di Massimiliano Paoli
"L'esistenza di eventuali, quanto non improbabili mandanti occulti, che restano sullo sfondo di questa vicenda, costituisce il principale enigma a cui questo processo non ha dato una convincente ed esaustiva risposta. [...] Appare necessario indagare nelle opportune direzioni per individuare gli eventuali convergenti interessi di chi a quell'epoca era in rapporto reciproco di scambio con i vertici di Cosa nostra e approfondire, se e in che misura, sussista un collegamento tra le indagini di Tangentopoli e la campagna stragista, e, infine, per meglio sviscerare i collegamenti e le reciproche influenze con gli eventi politico-istituzionali che si verificarono in quegli anni".
Estratto dalla motivazione dei giudici della Corte d'assise d'appello di Caltanissetta per il processo inerente alla strage di Capaci.
"Mandanti occulti". Quante volte abbiamo letto o sentito queste due parole apparentemente vaghe, inafferrabili, quasi dietrologiche?
Molte, forse troppe volte.
Troppe perché per lunghi anni, per molte stragi italiane, quelle due parole sono spesso andate a braccetto col termine impunità. Due parole che trasudano verità indicibili. Verità indicibili che si sanciscono sul grande scacchiere della politica internazionale: un'inevitabile partita a scacchi giocata tra stati e lobby sulla pelle di tanti, di troppi. Una partita che ha tolto al nostro paese eccellenze sul fronte morale e professionale, ma soprattutto ha privato esseri umani del calore dei propri cari e viceversa. La più tragica delle banalità.
La nostra storia però di banale ha ben poco.
La nostra storia comincia con le dichiarazioni del vecchio boss di Altofonte (da tempo collaboratore di giustizia) Francesco Di Carlo. L'atmosfera, sul piano internazionale, è quella del riassestamento geopolitico dopo il crollo del muro di Berlino; in Sicilia invece è quella dei veleni, delle missive anonime del famigerato "corvo" di Palermo, del fallito attentato all'Addaura(1) contro Giovanni Falcone, Carla Del Ponte e Claudio Lehmann.
"[...] Di Carlo, nel corso del dibattimento inerente al fallito attentato all'Addaura, ha riferito di aver ricevuto, intorno al 1990, quindi dopo il fallito attentato dell'Addaura, due visite all'interno dell'istituto penitenziario di Full Sutton [situato in Inghilterra], da parte di soggetti appartenenti ai servizi segreti. Di Carlo ha correlato questi colloqui al proposito di eliminazione di Giovanni Falcone. Più in particolare, ha riferito che, nell'istituto penitenziario [...] si è trovato a condividere, dall'86, il regime carcerario con Nezzar Hindawi, soggetto di origine palestinese, che aveva lavorato per i servizi segreti siriani [...]. Nezzar Hindawi era riuscito a procurargli un incontro con soggetti provenienti da Roma, uno dei quali verosimilmente di nazionalità italiana, mentre gli altri tre provenienti da altri Paesi, tutti appartenenti o, comunque, in contatto, secondo quanto riferitogli da Hindawi, con i servizi segreti arabi con ruoli di comando. [...]. Questi appartenenti alle strutture dei servizi segreti, gli hanno richiesto un supporto per un progetto di eliminazione di Giovanni Falcone al quale, in Italia, alcuni personaggi già stavano lavorando. Gli chiesero se poteva fornire loro un'indicazione di individui in grado di agevolare l'esecuzione di un attentato. Francesco Di Carlo, avendo motivi di rancore personale nei confronti di Falcone, che lo «aveva fatto condannare», forniva loro il nominativo di suo cugino Antonino Gioè, il quale, poi, veniva effettivamente contattato. Lo stesso Di Carlo, successivamente, avvertiva Gioè di essere cauto con tali personaggi"(2).
Al riguardo, queste sono le sue rivelazioni:
Mi dissero che in Italia - dichiarerà in seguito ai magistrati - c'era chi lavorava a togliere di mezzo Falcone. E chiedevano un aiuto. Io gli indicai mio cugino Nino Gioè. Poi so che si sono incontrati. Lui [Gioè] mi disse: «Hanno mezza Italia nelle mani, possiamo fare tante cose». Io avevo avuto per amico un generale che comandava i servizi segreti [il piduista del SISMI Giuseppe Santovito] a Roma. [...]. Perciò capivo un po' di servizi e quello che c'era sotto. E allora mio cugino cercavo di guidarlo: «Si, fanno favori, però vedi che al minuto opportuno scaricano, stai attento sempre».
L'unica cosa che potevo dire era questa. Non lo so se poi si era esposto tanto, perché l'ultima volta che l'ho sentito Nino era molto preoccupato.
"Di Carlo ha riferito anche di un secondo incontro, svoltosi a distanza di 4-6 mesi dal primo, una sera intorno alle 20, con quattro personaggi dall'accento americano o inglese, che, mostrando di essere a conoscenza del precedente incontro, lo invitavano a collaborare con la giustizia, chiedendogli informazioni sull'omicidio del banchiere [piduista] Roberto Calvi e minacciandolo di morte. Di Carlo ha aggiunto, inoltre, di aver fatto avere a Salvatore Riina, tramite suo fratello Giulio [...] e [...] Antonino Gioè, una lettera con la quale spiegava quanto era accaduto e di aver avuto, in seguito, nel corso di un colloquio telefonico, assicurazioni da parte di Riina, che lo ha tranquillizzato con la promessa che si sarebbe occupato della situazione e avrebbe risolto il problema"(3).
"Il procuratore [Luca] Tescaroli parlò di «riottosa indisponibilità delle autorità della Gran Bretagna a collaborare per l'espletamento della commissione rogatoria richiesta, tesa a verificare le […] indicazioni [del Di Carlo]»"(4).
Un dato inquietante. Ancora più inquietante se si considerano le ultime dichiarazioni rese sempre da Di Carlo alla corte d’assise di Palermo il 30 gennaio 2014. In questo caso il boss altofontese parla di un terzo incontro che avrebbe preceduto temporalmente gli altri due appena descritti:
“Quando ero agli arresti in Inghilterra, prima dell'attentato all'Addaura, in carcere mi vennero a trovare tre persone. Uno di questi si presentò come Giovanni e mi disse che mi portava i saluti di Mario [Ferraro, agente del Sismi morto in circostanze a dir poco sospette] […]. Mi dissero: «Ci devi fare avere un contatto a Palermo con i corleonesi. A noi ci interessa il ramo politico di certe situazioni». Volevano mandare via Falcone da Palermo perché stava facendo la Dia e la Procura nazionale”(5).
Questa volta però (ed è questo il dato interessante) rispetto agli altri meeting con uomini dei servizi, il collaboratore riesce ad indentificare con sicurezza almeno uno dei partecipanti: è il “superpoliziotto” Arnaldo La Barbera(6).
L'enigma Gioè
Come evidenzia la sopracitata testimonianza, un ruolo centrale nello sviluppo delle trame che vedono protagonista Cosa Nostra (in particolar modo lo zoccolo duro dei cosiddetti corleonesi) e certi settori degli apparati di sicurezza nei primissimi anni novanta, viene ricoperto da Nino Gioè, autorevole esponente della cosca di Altofonte.
Nella "biografia non autorizzata" di Nino si scorge subito un'anomalia: secondo l'ex parà della "Folgore" Fabio Piselli, Gioè era «un ex sottufficiale dei paracadutisti», e quindi «il ministero [della Difesa] lo conosceva bene».
Per molti una dichiarazione del genere risulterà un plateale controsenso mentre invece la presunta contraddizione resta del tutto apparente. Per capire questa logica dobbiamo nuovamente ascoltare le preziose parole del solito Francesco Di Carlo incalzato dal magistrato Nino Di Matteo:
«Voglio precisare – mi scusi Dottor Di Matteo - per noi non sono sbirri i militari dell’esercito […] perché di militari ne abbiamo avuti pure in Cosa Nostra […] ne abbiamo avuti tantissimi fratelli… qualcuno di Cosa Nostra che aveva il fratello colonnello […]. Lo zio di Totò Riina era un maresciallo dell’esercito, fratello di Giacomo Riina, perciò non erano considerati sbirri»(7).
Intervistato dalla giornalista Rita Di Giovacchino per il suo ultimo libro “Stragi”, Di Carlo confermerà la versione di Piselli.
Ma mettiamo momentaneamente da parte questa "suggestiva" pista investigativa e torniamo al boss della "famiglia" di Altofonte ed al suo identikit ufficiale.
*** L'articolo prosegue qui, a pag. 5 del PDF (scaricabile).
*** Di Massimiliano Paoli (m4x) vedi anche "L'affaire Moro: un caso mai risolto".
(Pubblicazione originale: 23 maggio 2013)
Una conca completamente brulla e priva di vegetazione dove e' praticamente impossibile darsi alla macchia, anche solo per 24 ore.
Quando vidi le immagini dell'arresto di Provenzano pensai chissa' in quale anfratto nascosto al mondo l'avranno trovato.
Poi la curiosita' mi porto' li a vedere e quel rudere si trovava a 5 minuti dal centro paese su una delle strade principali per andare ad Agrigento. L'avrebbero trovato anche dei bambini che giocavano a nascondino.
Il pensiero comune che la mafia sia un'entita' autonoma a volte collusa con "alcuni" membri dello stato fa si che rimanga viva vegeta e potente.
La mafia si potra' cancellare solo quando la gente capira' che non e' altro che la parte militare dei servizi segreti alla quale lo stato italiano, non avendo i soldi e le risrse per mantenerla come gli usa con la cia o Israele con il Mossad, ha regalato una parte di territorio per auto finanziarsi.
Come se la strage, così violenta, eclatante, brutale fosse un messaggio (prepotentemente non trascurabile) ai convenuti sul panfilo che era il ministero degli esteri viaggiante degli inglesi (io direi "anglo-assassini"): mi ricorda qualla scena da film in cui il mafioso poggia la pistola sul tavolo pronunciando una frase tranquilla ma minacciosa "questa è una proposta che non potete rifiutare"... non è così?
Del resto, il rito di iniziazione di massoni, gesuiti e mafiosi finisce allo stesso modo, con la spada che punta al petto dell'inziando mentre l'officiante pronuncia la frase (circa): "se ci tradirai, questa spada ti trafiggerà il cuore".
L'Italia è nel mirino degli anglo-terroristi almeno dal 1820 (ormai sono due secoli) quando i "corsari neri" lord Gladstone e lord Silverston si scrivevano "i napolitani non dovranno più essere capaci di intraprendere, non dovranno risollevarsi economicamente, non dovranno avere più nemmeno gli occhi per piangere".
Ora basta sostituire a "napolitani" la parola "italiani" ed il senso, lo spirito malefico, i metodi della perfida Albione non cambiano: l'Inghilterra (ma anche gli USA) NON sono nostri amici, ci divide un oceano di interessi contrapposti.
E loro non sono mai andati (e continuano a farlo) per il sottile: se non possono comprarti, ti tolgono da mezzo.
Anche per questo li chiamo anglo-assassini...
e alla fine mi sono detto..
"embè?"
criptico..
disinformativo..
di difficile comprensione..
di chi è la colpa?
francamente non ho capito..
palestina, inghilterra, ecc. ecc.
tutto un inestrone in cui è difficile venire a capo..
Credo che abbia a che fare. Se la mafia e le organizzazioni hanno questo potere è perché sono protette dai servizi, fin tanto che comoda, controllano il territorio e eseguono il lavoro sporco. L'Italia, da sempre é eterodiretta, se avessimo avuto più autodeterminazione, avremmo un paese eccezionale su tutti i fronti. Invece, ha comodato tenerlo depresso corrotto lavorando, anche, sul senso comune dei cittadini a farli sentire incapaci di autodeterminazione. Ida Magli diceva che dopo l'intervento militare, la potenza egemone "convince" gli occupati di essere inferiori: " nativi americani erano selvaggi fuori dalla grazia di Dio, i Greci come gli italiani sono scansafatiche e evasori" etc etc
Oggi, anche se esistono ancora grosse sacche di illegalità, non esiste più la ramificazione sul territorio di mafia e camorra come prima. Perchè non esiste più un sistema politico che li spalleggia e protegge. E soprattutto perchè ormai i grossi capitali, per delinquere e continuare a fare soldi con la carretta, non hanno più bisogno di una sorta di livello militare che si prenda la responsabilità ed agisca in nome e per conto.
L'impunità di certi personaggi è arrivata ad un tale livello che se la cantano e se la suonano come vogliono loro. E nessuno, che sia la legge o la politica o il buon senso, potrà mai ostacolarli.
La giustezza di questa teoria sta nel fatto che ancora oggi, dopo aver arrestato i capi riconosciuti di Cosa Nostra si parla di mandanti occulti. Ma se stragi della portata di Capaci non sono state ordinate e volute dai vertici di Cosa Nostra, chi rimane capace di ordinare una cosa del genere, seppur sfruttando il braccio militare della mafia??
tutto giustissimo. Fatto salvo per il fatto che l'unico periodo in cui fu realmente combattuta la mafia in Sicilia fu durante il fascismo, tramite il famoso Prefetto di ferro Mori.
Mori arrivò addirittura a sequestrare donne e bambini per ricattare i latitanti e costringerli a costituirsi. Mise in atto il famoso assedio di Gangi e altre cosette del genere.
I motivi che spinsero Mussolini a fare questo probabilmente erano da ricercarsi nel fatto che i più grossi latifondisti siciliani di quel periodo erano per lo più inglesi.
Infatti, una delle cose che fu promessa alla mafia in cambio del loro aiuto per lo sbarco in Sicilia, fu proprio quella di diventare territorio posto sotto il dominio inglese.
Una sorta di Gibilterra in terra italiana
Una parte di Capaci quella vicina alla strada fu evacuata preventivamente per evitare danni collaterali, dato che avevano messo tanto tritolo che non sapevano cosa sarebbe potuto accadere
Hai perfettamente ragione!! L'anglo-sionismo ha creato l'Italia, certamente non è stato Garibaldi e la mafia è da sempre solo la manovalanza dell'anglo-sionismo. Quindi essendo i creatori dell'Italia, ne hanno il totale controllo da sempre, altro che stato sovrano, lira etc.
Interessante ciò che scrivi.
Una fonte puoi darcela?
Disinformativo ? Dev'essere per questo che Ferdinando Imposimato mi scrisse questo su Facebook: "Caro amico lo trovo interessante, mi mandi il cartaceo al Senato corso Rinascimento. mi dia email e cellulare".
Non so dove hai sentito questa storia ma è una balla.
Ora, qualcuno riesce a fare 2 più 2? E cioè viste tutte ste ingerenze di" servizi" di altri paesi, la saldatura tra essi e le nostre organizzazioni criminali, gli omicidi eccellenti, anche Mattei, e di conseguenza, la autonomia energetica, dismissioni di asset strategici, perdita del controllo monetario etc più un colonialismo psicologico che ci fa sentire incapaci di governarci senza l aiuto esterno. Un paese rovinato a causa della sua posizione tra i Balcani e l occidente e infilato nel mediterraneo come una portaerei naturale verso il canale di Suez e l'Africa
E' difficile inquadrare la morte di Falcone e Borsellino se prima non si delinea lo sfondo: il 1992, l'anno in cui, a seguito del crollo dell'URSS e della conseguente fine del bipolarismo geopolitico con tutti i delicati equilibri che ne conseguivano, gli americani si resero conto che era giunto il momento di sbarazzarsi di tutte quelle classi dirigenti in giro per l'Europa che davano prova di eccessiva indipendenza rispetto ai diktat del padrone americano ma che, almeno fino al crollo del Muro di Berlino, costituivano un baluardo contro i pericoli, più o meno reali o immaginifici, rappresentati dall'URSS.
Furono fatti fuori Mitterand, Kohl, la Prima Repubblica italiana e in generale chiunque volesse condurre una politica estranea ai dossier di Washington.
Ma pochi inquadrano le stragi di Falcone e Borsellino in quel particolare momento della storia europea.
Ogni anno, il 23 Maggio, anniversario di quel bottone premuto e di quelle auto saltate per aria con dentro i corpi di Falcone, della moglie e di alcuni agenti della scorta, va in onda la consueta farsa, il consueto piagnisteo di celebrazioni stracolme di dolciastro fumo epitaffico ma completamente svuotate di ogni reale sostanza.
Eh già. Perché da morto è stato eretto a martire della giustizia e della lotta alla mafia: ma pochi ricordano che, da vivo, Giovanni Falcone fu un personaggio tutt'altro che amato da quello stesso ambiente che, con l'unanimità tipica di truppe cammellate comandate a bacchetta, da ventisette anni ne celebra la memoria non attraverso la reale narrazione del suo operato ma racchiudendolo in aforismi, diciamoci la verità, spesso molto banali.
La magistratura che oggi lo celebra, ieri lo contestava.
E quegli stessi grandi giornali della sinistra che oggi in chiave antidemocristiana e antiberlusconiana lo indicano come un monumento all'onestà e alla legalità, ieri lo accusavano di protagonismo. Lo stesso Montanelli, oggi considerato il Vate del giornalismo italiano, a più riprese accuserà i magistrati del pool antimafia di protagonismo, per la verità, talvolta non senza ragione.
Così di Falcone si rischia di ricordare solo le frasi ad effetto da lui pronunciate, ignorando completamente il valore enorme del suo operato ma soprattutto il patriottico spirito di servizio che lo orientava.
Intendiamoci, Falcone non era esente da quel fraintendimento tipicamente italiano di considerarsi, in quanto magistrato, una sorta di oplita del bene, di missionario della legalità, chiamato a lottare contro il Male, rappresentato dalla mafia ma non era soltanto questo: era, anzitutto, un galantuomo ma soprattutto un fior di investigatore.
Inoltre, era un vero riformista del sistema giudiziario, convinto com'era che non funzionasse e che fosse poco adeguato alla lotta contro il fenomeno mafioso.
Soprattutto, Falcone è un gran rompiscatole: fa appena in tempo ad assistere alla nascita di Tangentopoli e si schiera subito contro l'inchiesta. Non discute a priori la necessità di fare pulizia all'interno del sistema italiano, anzi. Ma contesta apertamente i metodi del Pool di Mani Pulite, temendo che questo possa produrre a lunga scadenza una reazione delegittimante nei confronti della magistratura. Avrà ragione lui.
Falcone è favorevole alla separazione delle carriere, un duro colpo a Magistratura Democratica. E proprio lui, che pure metterà a segno l'importantissimo colpo di far pentire Buscetta, contesterà apertamente gli abusi del pentitismo, facendo egli stesso incriminare tantissimi pentiti accusati di usare la collaborazione con la giustizia per regolare conti personali.
Ma non si ferma certo qui: oggi va di moda dare del mafioso a chiunque non si senta forte ed eroico a sufficienza per opporsi ad un potere capace di arrivare a chiunque, Falcone invece contestava il moralismo contro gli imprenditori che pagano il pizzo e che si piegano all'autorità mafiosa: "La mafia - spiegava - è un fenomeno terribilmente serio e molto grave e che si può vincere non pretendendo eroismo da inermi cittadini, ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni".
Un principio che, se inoculato nel pensare comune, taglierebbe le unghie alle lobby antimafiose che a volte sembrano più preoccupate di calunniare qualcuno che di combattere sinceramente il fenomeno.
Altra cosa che pochi sanno: Falcone non stima Di Pietro, ritiene la Procura di Milano politicizzata e poco seria e soprattutto non riesce proprio a spiegarsi l'improvviso iperattivismo del Pool, a fronte di un fenomeno, quello della corruzione, sicuramente esistente ma che nasce da lontano.
Per non parlare delle riforme proposte da Falcone che vanno in netto contrasto con quella visione tipicamente giustizialistica che sta prendendo sempre più piede nel sistema italiano, a partire dalla stampa fintamente antisistema.
Ma c'è di più: Falcone è uomo di Craxi
E' il Gennaio del 1992 e gli americani decidono di dare l'assalto alla politica italiana: iniziano con l'arresto di Mario Chiesa e in generale di tutto quell'universo imprenditoriale legato al pentapartito, tra cui il PSI, tagliando progressivamente le unghie al potere politico.
Craxi, a dispetto delle dichiarazioni di facciata ("Chiesa è solo un mariuolo") intuisce immediatamente quello che sta per accadere e designa Giovanni Falcone a capo dell'ufficio Affari Penali di Roma.
Il compito, ufficialmente, è quello di lottare contro la mafia: nella pratica, Craxi sa benissimo che le procure italiane sono infettate da magistrati in combutta con la CIA, dai quali Falcone e Borsellino non a caso sono odiati.
Non solo: Craxi sa benissimo, da buon conoscitore della storia e della geopolitica internazionale, che la Sicilia è uno snodo di fondamentale importanza per gli americani i quali detengono il controllo mondiale del traffico di droga e, sin dal dopoguerra, la rivendono in Sicilia per poi lavare i proventi del traffico di droga nei paradisi fiscali e poi riportarli in Sicilia dove verranno riutilizzati per corrompere le elite e le classi dirigenti del territorio.
Falcone così va dritto al nocciolo della questione e cerca di venire in possesso di tutta la documentazione che provi l'effettiva connivenza tra gli affari di Cosa Nostra e la CIA.
Falcone rivela al collega e amico Borsellino ciò che aveva scoperto in Svizzera, fidandosi di lui, giustamente perché Borsellino era indiscutibilmente un galantuomo.
Borsellino non era una figura centrale nell'antimafia siciliana: sicuramente era un professionista stimato, capace e perbene ma non aveva le medesime capacità del suo collega né tantomeno la sua stessa scafatezza: pur tuttavia, Falcone si fida ciecamente di lui e sente, a prescindere da tutto, l'esigenza di rivelare ad un amico fidato ciò che ha scoperto.
A questo punto però Borsellino commette una terribile ingenuità che sarà fatale sia a Falcone che a lui: rivela quanto ha scoperto ad un altro collega e carissimo amico siciliano di cui si fida, con cui ha rapporti molto stretti. Nomi non se ne possono fare per ovvie ragioni: vi basti sapere che è un magistrato che negli anni a venire diventerà famoso.
Questo magistrato è uno dei tanti grimaldelli dei servizi segreti americani nella procura di Palermo che, venuto a conoscenza delle indagini di Falcone, informa subito la CIA che così capisce che, tempo pochi mesi, e Falcone proverà a Craxi e forse anche ai media italiani i legami tra il sistema politico americano e la mafia, di cui peraltro molti sospettano, con le conseguenze politiche facilmente immaginabili e, in definitiva, il complotto che sta andando in atto contro la partitocrazia italiana.
Falcone va ucciso ed effettivamente il 23 Maggio del 1992 morirà in quella che tutti conosciamo per essere la strage di Capaci.
Nessuno poteva sapere cosa Falcone aveva scoperto: tranne Borsellino e l'amico e collega a cui aveva rivelato le scoperte di Falcone.
Per Borsellino è un colpo durissimo. Ma non è durissimo tanto perché ha perso un amico, cosa alla quale in fondo era abituato (Chinnici, Costa, Terranova, Montana, Cassarà etc.) e soprattutto preparato psicologicamente: sia lui che Falcone sono uomini di spirito, si divertono a comporre immaginifici necrologi sulla propria morte, ma quando Giovanni Falcone a Capaci salta per aria, in Borsellino succede un vero sconvolgimento emotivo che va oltre il comprensibile dolore per la perdita dell'amico, perché capisce immediatamente perché Falcone è saltato per aria, chi è il mandante e chi è il giuda che lo ha tradito, anche se non ha le prove.
In quel periodo, come è noto, molti testimoni riferiscono di un Borsellino che, piangente, dice "Non posso credere che un amico mi abbia tradito". E l'amico è proprio quel magistrato che Borsellino ha preso sotto la propria ala nell'intento di insegnargli il mestiere.
Borsellino, con Capaci, capisce tre cose: la prima, di essere, ovviamente in perfetta buonafede e involontariamente, lui il responsabile della morte del collega e amico, la seconda di essere stato tradito proprio dal collega e amico carissimo a cui aveva confidato le scoperte di Falcone e la terza la reale entità della politica italiana, ossia di sudditanza totale, una colonizzazione di fatto. Capisce, in sostanza, che l'Italia non è nient'altro che una piccola pedina di un gioco molto più grande e che l'antimafia, di fatto, non serve assolutamente a nulla ed è anzi una grande truffa.
Si tenga conto che Borsellino è un noto simpatizzante del Movimento Sociale, il partito che nel secondo dopoguerra si è assunta l'onere di rappresentare il sovranismo italiano.
Franco Marino prima parte
In verità, la CIA, dopo aver assassinato Falcone, vorrebbe evitare un secondo attentato che rischierebbe di esacerbare gli animi della popolazione già provata sia dagli omicidi di Falcone che da Tangentopoli: così cerca di intimidire Borsellino in tutti i modi, per conto terzi e di dissuaderlo dal portare avanti la sua iniziativa.
Qualcuno ricorderà che ci fu un pentito che volle incontrare Borsellino, confidandogli di essere stato vicino ad ammazzarlo e che alla fine dell'incontro lo abbracciò piangendo, dicendogli che il tritolo per il magistrato è già pronto.
In realtà, al dispetto delle lacrime, quello è l'ultimo avvertimento a Borsellino prima dell'attentato finale: la CIA, attraverso il pentito, cerca di far capire che per Borsellino è giunta l'ora della sua morte e cerca di convincerlo a farsi da parte.
Ma quella è anche la prova definitiva, per Borsellino, che il suo amico lo ha tradito.
Ma il coraggioso magistrato non si fa intimidire e il 19 Luglio del 1992 la CIA, attraverso un gruppo di mafiosi di quart'ordine che confeziona per lui un'autobomba piena di tritolo sotto la casa della madre, pone fine all'ultimo custode dei segreti di quel 1992.
Molti vedono la morte di Falcone e Borsellino come slegata dalle vicende di Tangentopoli.
In realtà, tanto l'omicidio dei due magistrati quanto Tangentopoli rappresentano un'unica strategia: quella di soffocare i propositi autonomistici della politica italiana.
Craxi vuole avviare il processo di riforma istituzionale del paese in senso presidenziale e Andreotti, che pagherà cara questa iniziativa, cercherà di fondare una DC estranea al controllo americano e di tessere legami stretti col Vaticano analoghi a quelli che Putin instaurerà molti anni dopo con la Chiesa Ortodossa, garantendone l'alleanza: entrambi pagheranno cari i loro intenti.
Craxi verrà additato come il simbolo di Tangentopoli, Andreotti subirà un lungo processo dal quale ne uscirà con un'assoluzione e una prescrizione.
Così il 1992 fu niente di più niente di meno che l'anno in cui gli americani, attraverso lo stragismo e la giustizia ad orologeria, riaffermeranno il proprio dominio in Italia.
Alla faccia della libertà e della democrazia di cui si fanno portatori.
Falcone e Borsellino non hanno, in realtà, pagato per la loro lotta alla mafia così come Craxi e Andreotti non hanno pagato per le tangenti o la mafia.
Tutti questi signori sono stati puniti semplicemente per aver difeso l'autonomia politica del nostro paese.
Da parte degli stessi che oggi vogliono screditare qualsiasi serio tentativo sovranistico.
Franco Marino parte seconda