-animale) tanto da permettergli di fare una cosa simile.
Per chi non lo sapesse, Marco Badiali era un appassionato di moto, di cross. Percorreva, insieme ad amici, le mulattiere. I sentieri. Un giorno maledetto, lungo una pista conosciuta e più volte percorsa, viene abbattuto da un filo spinato teso ad altezza della gola. Il giorno prima quel filo non c'era.
Un filo spinato. Un filo spinato ad altezza gola. Altezza gola.
Ciò significa aver pensato, e voluto, uccidere qualcuno. Ma non ucciderlo e basta. Ucciderlo in maniera vile, subdola, brutale, infame. Sadica.
Sono questi i momenti in cui si perde a nostra volta il lume, si desidera che la pena di morte possa essere un'opzione, per la legge. Si cede alla tentazione di immaginare una possibile tortura da infliggere al colpevole.
Ma più che questo, è utile cercare di capire cosa porta ad un episodio degno della più becera sceneggiatura da film horror.
Un individuo che segue la sua passione. Una passione totale, quella delle moto, condivisa da moltissimi giovani e meno giovani. Una passione che spesso porta la persona più mite a fare sciocchezze. Una passione che ti regala tanto. Una passione che quando ti prende non ti lascia più. Andare in moto per alcuni è una droga, per altri una distrazione, per taluni divertimento, per certi una soddisfazione. Sia come sia, la moto ti entra dentro. Ognuno la saprebbe spiegare in modo diverso. Ci sono le mele marce, come in ogni cosa, ma se ci si addentra nel mondo dei motociclisti ci si accorge che gente di ogni estrazione sociale, orientamento politico, carattere, provenienza ed ogni altro elemento di distinzione grazie alla moto condivide uno spicchio di cuore.
Una passione che porta con se, più di tante altre, una dose di pericolo non indifferente. Calcolata.
Un altro individuo. Con le sue passioni. Proprietario o meno del campo attraverso cui passano Marco, i suoi amici e tanti altri fratelli. Proprietario o meno di campi contigui. Forse esasperato per giusta causa. Magari solamente intollerante. Forse un sadico senza ragione, come il bimbo che taglia la coda alla lucertola o fa esplodere il petardo nel formicaio.
Questo secondo individuo si sente in diritto di porre fine a ciò che lo tormenta. Tende, con coscienziosa precisione, un cavo di ferro intrecciato munito di acuminati spuntoni. Forse lo recupera dal magazzino. Magari lo acquista nuovo nuovo dal ferramenta per l'occasione.
Può sapere che quel cavo ucciderà? Magari lo spera, forse non si rende conto. Certo è che non si tende un filo spinato ad altezza gola lungo una strada battuta da motociclisti, escursionisti, ciclisti, e persino da fantini, senza un motivo.
Una società in cui il concetto di legge è evidentemente lontano, ma questo accade dalla notte dei tempi. Una società dove è sentimento comune che la giustizia fai-da-te sia molto più efficace della trafila burocratica. Le ronde notturne nelle città del nord est. I campi rom bruciati nella notte. I gioiellieri che sparano alle spalle del ladro in fuga. Una società dove ormai il non avere fiducia nelle istituzioni non è un sintomo di degrado ma una banale componente della vita giornaliera.
Si occupano le case popolari non più per disperazione, ma per convenienza.
Cercare giustizia per proprio conto non è nemmeno più percepito come atto di trasgressione. E' il primo, spesso unico, modo di agire.
Ogni azione è privata del proprio contenuto. Del proprio significato. Non si spiega altrimenti l'idea di tendere un filo spinato per impedire al motociclista il transito.
Non è insensibilità. Non sono le immagini di morti ammazzati al telegiornale delle venti, né i videogiochi.
L'uomo ha raggiunto un tale grado di disillusione che si permette ogni pensiero senza nemmeno comprenderne più il senso.
Ragazzini che violentano una coetanea e pubblicano su internet il video girato con il cellulare.
Una madre che uccide con indicibile violenza il proprio pargolo per poi passare anni, in tv, a professare la propria innocenza con preoccupante naturalezza. Che sia in buona fede? Che non ricordi davvero? Che non sia stata lei?
Un ragazzino che si uccide a sedici anni per gli sfottò dei compagni.
Non è la quantità di notizie agghiaccianti a preoccupare, perché un semplice calcolo statistico spiegherebbe l'aumentare di tale episodi con l'aumento della popolazione mondiale. Una copertura mediatica strillona e capillare rende più evidente ciò che verosimilmente succede da sempre.
Sono le modalità. Uno studente che uccide trenta persone in un campus, senza logica apparente.
Un presidente che balla ritmi africani avendo sulla coscienza migliaia di anime tra New York ed Iraq.
Non si tratta di dire che c'è qualcosa di sbagliato in tutto ciò. Non si tratta nemmeno di capire come risolvere una situazione evidentemente irrisolvibile. Perché chi parla di speranza e redenzione per l'essere umano si dimostra semplicemente sciocco. Solo un nuovo diluvio universale potrebbe, forse, raddrizzare le cose. Ma risulta faticoso sperare in un avvenimento del genere, non fosse altro che per arrivare a tale speranza occorre attraversare una galassia di contraddizioni, castelli di carta, strampalate teorie, incomprensibili misteri e puerili questioni tutte parte della fede in Dio.
Non si tratta nemmeno di dire che andrà di male in peggio. Né di dire che per come stanno le cose tanto vale farsi i fatti propri, magari vivendo al massimo ogni istante di vita perché la vita è breve.
Non si tratta di fare raccomandazioni ai potenti, o ai propri figli. Né di colpevolizzare la società, o noi stessi, o il passato, o Marilyn Manson.
Ma rendersi conto di tutte queste cose aiuta a crescere. Aiuta a capire che qualunque cosa si voglia fare, qualunque obiettivo ci si ponga, nel suo piccolo ha un valore enorme.
Per la teoria del caos un battito d'ali di farfalla può causare un uragano dall'altra parte del mondo.
Davide Oggionni (comodino)