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storia & cultura : L'affaire Moro: un caso mai risolto
Inviato da Redazione il 15/3/2014 17:50:00 (4510 letture)



di Massimiliano Paoli

"Le Br, realizzando l'impresa di via Fani, perseguivano anche lo scopo di affermare la propria egemonia su tutto lo schieramento eversivo ed erano quindi interessate a costruire per la propria organizzazione una immagine di altissima e autonoma efficienza, immagine che una presenza straniera avrebbe invece offuscato. Se ne trova conferma nella risoluzione strategica n.6, laddove orgogliosamente si afferma che «in via Fani, non c'erano misteriosi 007 venuti da chissà dove, ma avanguardie politiche tempratesi nella lotta della classe operaia e addestrate nei cortili di casa»". Dalla relazione della Commissione parlamentare d'inchiesta sulla strage di via Fani, sul sequestro e l'assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia, 28 giugno 1983.

Roma, giovedì 16 marzo 1978, ore 9.02: "Un commando di terroristi, appostato in via Fani all'incrocio con via Stresa, apre il fuoco sulla scorta del presidente della Dc, on. Aldo Moro, uccidendo Raffaele Iozzino, Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Giulio Rivera [e] Francesco Zizzi [...]. Il commando, sterminata la scorta e prelevato Moro illeso dalla sua auto (una Fiat 130), carica l'ostaggio su una Fiat 132 blu e si dilegua"(1).

Inizia così quello che è stato definito già nel lontano 1978 da Leonardo Sciascia, "l'affaire Moro": ovvero quell'insieme di eventi che per decenni hanno spaccato in due l'opinione pubblica italiana e internazionale.

Due le principali correnti di pensiero che si sono scontrate ...

... (e sicuramente continueranno a farlo) nelle decadi passate: quella del "quasi tutto è chiaro e conosciuto", e quella dei cosiddetti "dietrologi". I primi, sulla base di certe risultanze, credono fermamente che la storia del sequestro e dell'uccisione del presidente DC sia nota (nei limiti del possibile) nella sua interezza, e anche se venissero alla luce dei nuovi elementi non subirebbe delle revisioni traumatiche. I secondi, invece, pensano che i pezzi mancanti del puzzle potrebbero riscrivere buona parte del caso.

La tesi preponderante del secondo filone d'inchiesta, quello dei "dietrologi", è il "sequestro in appalto"(2).

Il primo ad aver pubblicamente teorizzato il cosiddetto "sequestro in appalto", è stato il controverso ma sempre ben informato Carmine "Mino" Pecorelli: direttore del settimanale d'informazione "Op", Osservatore Politico.

Questo il suo pensiero a pochi giorni dal tragico epilogo del rapimento: "L'agguato di via Fani porta il segno di un lucido superpotere. La cattura di Moro rappresenta una delle più grosse operazioni politiche compiute negli ultimi decenni in un Paese industriale, integrato nel sistema occidentale. L'obiettivo primario è senz'altro quello di allontanare il Partito comunista dall'area del potere nel momento in cui si accinge all'ultimo balzo, alla diretta partecipazione al governo del Paese. E' un fatto che si vuole che ciò non accada. Perché è comune interesse delle due superpotenze mondiali [Usa e Urss] mortificare l'ascesa del Pci, cioè del leader dell'eurocomunismo, del comunismo che aspira a diventare democratico e democraticamente guidare un Paese industriale. Ciò non è gradito agli americani... Ancor meno è gradito ai sovietici... E' Yalta che ha deciso via Fani"(3).

Una tesi che molto probabilmente troverebbe d'accordo lo stesso Moro. Profetica, in tal senso, un'annotazione tratta da un diario di Andreotti, è il 1977: "[Moro è] molto preoccupato che agenti stranieri di segno contrapposto, ma uniti dallo stesso fine di bloccare l'eurocomunismo, possano essere in azione per mandare all'aria l'equilibrio italiano"(4).

Chi ha sparato in via Mario Fani?

Per quanto incredibile possa sembrare, la domanda apparentemente più scontata non ha una risposta certa.

Destino vuole che la prima versione di comodo fornita da un brigatista, sia anche quella che squarcia una parte dell'alone di mistero sul rapimento del presidente della DC.

Nel lontano 1984, a sei anni di distanza dall'Operazione Fritz (nome in codice dato dalle BR al sequestro Moro), Valerio Morucci, ex membro di Potere Operaio appartenente alla colonna romana delle Brigate Rosse, messo di fronte ad uno sbigottito Ferdinando Imposimato (giudice istruttore del Tribunale di Roma), comincia a "cantare": «Quel 16 marzo 1978 un gruppo di nove brigatisti si portò all'incrocio tra via Fani e via Stresa, disponendosi in varie posizioni, secondo un piano stabilito dalla direzione della colonna romana nel villino di Velletri. Io facevo parte di quel nucleo di assalto. Poiché non intendo fare i nomi degli altri otto brigatisti [nomi che farà nel 1986], ricostruirò le varie fasi, indicando i vari partecipanti con dei numeri ed eseguendo dei grafici per descrivere i necessari movimenti degli uomini e dei veicoli impiegati nell'azione»(5).

Scrive Manlio Castronuovo nel suo libro “Vuoto a perdere”: "Cinque processi hanno permesso di stabilire che il commando di via Fani era composto da non meno di 12 persone: Mario Moretti (alla guida della Fiat 128 [targata Corpo Diplomatico]), Barbara Balzerani (a bloccare l'incrocio con via Stresa), Bruno Seghetti (alla guida della Fiat 130 che trasportò Moro nel primo tratto di fuga), Rita Algranati (con il ruolo di vedetta all'imbocco di via Fani [...]), Alessio Casimirri(6) e Alvaro Lojacono (sulla Fiat 128 bianca posta a sbarramento della strada alle spalle dell'Alfetta di scorta [...]), Valerio Morucci, Raffaele Fiore, Prospero Gallinari e Franco Bonisoli (che, in divisa da avieri, aprirono il fuoco dal lato sinistro di via Fani [...]). Oltre naturalmente i due passeggeri della moto Honda(7), la cui presenza è ritenuta certa dagli inquirenti, ma che nessuno è mai riuscito a identificare".

Il colpo di grazia alle fantasiose versioni dei brigatisti, dissociati e non, verrà dato dall'avvocato Giovanni Pellegrino intervistato nell'ottobre del 2007 dal giornale l'Unità: «Non si sa ancora quanti e chi fossero i brigatisti che parteciparono all'agguato: di certo non i 7 o i 9 di cui hanno parlato sempre i brigatisti. Basti pensare che, per un sequestro come quello assai più facile del giudice Mario Sossi nel 1974, è stato accertato che vi parteciparono 19 brigatisti. C'è da supporre che in via Fani siano stati almeno 20 o 30, e ancora non si conosce la loro identità, salvo rendersi conto - dopo le perizie balistiche - che l'eliminazione della scorta di Moro è stata compiuta da due soltanto, capaci per la loro abilità militare di sparare una gragnuola di colpi in modo da uccidere i cinque uomini della scorta con matematica precisione senza torcere un capello al presidente che era a pochi centimetri da loro».

Certo, la ben nota(8) "abilità militare" delle Brigate Rosse. Abilità militare (e organizzativa) che non ha precedenti, e che guarda caso rimarrà un unicum nella storia dell'eversione italiana.

Ma al di là di questo, sono proprio i conti a non tornare.

"I periti stabiliranno che dei novantatre bossoli recuperati in via Fani, due provengono dalla pistola d'ordinanza dell'agente Iozzino, l'unico della scorta ad avere tentato una pur minima reazione, mentre gli altri novantuno appartengono al gruppo di fuoco brigatista [...]. Le perizie(9) sui reperti recuperati sono riuscite a stabilire che, oltre all'arma di Iozzino, quella mattina in via Fani hanno sparato [almeno] 2 pistole e quattro mitra. Ma tutte le testimonianze, vecchie e nuove, provenienti dall'interno delle Brigate rosse ci dicono che a sparare in via Fani sarebbero stati solo quattro brigatisti e precisamente Bonisoli, Fiore, Gallinari e Morucci. Tutti e quattro hanno spiegato che i loro mitra si incepparono. In particolare: in diverse interviste Bonisoli ha sempre dichiarato che il suo mitra si bloccò «quasi subito». Quindi se ne può dedurre che sparò poco. Anche Morucci ha sempre sostenuto, in interviste, interrogatori, deposizioni processuali e audizioni davanti alle Commissioni parlamentari che anche il suo mitra si inceppò «quasi subito». Gallinari, nel suo libro di memorie, ha scritto testualmente: «Quello che temevo accade: a metà della raffica il mitra si inceppa, estraggo istintivamente la pistola che porto alla cintura, continuando a sparare come se non fosse cambiato nulla». Dal momento che l'alimentazione di una pistola mitragliatrice è di circa trentadue cartucce, se ne può dedurre, con buona approssimazione, che l'arma che spara ventidue colpi (metà della raffica) sia quella di Gallinari. Di recente anche Fiore si è concesso un tuffo nel passato in una testimonianza raccolta dal giornalista Aldo Grandi ha affermato: «Ricordo che premetti il grilletto e il mio mitra, un M12, che avrebbe dovuto essere il migliore, si inceppò subito. Io avevo il compito di sparare sull'autista. [...] Tolsi il caricatore del mitra, ne misi un altro, ma non funzionò egualmente. [...]». Se ne deduce quindi che il mitra di Fiore non sparò affatto"(10).

La testimonianza di Fiore viene corroborata dallo stesso Franco Bonisoli, ascoltato dalla Corte d'assise nell'aprile del 1987 per il processo "Metropoli": «[in via Fani] ci fu un'arma che non sparò tra queste quattro. Praticamente in tempi diversi si incepparono tutte le armi dei quattro avieri - una, come già detto, proprio non sparò».

Il presunto Superkiller

La presenza di un membro «particolarmente addestrato» all'uso delle armi nel commando operante in via Fani (presenza che striderebbe non poco con la preparazione militare dei brigatisti) viene avallata da un testimone di nome Pietro Lalli, presente al momento dell'eccidio nella parte bassa di via Fani, a circa 100 metri di distanza dai protagonisti della carneficina. Questo è ciò che riuscì a scorgere la mattina del 16 marzo: «[Al momento degli spari] mi portai velocemente al centro della strada e guardando in alto, verso la provenienza dei colpi stessi, notai un uomo che all'incrocio, anzi un po' oltre l'incrocio tra via Stresa e il tronco superiore di via Fani, con le spalle rivolte ai locali del bar Olivetti e quindi dando la sinistra alla mia visuale, sparava con un'arma automatica che io, data la mia conoscenza nel settore delle armi, identificai per un mitra con caricatore a doppia alimentazione e funzionante a recupero gas. Assistetti allo sparo di due raffiche complete. La prima un po' più corta della seconda, a distanza ravvicinata rispetto al bersaglio che era una 130 blu. La seconda raffica, più lunga, fu estesa anche a una Alfetta chiara che seguiva la 130, e fu consentita da uno sbalzo indietro dello sparatore che in tal modo allargò il raggio d'azione e quindi del tiro. Quello che mi colpì in maniera impressionante fu la estrema padronanza di detto sparatore nell'uso preciso e determinato dell'arma. Esprimo un giudizio ma doveva essere certamente uno particolarmente addestrato. Sparava avendo la mano sinistra poggiata sulla canna dell'arma e con la destra, imbracciato il mitra, tirava con calma e determinazione convinto di quello che faceva [...]. Dal fatto che ricordo di non aver notato lo stacco di colore dell'arma, devo dedurre che l'individuo calzasse i guanti. Anzi adesso che mi sovviene posso essere sicuro. Sembrava un tipo agile, direi atletico, e dal salto che fece, munito anche di una notevole agilità»(11).

Sfortunatamente, la presenza di un elemento di spicco dal punto di vista militare all'interno del commando, non è stata appurata in maniera definitiva dalle varie perizie che sono state svolte nel corso degli anni: "La prima perizia balistica condotta nel 1978 [...] ha evidenziato come in via Fani spararono sei armi, per un totale di 91 colpi. Ben 49 colpi furono esplosi da un'unica arma (un FNA 43 o uno STEN). A questi rilievi vanno aggiunti i due colpi esplosi dalla pistola di Raffaele Iozzino. Una seconda perizia effettuata [...] a metà degli anni Novanta non fu [però] in grado di attribuire con certezza i 49 bossoli a un'unica arma"(12).

Certo è che sia il maresciallo Leonardi (caposcorta posizionato nel sedile anteriore destro della Fiat 130 che trasportava Moro) sia l'agente Rivera (alla guida dell'Alfetta che seguiva la macchina del presidente DC) vennero colpiti da proiettili provenienti dalla loro destra.

Questo particolare ha una duplice sfaccettatura: la prima smentisce clamorosamente la versione brigatista secondo cui "gli avieri" (che davano le spalle al bar Olivetti stando sulla sinistra del convoglio automobilistico) furono i soli ad aprire il fuoco sulla scorta di Moro; la seconda, ancora una volta, rivela un'abilità militare del tutto estranea al "know how" brigatista.

Ma andiamo con ordine...

Secondo la ricostruzione fatta dalla perizia tecnico-balistica-medico legale, "davanti al bar Olivetti una auto Fiat 128 giardiniera con targa CD frena improvvisamente, e l'auto del presidente Moro che la seguiva la tampona dopo avere tentato di deviare verso destra. Mentre nell'auto Fiat 128 ne escono due persone, tra cui una donna (pare) che si avvicinano ognuna dalla sua parte al guidatore e al passeggero anteriore, e immediatamente aprono il fuoco attraverso i vetri con precisione topografica perfetta in modo da risparmiare di colpire con proiettili e frammenti di vetro l'onorevole [Moro] che era di dietro. [...]. Chi sparò al Leonardi lo fece leggermente dietro avanti, destra sinistra, alto basso, proprio per non colpire il compagno che si trovava a sinistra dell'auto".

Ed ecco che viene a galla la seconda sfaccettatura che ci permette di affermare che «l'abilità militare [...] dimostrata in via Fani non era tutta delle Brigate rosse»(13): il fuoco incrociato.

L'importanza di questo dettaglio viene puntualmente delineata dal giudice Rosario Priore, che si è occupato in prima persona di eversione nera e rossa, del caso Moro, di Ustica e dell'attentato a Giovanni Paolo II: «[Sulla base dei risultati delle perizie balistiche] il fuoco non proveniva soltanto dal marciapiede di sinistra ma anche da quello di destra; e chi sparava da questo lato doveva essere particolarmente esperto nell'uso delle armi. Si era creata una situazione di fuoco incrociato. Pericolosissima, perché potevano essere colpiti anche Moro e i brigatisti. Ma né l'uno né gli altri riportarono ferite [...]. L'uomo che sparava da destra [...] doveva per forza essere un killer»(14).

Non è certo un caso che il capo brigatista Mario Moretti, nel libro intervista di Mosca e Rossanda, cerchi di occultare questo particolare: «I compagni incaricati di eliminare la scorta sono quattro, due per ciascuna macchina del convoglio. E sono ovviamente tutti piazzati dallo stesso lato della strada. Le ricostruzioni che dicono il contrario sono sbagliate, e soprattutto stupide: se uno si mette sulla linea di fuoco del compagno, si finisce con l'ammazzarsi uno con l'altro».

Peccato però che perizie e fori di proiettile abbiano una minor propensione alla menzogna degli esseri umani, in particolar modo di Moretti, bugiardo di professione(15).

La Rote Armee Fraktion

Un aspetto molto importante spesso taciuto, che forse ci aiuterebbe meglio a comprendere la geometrica potenza brigatista del 16 marzo 1978, è la plausibile presenza in via Fani della RAF: l'organizzazione terroristica che operava nella Germania Federale, definita dagli stessi brigatisti "avanguardia politico-militare del proletariato metropolitano europeo, uno dei punti di riferimento fondamentali della iniziativa rivoluzionaria in tutto il continente".

Scrive l’ex senatore del PCI Sergio Flamigni: "Non c'è dubbio che l'agguato di via Fani richiamava il modello operativo e l'esperienza di tecnica militare impiegati dalla Raf per il rapimento di [Hans Martin] Schleyer(16). [...]. Con l'operazione Schleyer, la Raf aveva fatto scuola alle Br per il rapimento di Moro".

Non sono certo casuali infatti, le strabilianti analogie tra l'operazione portata a termine dal gruppo tedesco e le "nostre" BR; e questo non vale solo per via Fani, ma anche per la gestione complessiva(17) del sequestro.

"Nell'agguato [...] non c'era stato niente di originale, rispetto al manuale della Raf (salvo le ovvie varianti obbligate dalla diversità dei luoghi e dei percorsi). [...]. La tecnica era quella dell'azione a cancelletto: interruzione del traffico con auto disposte trasversalmente alla strada, bloccandolo in entrambe le direzioni, così che il gruppo di fuoco potesse sparare senza intralci. Per creare ostacolo a fermare la corsa di Schleyer, i terroristi tedeschi avevano piazzato una Mercedes berlina nel mezzo della carreggiata (con accanto una carrozzina da neonato perché sembrasse un semplice incidente) sulla Vincenz Statz Strasse, subito dopo la curva che doveva compiere il loro bersaglio provenendo dalla Friedrich Schmidt Strasse [...] l'inatteso ostacolo aveva provocato un tamponamento fra le auto di Schleyer e della sua scorta, e nello stesso istante, forse ancor prima che gli agenti potessero avvedersi della trappola, cinque o sei terroristi si erano avvicinati alle auto tamponate e avevano ucciso, mirando con cura, l'autista e i tre agenti di polizia, quindi avevano strappato il presidente della Confindustria tedesca dalla sua auto caricandolo su un furgoncino parcheggiato all'incrocio. In via Fani, le Br avevano messo in scena l'ostacolo a sorpresa di un'auto targata Corpo diplomatico, poi avevano seguito la stessa tecnica, quella dell'annientamento: almeno sei erano state le armi della Raf che avevano sparato a Colonia, e almeno sette quelle delle Br in via Fani; i bossoli trovati nella Vincenz Statz Strasse erano 112, in via Fani 93 (la differenza era dovuta alla più vigorosa reazione della scorta tedesca, che era riuscita a sparare 11 colpi, ma non è escluso che in via Fani alcuni bossoli siano scomparsi nella confusione sul posto seguita alla strage); 44 bossoli e 22 proiettili, o parti di proiettili, erano stati sparati e in gran parte messi a segno da una sola arma nella Vincenz Statz Strasse, 49 bossoli sono stati sparati da un solo killer in via Fani. Altre analogie: cinque erano stati gli automezzi impiegati nell'operazione Schleyer, sei o sette nell'operazione Moro (l'agguato di via Fani aveva comportato l'impiego di un maggior numero di uomini in quanto le strade erano a doppio senso, mentre l'agguato della Raf era avvenuto in una strada con il traffico a senso unico). [...]. L'unica sostanziale differenza era nell'efficienza delle armi: 4 pistole mitragliatrici inceppate in via Fani, una solo pistola inceppata nella Vincenz Statz Strasse"(18).

"Inoltre, a far nascere il sospetto di un concorso di elementi stranieri [...] [insieme al] [...] rinvenimento sul luogo della strage di una borsa di fabbricazione tedesca, da cui alcuni aggressori avevano estratto pistole mitragliatrici, era stata l'affermazione secondo cui nel corso dell'operazione sarebbero stati impartiti ordini in tedesco [...]"(19).

A confermare l'inusuale incremento di "usi e costumi" germanici tra via Fani e via Stresa quella tragica mattina, c'è anche il teste Ettore Tacco, interrogato dalla Digos il 31 marzo del 1978: "Intorno alle 8.10 Ettore Tacco stava bevendo un cognac presso il bar Cinzia di via Stresa, mentre al suo fianco un giovane di circa vent'anni a lui sconosciuto stava consumando un cappuccino. Si trattava di una persona con barba bionda non molto folta e ben tenuta, capelli castano-biondi, alto circa un metro e settanta, e dalla breve conversazione si accorse che parlava un italiano con accento tedesco"(20).

Il 17 marzo, giorno successivo al rapimento, vennero addirittura fatte delle rivendicazioni a nome Banda Baader Meinhof, il nome con cui veniva comunemente identificata la RAF.

"Paola Fabretti, segretaria del Gr2 Rai, intorno alle 8.45 del 17 marzo rispose a una telefonata giunta in redazione. Dall'altro capo del telefono, una voce maschile dall'accento straniero disse: «Banda Baader Meinhof. Abbiamo Moro con noi. Vogliamo in cambio la libertà di tutti i brigatisti a Torino e poi tre miliardi in marchi tedeschi in pezzi da diecimila e da centomila. Moro sta bene. Ritelefoneremo». Verso le 12.00 [sempre del 17 marzo] Carla Tagliarini, giornalista della Zdf, la seconda rete tedesca, ricevette in redazione la telefonata di un uomo che parlava abbastanza male la lingua e che trasmise il seguente messaggio «Qui è la banda Baader Meinhof. Abbiamo Moro con noi. Vogliamo in cambio la libertà di tutti i brigatisti a Torino e poi tre miliardi in marchi tedeschi in pezzi da diecimila e da centomila. Moro sta bene. Ritelefoneremo»"(21).

Il 19 maggio del 1978, a sequestro Moro concluso, "la televisione austriaca [...] comunicava la probabile partecipazione di tre terroristi tedeschi all'agguato di via Fani, due donne ricercate e tale Christian Klar, responsabile del sequestro Schleyer [...]"(22).

Altri membri della RAF sospettati di aver partecipato al massacro della scorta di Aldo Moro sono Elizabeth von Dick(23) e Willy Peter Stoll, anche loro coinvolti nel sequestro Schleyer.

L'episodio principale che legherebbe Stoll al rapimento dell'on. Moro merita di essere raccontato nella sua interezza: "Nel pomeriggio [del 21 marzo 1978] [...], un ragazzo di quindici anni, Roberto Lauricella, riferì, telefonando al 113, di avere notato un pulmino giallo e bianco con targa tedesca e due persone a bordo, seguito da una berlina Mercedes color caffellatte anch'essa con targa tedesca e cinque passeggeri. Di questa seconda vettura era stata aperta per un attimo la portiera posteriore sinistra e Lauricella aveva ritenuto di intravedere, tra le gambe di uno dei passeggeri, una «machine pistol». Il ragazzo fu in grado di indicare la targa del pulmino: PANY 521. [...]. La Questura di Roma, informata, interessò, tramite l'Interpol la polizia tedesca. Il 24 marzo l'Interpol forniva due interessanti notizie: la targa segnalata non apparteneva ad un pulmino ma ad una autovettura Volvo; detta autovettura apparteneva a tale Norman Ehehalt, noto per avere prestato assistenza ad una associazione criminale e per la sua appartenenza ad un gruppo anarchico. [...]. Sempre tramite l'Interpol, la polizia tedesca chiedeva di conoscere i motivi che avevano indotto la polizia italiana a richiedere le informazioni. Purtroppo nessuno provvide a dare disposizioni ai posti di frontiera perché fossero effettuati controlli al momento in cui i due automezzi avessero effettuato il rientro in patria. Il 6 aprile il ragazzo fu finalmente convocato dalla Questura di Viterbo per mettere a verbale la sua deposizione. Il 18 maggio la polizia tedesca rinvenne, nel corso di una perquisizione in una tipografia, le targhe PANY 521 bruciacchiate e piegate. Nessuna traccia fu invece trovata dell'autovettura Volvo. Norman Ehehalt rifiutò di rispondere alle domande della polizia tedesca e successivamente all'interrogatorio per rogatoria del giudice istruttore di Roma [Imposimato]. La circostanza - successivamente riferita da[l brigatista Patrizio] Peci - che il terrorista tedesco Willy Peter Stoll sarebbe stato in contatto con [Mario] Moretti [...] [prima della] scoperta [fatta nell'ottobre del 1978] della base [milanese] di via Monte Nevoso, richiamò di nuovo l'attenzione sull'episodio di Viterbo. L'Interpol aveva infatti accertato - secondo quanto riferisce il giudice istruttore Imposimato nell'ordinanza di rinvio a giudizio dell'11 gennaio 1982 - l'esistenza di un rapporto tra Stoll e Ehehalt"(24).

"[...] Imposimato interpreterà il silenzio di Ehehalt «come un atto tendente a coprire Stoll, nel caso questi fosse stato uno degli occupanti delle macchine di Viterbo», mentre il collegamento con Moretti «induce alla ragionevole conclusione della probabile implicazione dello Stoll nell'impresa di via Fani»"(25).

"A conferma dei collegamenti di Stoll con i terroristi italiani, va sottolineato che, quando egli fu poi ucciso a Dusseldorf in un ristorante cinese, aveva con sé documenti concernenti tali rapporti"(26).

Le relazioni BR - RAF durante il sequestro Moro verranno convalidate anche da alcuni brigatisti, tra questi, Lauro Azzolini.

"[Azzolini confermò] di aver curato, su incarico del Comitato esecutivo, i rapporti con i rappresentanti della Raf durante i 55 giorni del sequestro Moro, attraverso periodici incontri con i terroristi tedeschi. «Venivano in Italia ogni quindici giorni», dirà l'ex brigatista del Comitato esecutivo, e durante quegli incontri lui li ammoniva a non prendere iniziative arbitrarie sul tipo di quella che la Raf aveva assunto durante il caso Schleyer (il dirottamento dell'aereo della Lufthansa a Mogadiscio), pregandoli di estendere l'invito anche ai «compagni palestinesi»: le Br, evidentemente, non desideravano che durante l'operazione Moro emergessero legami o connessioni di carattere internazionale"(27).

Di non pentiti il solo Prospero Gallinari ha riconosciuto che «i rapporti Br-Raf sono stati precedenti e successivi all'attacco di via Fani»"(28).

Un'affermazione impegnativa visto che l'Ufficio operazioni dello Stato maggiore del Comando generale dell'arma dei Carabinieri, riteneva assodato "[un] incontro in Roma, [a cui aveva partecipato Gallinari] [...] del 15 novembre 1977 in un bar di via Appia Nuova, con un pregiudicato [Antonio Nirta(29) ? Giustino De Vuono(30) ? Oppure qualche esponente della banda della Magliana ?] ricercato per più sequestri di persona, presentatogli da una giovane donna a nome Bruna, ventidue anni, romana [...] abitante in detta via Appia Nuova. [Il Gallinari ha] proposto al medesimo di partecipare a un eclatante sequestro di persona a sfondo politico. Il pregiudicato non ha accolto la proposta, non ritenendola economicamente conveniente. In occasione del predetto incontro il Gallinari era accompagnato da un giovane tedesco, i cui connotati fanno presumere possa trattarsi del terrorista Sigmund Hoppe".

Insomma, anche volendo sminuire il profondo significato di tutti questi eventi, che costituiscono di per se una prova logica evidente di una presenza straniera in via Fani, resta quantomeno l'assoluta certezza che i massimi responsabili delle Br si siano avvalsi, nella fase di elaborazione del piano, della consulenza(31) di esponenti dell'organizzazione tedesca.

A seguire, il motivo per cui questa presenza ha un'importantissima valenza storico-politica.

I rapporti Rote Armee Fraktion - STASI

«La STASI [il Ministero della Sicurezza di Stato della Germania Est] era in grado di padroneggiare molte delle organizzazioni rivoluzionari dell'Europa e del Medio Oriente. A cominciare dalla RAF, l'organizzazione terroristica che operava nella Germania Federale. Per anni avevamo pensato che la Rote Armee Fraktion fosse una formazione rivoluzionaria con una sua purezza, se così si può dire, cioè senza direzioni esterne. E invece, dopo la caduta del Muro, abbiamo scoperto che era pilotata dal servizio segreto della Germania Est, era una sua struttura armata. Ho potuto [Priore] rendermene conto anche personalmente, dopo la riunificazione delle due Germanie, visitando, primo fra gli europei occidentali, i vecchi archivi della Stasi [...]. Non potevamo immaginare che quel servizio segreto riuscisse a seguire i membri di grandi organizzazioni internazionali, dalla Raf ai palestinesi di Settembre nero, in tutti i loro viaggi, in tutti i loro spostamenti, addirittura in tutte le loro comunicazioni e persino in tutte le loro telefonate. Aveva un'organizzazione capillare e, quando arriva la Stasi, i servizi degli altri paesi dell'Est cedevano il passo, oppure operavano secondo i modelli della Stasi stessa o secondo i suoi ordini. [...] La Germania Est aveva [...] un interesse specifico, in quanto nazione per molti anni non riconosciuta dai paesi occidentali, Italia compresa. Quindi, attraverso l'attività della sua intelligence esercitava il suo potere di condizionamento innanzitutto per indurre gli stati ad accettare la sua esistenza, e a riconoscerne il peso politico. Ma da un certo periodo in poi ebbe da Mosca anche una sorta di delega nel campo del terrorismo internazionale. [...] La delega alla Germania Est [...] coincide con la prima grave rottura tra il Pci e il mondo comunista orientale. La condanna da parte italiana dell'invasione della Cecoslovacchia, l'elezione di Enrico Berlinguer alla segreteria del Pci e il suo rifiuto di riconoscere la leadership moscovita sul movimento comunista internazionale erano molto di più di un semplice strappo. Erano tutti segnali di una vera e propria rottura strategica destinata a diventare più profonda. [...]. Il pericolo rappresentato dall'eurocomunismo per i sistemi dell'Est fu percepito fin dal primo momento in tutta la sua devastante potenzialità. La Primavera di Praga, per quanto fosse stata repressa con i carri armati, costituiva ancora un pericolo per i regimi dell'Est. Dove quelle idee riformiste, portatrici di un socialismo dal volto umano, continuavano a fermentare nonostante il giro di vite brezneviano. Il rischio maggiore, paventato dagli analisti dei servizi segreti orientali, era che quei fermenti finissero per trovare un punto di riferimento nell'eurocomunismo, e che la politica di Berlinguer fungesse da detonatore di nuovi conflitti politici e sociali. Per una parte di quel mondo, Berlinguer costituiva un pericolo mortale»(32).

Tanto mortale che i servizi segreti bulgari cercheranno di eliminarlo a Sofia nell'ottobre del 1973; ma questa è un'altra storia.

Tornando a noi...

I suddetti contatti tra la RAF e la DDR verranno addirittura confermati dall'ex "numero due" della STASI Markus Wolf: una delle più grandi spie della guerra fredda.

Questi scenari vengono descritti e spiegati al giudice Imposimato proprio da Wolf, nel gennaio del 2002, in un ristorante italiano a Berlino: “[Wolf:] Io ero nettamente contrario ad avere rapporti con i terroristi. E lo dissi al ministro Mielke [uno dei fondatori della STASI]. Ma egli rispose che gli uomini della Raf erano combattenti antifascisti, persone che lottavano contro il ritorno del nazismo in Germania. Per questo la Ddr li ha protetti per anni durante la latitanza, dopo gli attentati in Europa. Alla fine degli anni settanta il mio dipartimento collaborò con gruppi armati che giudicavano il terrorismo un efficace strumento di lotta politica.

Imposimato: A partire da quando iniziarono i rapporti con quelli della Raf?

Wolf: Non ebbi contatti diretti con questi gruppi; erano dei pazzi incontrollabili, se ne occuparono altri ufficiali della Stasi.

Imposimato: Quali erano questi gruppi?

Wolf: L'Organizzazione per la liberazione della Palestina; il sicario terrorista freelance Ilych Ramirez Sanchez, il cui primo nome era un omaggio a Lenin, meglio noto come Carlos [...] e il gruppo tedesco occidentale della Rote Armee Fraktion, o Raf, e prima ancora la Banda Baader Meinhof. L'entusiasmo del servizio segreto della Germania orientale per queste forme di collaborazione variava da caso a caso. Anche il Fplp e il gruppo di Abu Nidal erano controllati dalla Stasi, anche se io ero contrario. Erano troppo violenti e radicali. [...] La Raf si avvalse della Germania orientale come di un santuario. I fondatori della banda, Andreas Baader e Ulrike Meinhof [nel 1972-73, N.d.A] furono protetti dalla Stasi. A trovare rifugio in Germania Est furono Sussanna Albrecht, che aveva giustiziato con un amico di suo padre, Jurgen Ponto, direttore della Dresdner Bank. [...] Anche i terroristi della Raf Khristian Klar e Sielke Maier Witt, coinvolti nel rapimento e nell'assassinio di Hans Martin Schleyer, furono accolti in Germania orientale. [...] Inge Viett, Inge Nicolai e Ingrid Sipemann, anche loro della Raf, fuggirono dalla Germania occidentale in Cecoslovacchia e si trasferirono, con il consenso del ministro Erich Mielke, a Berlino Est"(33).

Il SISMI in via Fani: occhio vede, ma cuore non duole

"Nel 1991 l'ex carabiniere paracadutista Pierluigi Ravasio, appartenente alla sezione sicurezza del Sismi, rivelò a un inviato di Panorama e all'onorevole Cipriani (componente della Commissione stragi) che il colonnello Camillo Guglielmi (soprannominato «Papà»), suo superiore diretto [...] si trovò il 16 marzo a pochi metri da via Fani, senza tuttavia poter intervenire. Subito dopo aver fatto tale rivelazione, Ravasio fu convocato dalla Procura della Repubblica e il 13 maggio 1991 ritrattò la sua versione dei fatti negando tutto ciò che aveva rivelato. Dopo soli tre giorni, fu convocato [dal sostituto procuratore di Roma Luigi De Ficchy] il colonnello Guglielmi, il quale invece confermò che quel giorno [alle 9:30] si era recato in via Stresa numero 117 dal suo amico colonnello D'Ambrosio, che lo aveva invitato a pranzo"(34).

Armando D'Ambrosio confermerà la visita di Guglielmi anticipandola però alle 9: "Guglielmi si è presentato a casa mia poco dopo le 9, non era affatto atteso, e non esisteva alcun invito a pranzo [...] si è intrattenuto per qualche minuto a casa mia ed è tornato in strada dicendo: «Deve essere accaduto qualcosa»"(35).

"Secondo il racconto che Ravasio fece all'onorevole Luigi Cipriani, durante il caso Moro il Sismi attivò uno special team che qualche legittimo sospetto autorizza a pensare fosse stato creato prima del 16 marzo. Questo gruppo avrebbe dovuto agire in collegamento alla banda della Magliana(36) e la sua sede fu istituita a Forte Braschi (dove si trovava il comando generale del Sismi). I referenti principali del team furono il generale Musumeci [condannato in via definitiva per gli accertati tentativi di depistare le indagini relative alla strage di Bologna] e il colonnello Guglielmi. Il Parlamento restò ovviamente all'oscuro di tutto. L'esistenza di tale nucleo speciale è venuta alla luce solo nel 1991, grazie al coraggio e alla tenacia di Luigi Cipriani. Secondo Ravasio il gruppo era riuscito a infiltrare uno studente di Giurisprudenza di nome Franco [un nome in codice] nella colonna romana delle BR e questi informò i suoi superiori con mezz'ora di anticipo che i brigatisti stavano per portare a termine l'operazione proprio in via Fani. E' per questo che Guglielmi si recò in zona? Per controllare? Per assolvere qualche compito specifico? Sta di fatto che lo stesso Guglielmi, come abbiamo visto, oltre ad aver confermato la sua presenza nei pressi di via Fani [...] confermò anche l'esistenza di questo special team costituito in occasione del caso Moro e sciolto subito dopo la morte del presidente della Dc"(37).

Verrebbe da dire missione compiuta... Ma concentriamoci sulla figura della presunta "vedetta" di via Fani.

Guglielmi, quando nel '91 fu convocato in procura, dichiarò che all'epoca del "fattaccio" era in forza nella quarta brigata dei Carabinieri, operava a Modena, e non aveva ancora nulla a che fare con il Sismi.

Dello stesso avviso il generale Paolo Inzerilli: responsabile dell'organizzazione Gladio dal 1974 al 1986. Inzerilli ha tentato di negare l'appartenenza di Guglielmi al Sismi precisando che il colonnello dell'Arma sarebbe divenuto consulente del servizio segreto militare soltanto il 1° luglio 1978, ovvero a sequestro Moro concluso.

Di opinione diametralmente opposta l'ex senatore Sergio Flamigni, membro della Commissione Moro, P2 e Antimafia: "I magistrati militari Sergio Dini e Benedetto Roberti, nella loro inchiesta sulla Operazione Gladio, hanno [...] trovato documenti comprovanti i legami del colonnello Guglielmi con il servizio segreto militare fin dagli anni 1972-73, e il suo ruolo di istruttore in corsi speciali organizzati dal Sid [il precedente acronimo del SISMI] presso la base di Gladio a Capo Marrargiu [in Sardegna]"(38).

A confermare il legame con Gladio, la "nota integrativa" presentata alla Commissione stragi dal deputato Cipriani (colui che per primo raccolse la testimonianza del parà Ravasio), secondo cui "Guglielmi [...] faceva parte della VII Divisione(39), cioè di quella Divisione del Sismi che controllava Gladio".

Un'altra plausibile motivazione che spiegherebbe la presenza del colonnello in via Fani il giorno della strage, verrebbe guarda caso, proprio da un "gladiatore".

"[Antonino Arconte] [...] ex appartenente alla Gladio delle Centurie, struttura segreta denominata anche Supersid composta da 280 agenti dipendenti dal ministero della Difesa e comandato dal generale Vito Miceli, ha reso pubblico un Memoriale nel quale ha raccontato le molte missioni che ha svolto all'estero. Dal Memoriale ne è scaturito un libro [...] edito dallo stesso Antonino Arconte che, tra le tante imprese, ha descritto un episodio che ha destato molto clamore: il 2 marzo 1978 ricevette l'ordine di imbarcarsi per Beirut per consegnare a un altro gladiatore, Mario Ferraro, un plico con l'ordine di contattare i terroristi islamici per aprire un canale con le BR, con l'obiettivo di favorire la liberazione di Aldo Moro. Avrebbe dovuto sovrintendere l'operazione il colonnello Stefano Giovannone che [...] [durante il sequestro] sarà indicato dallo stesso Moro come autorevole interlocutore per instaurare una credibile trattativa. Arconte avrebbe consegnato il plico nelle mani del colonnello Ferraro il 13 marzo 1978, tre giorni prima dell'agguato di via Fani. [...] Dal racconto di Arconte si evince [...] che i vertici di questa presunta Gladio segreta sarebbero stati a conoscenza del 16 marzo come data dell'operazione brigatista. L'ex agente, infatti, ha sottolineato come la sua imbarcazione fosse arrivata a Beirut con un imprevisto anticipo in quanto era programmato che giungesse a destinazione dopo il 16 marzo, proprio affinché quell'ordine non stesse a destare troppi sospetti. Arconte consegnò al tenente colonnello Ferraro il plico sigillato contenente documentazione a distruzione immediata. Ma egli non eseguì l'ordine proveniente dai suoi superiori [...]. Cosa avvenne dunque al momento della consegna ? Arconte diede il plico sigillato a Ferraro nella sua cabina a bordo dell'imbarcazione che lo aveva portato a Beirut. Ferraro aprì la busta, analizzò il contenuto, lo posò sulla scrivania e fu costretto a recarsi in bagno per un bisogno fisiologico impellente. Fu allora che Arconte decise di provare la cinepresa da poco acquistata ed effettuò alcune zoomate all'interno della sua cabina. L'occhio della cinepresa cadde anche sui documenti lasciati sul tavolo da Ferraro e molti anni dopo, quando Arconte rivide quel filmato, si rese conto dell'importanza di quelle carte. Nel luglio del 1995 Arconte riuscì, fortuitamente, a venire in possesso del documento originale che Ferraro non aveva distrutto diciassette anni prima, e che lo stesso diede ad Arconte al fine di custodirlo per conto suo, in quanto egli era stato oggetto di minacce. Poco dopo Mario Ferraro fu trovato impiccato nella sua abitazione. Nel marzo del 2003 il perito Maria Gabella, considerata una vera e propria autorità in materia e che studiò diversi documenti rinvenuti nei covi delle BR già nel '78 per conto della Procura di Roma, ultimò l'analisi del campione cartaceo che le avevano commissionato le due testate [Famiglia Cristiana e Liberazione] che ne hanno poi dato il resoconto ai proprio lettori [...] e il programma di approfondimento Primo Piano del TG3. Le conclusioni della dott.ssa Gabella non hanno, purtroppo, messo la parola fine sull'autenticità del documento. Infatti sebbene nella perizia si affermi che «il documento è compatibile con l'epoca dei documenti di raffronto» il perito aggiunge anche che «non è un documento recente nel senso che ha almeno tre anni e mezzo. Il che, ovviamente, non esclude che sia ancora più antico». [...]. La carta esaminata risulta essere di una tipologia particolare, nel senso che è stata prodotta con un impasto contenente metalli pregiati, ed è stato adoperato un microscopio speciale in grado di leggere il tipo di solco al fine di poter risalire alla macchina da scrivere che lo ha prodotto. Secondo il perito, insomma, non si tratterebbe di un documento artigianale e se non fosse originale, si tratterebbe di un falso raffinatissimo"(40).

Ma non finisce qui, l'ombra della stay-behind italiana nel caso Moro si propaga anche grazie ad altri tre fatti che suscitano non poche perplessità.
"Le perizie hanno appurato che in via Fani vennero usate anche munizioni di provenienza speciale. Tra i bossoli repertati, 31 erano senza data di fabbricazione e ricoperti da una particolare vernice protettiva, «parte di stock di fabbricazione non destinata alle forniture standard dell'Esercito, della Marina e dell'Aeronautica militare». [...]. Secondo il perito Antonio Ugolini, «questa procedura di ricopertura di una vernice protettiva viene usata per garantire la lunga conservazione del materiale... Il fatto che non venga indicata la data di fabbricazione, è il tipico modo di operare delle ditte che fabbricano questi prodotti per la fornitura a forze statali militari non convenzionali». E quando verranno scoperti i depositi [di armi] [...] della struttura paramilitare segreta della Nato Gladio si riscontreranno le stesse caratteristiche nelle munizioni di quei depositi. Non è stata condotta alcuna inchiesta per accertare quale ente avesse commissionato quelle particolari munizioni e la loro destinazione, dato che esse non erano destinate alle forza armate regolari né potevano essere commercializzate essendo di calibro militare e interdette a usi civili: dagli atti dei vari processi Moro non risulta siano mai stati svolti accertamenti per scoprire da quali canali quelle munizioni arrivarono alle Br. In un appunto [...] datato 27 settembre 1978, siglato dall'allora questore di Roma Emanuele De Francesco e dal dirigente della Digos Domenico Spinella (appunto non trasmesso né alla magistratura né alla Commissione parlamentare Moro), si legge: «Dagli esami compiuti dai periti su alcuni bossoli rinvenuti in questa via Fani, risulterebbe che le munizioni usate provengono da un deposito dell'Italia Settentrionale, le cui chiavi sono in possesso di sole sei persone»"(41).

L'ennesima stranezza che si verifica nella zona di via Fani è riconducibile alla Sip: l'ente telefonico statale che nel 1994 cambierà nome in Telecom.

"La mattina del 16 marzo 1978 [...] un improvviso blackout impedisce le comunicazioni telefoniche in tutta via Fani e via Stresa, favorendo la fuga del commando [brigatista]. Secondo il procuratore della Repubblica, Giovanni De Matteo, l'interruzione sarebbe stata volutamente provocata [...]. Durante i cinquantacinque giorni del sequestro alcuni comportamenti della Sip danno adito a sospetti. [...]. Il capo della Digos Domenico Spinella, sottolinea l'estrema inefficienza della Sip e la sua ostruzionistica passività durante il sequestro. «Se la Sip avesse collaborato» dichiara Spinella alla Commissione parlamentare «gli sviluppi della vicenda Moro sarebbero stati completamente diversi». La Sip [...] è un ente pubblico controllato dalla finanziaria Stet, presieduta [al tempo] da Michele Principe [...] affiliato alla P2. [...]. Prima di diventare presidente della Stet, Principe è dirigente della segreteria Nato presso il ministero delle Poste e delle Telecomunicazioni, quindi presidente dell'organismo strategico della Nato per le telecomunicazioni, il Civil Communication and Planning Committee. [...] All'interno della Sip viene creata la struttura segreta siglata Po-Srcs, Personale organizzazione - Segreteria riservata collegamenti speciali, che dispone di un incaricato per la sicurezza designato dall'autorità nazionale della sicurezza, cioè il capo del servizio segreto militare. La Segreteria riservata collegamenti speciali è una struttura formata da civili, tutti muniti di Nos, il Nulla osta di sicurezza Nato, organizzata con i criteri propri dei servizi segreti [...]. Il compito di tale ente è [...] quello di predisporre collegamenti speciali e fornire servizi tecnici alle forze dell'ordine, alle forze armate, alla Nato e ai servizi segreti, in situazioni critiche legate a atti di terrorismo, crisi nazionali o internazionali, eventi bellici. La persona responsabile dei problemi di sicurezza all'interno della Po-Srcs è proposta dal presidente della Sip e nominata direttamente dal Sismi, e la cosiddetta «cellula di risposta» che viene attivata in situazioni di emergenza è diretta da un ex militare. [...]. La «cellula di risposta» viene messa in stato di allarme alle 16.45 del 15 Marzo 1978"(42).

La chicca finale lascerà basiti i più. Sempre al tempo del sequestro, al civico 109 di via Fani (proprio sopra il bar Olivetti), c’era una società chiamata Impresandex, “una ditta di rappresentanze di caminetti e di lavori edili che ospita giovani funzionari dei Servizi di cui è proprietaria al 98% Licia Pastore Stocchi, sorella del colonnello Fernando Pastore Stocchi che addestra i gladiatori a Capo Marrargiu. L’altro 2% appartiene al marito della signora Pastore Stocchi, il signor Bruno Barbaro, che è cognato del gladiatore ed amministratore unico della società”(43).

La macchinetta del Sisde

Ovviamente quando si parla di “misteri italiani” cerca di non mancare mai all’appello il Sisde, il cosiddetto “servizio segreto civile”. I cugini scemi del Sismi, come per la bomba di via Fauro di qualche anno dopo, sul teatro del fattaccio lasciano un’innocentissima automobilina (un’Austin Morris tipo “Mini Clubman”) che di fatto, volente o nolente, facilità il lavoro ai terroristi impedendo all'auto di Moro di poter manovrare per districarsi dall'imbottigliamento e, ciliegina sulla torta, fornisce un riparo al killer che ha sparato da destra.

Scrive Carlo D'Adamo nel suo libro "Chi ha ammazzato l'agente Iozzino?": “Quell'Austin Morris blu è proprio in posizione strategica [...] all'alba del 16 marzo 1978. Per permetterle di occupare esattamente quello spazio, dove ogni mattina Antonio Spiriticchio, un fioraio ambulante, parcheggia il suo Ford Transit per vendere i fiori, durante la notte due brigatisti, Bruno Seghetti e Raffaele Fiore, hanno tranciato tutte e quattro le gomme del furgone. Il fioraio non può raggiungere via Fani e il suo posto viene occupato da quest'auto”.

Ma il “bello”, ovviamente, deve ancora venire.

La società proprietaria dell’Austin Morris infatti era la Società Immobiliare Poggio delle Rose, collegata ad un'altra società di copertura dei servizi segreti gestiti dal Viminale chiamata Findrev SRL; la Findrev, oltre a gestire l'organizzazione amministrativa e logistica del Sisde era a sua volta azionista di maggioranza della Gradoli Immobiliare (si, avete letto bene), anch'essa società di copertura del Sisde presente in quella stessa strada dove Moretti e soci decideranno di costituire la base logistica del sequestro Moro.

Conclusioni?

Nel corso degli anni, sono state fornite dai personaggi più disparati molteplici interpretazioni politiche del rapimento e dell'uccisione di una figura centrale (nella vita della prima Repubblica) come quella dell'on. Aldo Moro. In queste esposizioni, più o meno condivisibili, si evidenziano i presunti complotti (chiamiamoli così) e i ruoli giocati dai protagonisti del tempo: si passa dalla loggia massonica P2 di Licio Gelli, che è riuscita ad inquinare la vita politica ed economica del paese (ed in particolar modo, visto che parliamo del caso Moro, i famigerati "Comitati di crisi del Viminale" diretti da Francesco Cossiga, sotto la supervisione dell'esperto antiterrorismo del Dipartimento di Stato americano Steve Pieczenik), ad un intervento del servizio segreto israeliano, il Mossad, fermo oppositore del filo-arabismo di Moro. Si è ipotizzato un eterodirezione sovietica, che come abbiamo visto, era contraria alla svolta europeista del PCI in cerca di una sua autonomia da Mosca; per poi finire con personaggi riconducibili a gruppi dell'oltranzismo atlantico (Kissinger in primis) e all'immancabile CIA, contrari ad una qualsiasi apertura al PCI.

La perfetta sintesi di tutti queste entità politiche, protagoniste della vita politica nazionale ed internazionale, si trova nell'ormai famosa scuola di lingue Hyperion(44).

Una lucida analisi della vicenda viene fornita, ancora una volta, dal giudice Ferdinando Imposimato e dal giornalista Provvisionato nel libro "Doveva Morire".

"«Con il trascorrere degli anni e l'acquisizione di nuove prove - afferma Imposimato - [...] mi appare chiara una cosa: il sequestro Moro, partito come azione brigatista alla quale non è estranea l'appoggio della Raf e l'interessamento, per motivi opposti, di Cia e Kgb, è stato gestito direttamente dal Comitato di crisi costituito presso il Viminale. Il delitto Moro non ha avuto una sola causa. Ma ha rappresentato il punto di convergenza di interessi più disparati. In questa operazione, perfettamente riuscita, sono intervenuti la massoneria internazionale, agenti della Cia, il Kgb, la mafia ed esponenti di governo, gli stessi inseriti nel Comitato di crisi. Tutti questi, dopo il 16 marzo, hanno vanificato tutte le opportunità emerse per salvare la vita di Moro spingendo di fatto le Brigate rosse a ucciderlo». Nella storia del delitto Moro la prudenza è d'obbligo: occorre evitare di passare da una verità di comodo a una scarsamente dimostrata. Ma occorre anche evitare l'errore opposto: pretendere prove matematiche assolute, granitiche per dimostrare un fatto. «La verità - dice Imposimato - non è facile da scoprire ma non è possibile chiudere gli occhi di fronte a una storia che ha nei documenti occultati e fortunosamente ritrovati il suo fondamento indiscutibile. E nella confessione tardiva di uno degli autori del complotto un testimone importante. [...]». C'è in questa tragedia - come dicevamo - un testimone tardivo. Si chiama Steve Pieczenik. [...]. Nel corso delle confessioni che emergono dal suo lavoro in seno al Comitato di crisi e dalle sue interviste rilasciate periodicamente a distanza di anni emerge il vero scenario in cui è maturata la morte di Moro. «E' proprio Pieczenik - aggiunge Imposimato - che, per giustificare la decisione di abbandonare Moro, invoca una presunta ragion di Stato, una specie di stato di necessità, che è una esimente, una causa di non punibilità: per Pieczenik e Cossiga la vita di un uomo, quella di Moro, valse la salvezza di milioni di italiani. La tesi non era, dunque, la fermezza dello Stato italiano contro le Brigate rosse, ma un'altra, davvero agghiacciante: la morte di Moro era necessaria per stabilizzare la situazione interna e salvare milioni di italiani dal comunismo. Questo significava che la sopravvivenza di Moro sarebbe equivalsa all'anarchia, alla disgregazione sociale, alla destabilizzazione delle istituzioni di un Paese e alla fine della democrazia italiana. Per Pieczenik e i componenti del Comitato di crisi, la ragion di Stato comportava che la sicurezza nazionale fosse una esigenza di tale importanza che i governanti furono costretti, per garantirla, a violare le leggi giuridiche, morali e politiche, che invece sarebbero state inderogabili quando tale esigenza fosse stata in pericolo»".

Per correttezza, concludiamo il lavoro dando la parola al fratello dello statista democristiano, Alfredo Carlo Moro: "E' stato detto che il provvedimento di generale clemenza è necessario, perché un periodo tragico si è chiuso e lo Stato, che ha vinto, può dimostrarsi generoso con gli sconfitti. Un periodo storico però si chiude non solo quando è trascorso un certo lasso di tempo ma quando si è fatta pienamente chiarezza su quanto è realmente successo e quando sono definitivamente superati i pericoli che l'attuale vita politica sia ancora avvelenata da connivenze e ricatti. Se permangono anche oggi molti misteri, se non tutte le responsabilità sono appurate, se i brigatisti catturati sentono ancora il bisogno di celare la verità dietro una notevole cortina di menzogne, se è possibile che dietro i misteri insoluti e dietro le verità nascoste si celino anche pesanti ricatti, può seriamente e onestamente dirsi che un periodo si è completamente chiuso? E che senso ha l'affermazione che lo Stato ha vinto se gli attentati alla integrità fisica delle persone sono finiti, ma non si è ancora riusciti a scoprire l'intera verità su tutto un travagliato ed ambiguo periodo storico e non sono chiare sia tutte le responsabilità degli esecutori sia le connivenze che hanno consentito al terrorismo di operare o di raggiungere certi risultati?"(45).

Massimiliano Paoli (M4X)

Note

1 - Flamigni Sergio, La tela del ragno, Kaos Edizioni.

2 - Estratto dall'intervista di Rita di Giovacchino all'ex senatore dei DS Giovanni Pellegrino, presidente per due legislature consecutive della Commissione Parlamentare d'Inchiesta sulle Stragi e sul Terrorismo: "Alcuni testimoni che abbiamo ascoltato [in Commissione], Corrado Guerzoni [stretto collaboratore di Moro] ad esempio, si sono detti convinti che il sequestro Moro sia stato un sequestro in appalto, voluta dalla CIA perché Kissinger osteggiava fortemente il presidente DC. Ed è questa una linea ampiamente condivisa in alcuni ambienti del mondo cattolico. Che Moro fosse inviso a una parte dell'amministrazione americana e ad ambienti dell'oltranzismo atlantico è fuori di dubbio. Era odiato per la sua politica filoaraba e di apertura al PCI: anche questa non è una novità. Dico più per la politica filoaraba che per il compromesso storico; non a caso l'ammiraglio Fulvio Martini ci ha assicurato che l'ingresso del PCI nel governo italiano veniva si vissuto, in ambito NATO, come un problema, ma poteva essere sufficiente a risolverlo una riforma della Presidenza del Consiglio. I risultati della nostra indagine, nonostante alcuni interessanti sviluppi, non hanno però portato elementi che possano farci dire con certezza che fu la CIA a organizzare il sequestro o a volere Moro morto. Resto convinto che le Brigate Rosse siano state un fenomeno autenticamente italiano, anche se è possibile - anzi mi stupirei del contrario - che durante il sequestro i servizi americani, quelli NATO come anche il KGB si siano messi in contatto con i brigatisti direttamente o attraverso intermediari. Anche nei primi anni Settanta il Mossad contattò le Brigate Rosse, attraverso un esponente socialista milanese: a quanto ci ha raccontato l'ex capo BR Alberto Franceschini il servizio segreto israeliano offrì appoggi senza alcuna contropartita affermando: «A noi basta che esistiate»; perché ciò che al Mossad interessava, a detta di Franceschini, sarebbe stato il permanere in Italia di una situazione di instabilità, che agli occhi dell'alleato americano avrebbe esaltato l'importanza strategica di Israele nello scacchiere Mediterraneo".

3 - Op, 2 maggio 1978.

4 - Giulio Andreotti, Diari 1976 - 1979. Gli anni della solidarietà, Rizzoli.

5 - Quantomeno curioso, come fa giustamente notare il libro-inchiesta "Doveva Morire" (scritto a quattro mani dallo stesso Imposimato e dal giornalista Sandro Provvisionato), il fatto che "solo un anno prima [...] deponendo davanti alla Commissione Moro, Morucci aveva sostenuto che il commando era composto da «poco più di dodici [persone]»".

6 - Ascoltato in Commissione stragi il 9 marzo 1995, il magistrato Antonio Marini svilupperà la seguente analisi sul suddetto personaggio: "Vi è poi un aspetto molto delicato, che riguarda il procedimento contro Antonio Nirta [boss della 'Ndrangheta che secondo il collaboratore di giustizia Saverio Morabito era presente in via Fani al momento dell'agguato] e che si riferisce ad Alessio Casimirri. Dobbiamo decidere tra due versioni acquisite al processo. Secondo la prima, Antonio Nirta era confidente di un certo capitano dei carabinieri [il controverso Francesco Delfino] che operava nel campo dei sequestri di persona. Nirta avrebbe fatto fare una serie di operazioni a questo ex capitano dei carabinieri. Poi si dice che Antonio Nirta sarebbe stato messo in via Fani per partecipare al sequestro Moro [...]. Secondo un'altra ipotesi, Nirta avrebbe fatto compiere azioni all'ex capitano dei carabinieri che, a sua volta, si sarebbe accorto che [un] uomo fermato non era un comune sequestratore di persona ma addirittura un terrorista che si identificava in Alessio Casimirri e, resosi conto che si trattava di un brigatista, riuscì a sapere che stava organizzando non un comune sequestro ma il sequestro del presidente della Dc Aldo Moro, e allora lo passò al Sismi. [A Casimirri] il Sismi gli avrebbe fatto fare l'operazione, lo avrebbe avuto come infiltrato, avrebbe saputo tutto quel che voleva sapere su via Fani e sulla prigione di Moro, e poi lo avrebbe fatto fuggire all'estero". Sarà un caso ma Alessio Casimirri (figlio di un alto funzionario della Santa Sede), rimane ad oggi, tra i brigatisti individuati, l'unico membro del commando ad essere sempre riuscito a sottrarsi al cattura, e quindi al carcere.

Dal libro "Sequestro di verità": "Rifugiatosi a Parigi dopo la strage di via Fani, Casimirri venne poi arrestato dalla polizia francese, ma grazie all'aiuto dei servizi segreti italiani riuscì a raggiungere il Nicaragua utilizzando un falso passaporto [...]. A Managua si guadagnò la protezione di Aviterni Tomas Borge (il ministro dell'Interno del governo sandinista), e aprì un ristorante, "Magica Roma", in società con Manlio Grillo. La coppia Casimirri-Grillo si inserì nel giro locale dei servizi segreti [...]. Nel 1988 Casimirri ottenne la cittadinanza nicaraguense, revocatagli nel 1993 da una prima sentenza. Nell'estate del 1993 due agenti del Sisde, Mario Fabbri e Carlo Parolisi [suo ex compagno di scuola], incontrarono Casimirri, per circa una settimana, a Managua. Il 30 marzo 1994 gli agenti del Sisde Fabbri e Parolisi furono interrogati dal sostituto procuratore Franco Ionta [...] ma non fu possibile chiarire quale fosse stato il vero scopo della loro missione a Managua. Nel 1996 Casimirri venne indicato da una parte della stampa nicaraguense [...] come un fomentatore di disordini, alla vigilia della visita in Nicaragua del pontefice Giovanni Paolo II; Casimirri replicò con una minacciosa intervista a Nuevo Diario [...] e a Barricada, dichiarando: «Sono perseguitato. Se la mia situazione peggiora, aprite l'ombrello: dirò tutto. Tutto su chi manovra nell'ombra le prossime elezioni in Nicaragua. Tutto sugli appoggi dei quali ho sempre goduto in Italia»".

7 - Dal saggio di Sergio Flamigni "La tela del ragno": "La presenza in via Fani, durante l'attentato, di due individui armati i quali, appena sterminata la scorta e catturato l'ostaggio, fuggirono a bordo di una moto Honda seguendo le auto dei brigatisti, è una certezza processuale. La Honda venne vista dal testimone Luca Moschini prima della sparatoria vicina a due individui in divisa da avieri (e indossavano la divisa da avieri almeno quattro dei terroristi); venne vista da un secondo testimone, l'ingegner Alessandro Marini, al momento del sequestro: uno dei due motociclisti sparò proprio in direzione del Marini (infatti i brigatisti verranno condannati all'ergastolo per la strage e il delitto Moro, e per il tentato omicidio di Marini). Un terzo testimone, Giovanni Intervado, vide la Honda al momento della fuga del commando, e notò il caricatore di un mitra spuntare da sotto l'ascella di uno dei due motociclisti. [...]. Una moto Honda era stata notata, due-tre giorni prima della strage, parcheggiata in via Savoia, nei pressi dello studio privato dell'on. Moro, vicina a un «furgone colore avana chiaro... fermo in posizione favorevole per osservare l'ingresso dello stabile, ove è ubicato lo studio». L'uso dell'autofurgone, dotato di sofisticate attrezzatura spionistiche, rientra nel modus operandi dei servizi segreti".

Forse sarà solo un caso, ma il testimone Mario Lillo (nel febbraio del 1979) riferirà di aver osservato un particolare di notevole interesse: un rialzamento di circa 25 cm sulla parte superiore del detto furgone. Poteva quel rialzamento nascondere un'apparecchiatura dedita allo spionaggio ?

In occasione del ventennale del sequestro, il legale di parte civile per la DC Giuseppe De Gori, scrisse un libro di mancata pubblicazione: il testo fu consegnato alla magistratura e ai carabinieri del Ros. Nel manoscritto si afferma che i due uomini in sella alla moto Honda in via Fani erano in realtà due agenti del Mossad: "Il Mossad tentò, senza riuscirci, di usare le BR. Ebbe un colloquio con Renato Curcio e Mara Cagol, inviando loro un colonnello e un maggiore; i due si presentarono rispettivamente come avvocato e come rappresentante della comunità milanese. Da quel momento il Mossad non mollò più le BR, le controllò ventiquattro ore su ventiquattro. Seppe di via Fani, dove fu presente con due uomini su una Honda, e vide tutto. Conosceva la prigione, non disse nulla al governo italiano, né rapportò alcunché al governo degli Stati Uniti, né alla Cia, con la quale normalmente collaborava".

8 - Dal libro-intervista di Rossana Rossanda e Carla Mosca all'ex leader BR Mario Moretti: "Dove avete imparato a sparare con tanta precisione ?

[Moretti:]Non esageriamo con la precisione. La nostra decantata capacità e precisione militare è stata sempre approssimativa.

Non si direbbe. Siete riusciti a uccidere i cinque uomini della scorta, lasciando Moro indenne e senza colpirvi fra di voi.

[Moretti:]Ma no, non confondiamo capacità organizzativa e capacità tecnico-militare della guerriglia. Ti assicuro che i brigatisti non sono stati dei grandi guerrieri. Sono stati formidabili organizzatori politici, militanti comunisti capaci di un'autodisciplina che, allora non me ne rendevo conto, rasentava la follia: è questo che ci vuole per una lotta armata che duri nel tempo e abbia qualche possibilità di successo in una città supermilitarizzata. Invece il nostro addestramento militare avrebbe fatto ridere un caporale di qualsiasi esercito.

Avrete pur fatto delle esercitazioni a fuoco ?

[Moretti:]Si, ma in modo occasionale, sempre a ridosso delle azioni di combattimento, per il gruppo di compagni che dovevano parteciparvi. Per il sequestro Moro non facemmo nemmeno quelle, perché i compagni incaricati dell'azione vera e propria sarebbero venuti da diverse parti d'Italia; se mai ciascuno si è arrangiato ad addestrarsi per conto proprio, so che i compagni romani lo facevano in montagna, sull'Appennino, dalle parti del Terminillo. Naturalmente si scelgono luoghi isolati, sentieri di campagna, oppure cave abbandonate. Si è favoleggiato che le Br avessero un poligono di tiro: non lo abbiamo mai avuto. La verità è che per un addestramento vero e proprio occorre sparare molto, ma è sempre e dovunque più difficile procurarsi munizioni che armi. [...]. Ci siamo esercitati pochissimo, in una decina d'anni avrò sparato con il mitra non più di un paio di volte. Nelle Br non conosco tiratori scelti, tipo quelli dei film per intenderci".

9 - Dalla "Relazione di perizia tecnico-balistica-medico legale sull'eccidio della scorta dell'on. Moro" Merli-Ronchetti-Ugolini: "Se si vuole oggi [...] ricapitolare sul numero delle armi impiegate nella sparatoria, attraverso l'esame dei bossoli e dei proiettili [...], riconfermando quanto collegialmente concordato in sede della perizia conclusiva disposta dall'Ufficio istruzione del Tribunale di Roma (gi dr. Imposimato, incarico del 27-6-80), nell'esecuzione della strage della scorta dell'on. Moro, vennero utilizzate:

· pistola semiautomatica Beretta mod. 52 cal. 7.65 mm Parabellum;

· pistola semiautomatica Beretta mod. 92S cal 9x19 Parabellum (dai bossoli, la pistola dello Iozzino);

· pistola semiautomatica Smith & Wesson mod. 39-2 cal. 9x19 Parabellum (dai bossoli, quella sequestrata al Gallinari Prospero)

· pistola mitragliatrice Fna43 cal. 9x19 Parabellum;

· pistola mitragliatrice Fna43 cal. 9x19 Parabellum;

· pistola mitragliatrice Tz45 cal. 9x19 Parabellum;

· pistola mitragliatrice Beretta Mp12 cal. 9x19 Parabellum (dai bossoli, quella sequestrata a Falcone Piero);

· va aggiunta una ottava arma, identificata solo attraverso due proiettili, e cioè una pistola semiautomatica Beretta cal. 9x17 (9M34) mod. 3.

[Secondo il memoriale difensivo di Valerio Morucci, il brigatista in questione] avrebbe impugnato una pistola mitragliatrice Fna43, il Fiore una pistola mitragliatrice Beretta Mp12, il Gallinari una pistola mitragliatrice Tz45, e il Bonisoli un'altra Fna 43".

10 - Imposimato Ferdinando; Provvisionato Sandro, Doveva Morire, Chiarelettere.
11 - Commissione Moro, volume 41, pag. 493-94.

12 - Castronuovo Manlio, Vuoto a perdere, Besa.

13 - Fasanella Giovanni; Priore Rosario, Intrigo Internazionale, Chiarelettere.

14 - Ibidem.

15 - Sempre dal libro-intervista di Rossanda e Mosca all'ex leader BR:

"Ma che armi avevate [in via Fani], due mitra che si inceppano in pochi secondi ?

[Moretti:]Eh si. Mi ero augurato sempre di non dover affrontare uno scontro a fuoco, perché con il nostro addestramento e la nostra dotazione di armi, sarebbe successo un disastro. [...]. In via Fani avevamo soltanto due armi efficienti e moderne: un M12 che è anche in dotazione alle forze di polizia, lo usa Fiore, e la famosa mitraglietta Skorpion che, ovviamente, tiene Barbara [Balzerani]".

Peccato che per ammissione dello stesso Fiore, il suo efficientissimo mitra non sia riuscito ad esplodere nemmeno un colpo, e che la mitraglietta Skorpion, l'altra arma «efficiente e moderna», non sia stata neppure utilizzata nell'azione.

16 - Schleyer, presidente degli industriali tedeschi ed ex SS, venne rapito a Colonia da un commando della RAF il 5 settembre del 1977. Verrà giustiziato, sempre dalla RAF, il 18 ottobre successivo.

17 - Estratto dal libro-intervista del giornalista Giovanni Fasanella al giudice Rosario Priore:

"[Fasanella:]Lei ha detto che il sequestro Schleyer era un modello al quale le Br si ispirarono per l'operazione Moro. Quali modalità del primo ritroviamo nel secondo?

[Priore:]Diverse. Io ritengo che ci sia stata una vera e propria trasfusione di un sapere terroristico. Perché sicuramente le nostre Br fecero proprie le modalità dell'operazione Schleyer. Innanzitutto modalità militari, che concernevano l'agguato in sé [...]. E poi i brigatisti appresero dalla Raf anche, come dire, un «sapere» logistico relativo alla gestione di un ostaggio sequestrato, come la predisposizione di vere e proprie prigioni. [...].

[Fasanella:]Dunque, ammettiamo pure che dietro l'operazione Moro non ci fossero entità e intelligenze straniere. Ma possiamo dire con certezza almeno una cosa, cioè che nel sequestro Moro c'erano tutta l'esperienza e l'intelligenza del sequestro Schleyer?

[Priore:]Si, possiamo dirlo con sicurezza. Molti particolari - per esempio le modalità di trasferimento da una «prigione» all'altra e di interrogatorio dell'ostaggio, le somiglianze tra il covo di via Montalcini [la famigerata «prigione del popolo»] e quello di Colonia - confermano che ci fu un trasferimento di conoscenze e di esperienze dai tedeschi agli italiani."

18 - Flamigni Sergio, La tela del ragno, Kaos Edizioni.

[Le note proseguono nei commenti sotto]

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8/11/2015 9:09:03 - Commenti liberi

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Autore Albero
Redazione
Inviato: 15/6/2015 17:50  Aggiornato: 15/6/2015 17:50
Webmaster
Iscritto: 8/3/2004
Da:
Inviati: 19594
 Re: L'affaire Moro: un caso mai risolto
19 - Relazione della Commissione parlamentare d'inchiesta sulla strage di via Fani, sul sequestro e l'assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia.

20 - Bianco Romano; Castronuovo Manlio, Via Fani ore 9.02, Nutrimenti.

21 - Ibidem.

22 - Estratto da un appunto del Sisde redatto dopo la morte del presidente DC.

23 - Scrive Imposimato nel libro-inchiesta "Doveva Morire": «Ansoino Andreassi [...] [investigatore della Digos, segnalò] fin dal 1978 [...] lo stretto legame esistente tra Elizabeth von Dick e le Brigate rosse: due documenti, trovati indosso alla von Dick al momento dello scontro mortale con la polizia tedesca [avvenuto il 4 maggio 1979 a Norimberga], facevano parte [...] dello stesso stock di documenti che erano stati trovati in via Gradoli [l'appartamento-covo che funzionò da quartier generale delle BR nella capitale] [...]. [...] [S]empre Andreassi, segnala un altro dato molto importante: sul documento della von Dick c'era un timbro perfettamente identico a quello trovato nel covo di via Gradoli. Esisteva dunque uno strettissimo legame oggettivo tra la von Dick e Moretti, affittuario e da anni frequentatore di quell'appartamento. Andreassi, nel suo rapporto, non escludeva, che "Elizabeth von Dick [avesse] direttamente partecipato all'agguato di via Fani"».
24 - Relazione della Commissione parlamentare d'inchiesta sulla strage di via Fani, sul sequestro e l'assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia.

25 - Flamigni Sergio, La tela del ragno, Kaos Edizioni.

26 - Relazione della Commissione parlamentare d'inchiesta sulla strage di via Fani, sul sequestro e l'assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia.

27 - Flamigni Sergio, La tela del ragno, Kaos Edizioni.
28 - Imposimato Ferdinando; Provvisionato Sandro, Doveva Morire, Chiarelettere.

29 - "Il 3 ottobre 1992 Saverio Morabito, originario di Platì e detenuto presso il carcere di Bergamo per reati di criminalità organizzata, annunciava al sostituto procuratore della Repubblica di Milano, Alberto Nobili, la propria intenzione di collaborare con la giustizia. [...]. Nei lunghi interrogatori condotti dal sostituto Nobili nell'arco di 12 mesi [...], Morabito riferisce al giudice su fatti e persone relativi ai molti episodi criminali di cui è direttamente o indirettamente a conoscenza, tra cui numerosi omicidi e sequestri di persona, compiuti nel nord Italia a partire dal 1977 dal proprio gruppo [...]. Oltre ad una serie di altri reati commessi in relazione al traffico di droga e di armi, nelle proprie deposizioni Morabito riferisce anche di contatti avuti con i servizi segreti della Libia per commettere omicidi in Europa, in Egitto e negli Usa in cambio di denaro e di concessioni particolari per la gestione del petrolio libico attraverso società appositamente costituite. In relazione al caso Moro, già nell'interrogatorio del 28 ottobre 1992 Morabito riferisce di aver appreso da Domenico Papalia e da Paolo Sergi, attorno al 1987-88, che uno dei membri di maggior spicco della 'ndrangheta, Antonio Nirta detto «due nasi» [espressione calabrese per identificare la doppietta], fu tra gli esecutori materiali del sequestro di Aldo Moro. Sempre a proposito dell'esponente della famiglia di San Luca, Morabito ha ricordato come di lui si dicesse che fosse inserito nella massoneria ufficiale, e ha riferito anche la propria convinzione, poi divenuta piuttosto diffusa negli ambienti della criminalità calabrese, che Nirta abbia avuto un ruolo come collaboratore degli organi di polizia e dei servizi segreti, in particolare quale confidente del capitano dei Carabinieri Francesco Delfino, anche lui originario di Platì, poi trasferitosi in Lombardia".

Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi – XI Legislatura. Relazione sugli sviluppi del caso Moro, 28 febbraio 1994.

30 - Dal libro di Stefano Grassi "Il caso Aldo Moro. Un dizionario italiano": "Ex combattente della legione straniera, legato alla criminalità organizzata [calabrese] e a esponenti dell'ultrasinistra. Evaso dal carcere poco prima dell'operazione Moro, dopo aver subito una condanna per il sequestro e l'omicidio del militante di Potere operaio Carlo Saronio, compiuto da un gruppo misto di malviventi [...] e da militanti milanesi di Potere operaio [...]. Il suo nome e la fotografia compaiono nel volantone dei 20 brigatisti ricercati, diffuso subito dopo la strage di via Fani".
Il 15 gennaio 1981 il giudice istruttore Ernesto Cudillo ne ordinerà il proscioglimento per non aver commesso il fatto. De Vuono se la caverà grazie alla buona parola del SISMI, secondo il quale, al tempo del sequestro Moro, l'ex legionario si trovava all'estero.

31 - Scrive sempre il solito Imposimato nel libro-inchiesta "Doveva Morire": «Il sospetto che mi è sempre rimasto è che la Monhaupt [esponente di spicco della RAF dal 1977 al 1982] e [Sieglinde] Hoffman [coinvolta anche lei nel rapimento di Hans Martin Schleyer], in contatto con il capo brigatista [Moretti] prima dell'operazione Moro molto probabilmente fossero a Milano nei giorni precedenti il sequestro, perché erano coinvolte, quantomeno, nella stessa organizzazione del sequestro. E, in questa luce, appare credibile la nota del Sisde avente come oggetto "Il caso Moro e i collegamenti internazionali del terrorismo", la quale, riportando una notizia dello storico americano Katz, riferiva che la Monhaupt avrebbe partecipato a un vertice brigatista avvenuto a Milano nel corso del quale sarebbe stata decisa la condanna a morte di Moro. C'era poi Rolf Clemens Wagner, anche lui della Raf e, come abbiamo visto, anche lui arrestato a Zagabria due giorni dopo l'assassino di Moro. Secondo il pubblico ministero tedesco Klaus Pfliger, pubblica accusa nel processo Schleyer, Wagner era stato l'esecutore materiale dell'omicidio del presidente della Confindustria tedesca. Ma c'è di più [...] Wagner Rolf Clemens era stato a Roma in un periodo cruciale dell'operazione Moro. Con il terrorista Heiszler Rolf [...] nel febbraio del 1972, aveva allogiato, dal 30 dicembre 1977 al 1° gennaio 1978 all'Hotel Pace Elvezia di Roma [...]. Anche questa presenza a Roma non era stata casuale. Con elevata probabilità, assieme alla Monhaupt, era stato uno degli strateghi della operazione militare di via Fani».

32 - Fasanella Giovanni; Priore Rosario, Intrigo Internazionale, Chiarelettere.

33 - Imposimato Ferdinando; Provvisionato Sandro, Doveva Morire, Chiarelettere.

34 - Bianco Romano; Castronuovo Manlio, Via Fani ore 9.02, Nutrimenti.

35 - Imposimato Ferdinando, La Repubblica delle stragi impunite, Newton Compton Editori.

36 - Non bisogna dimenticare infatti che l'appartamento-covo di via Montalcini era situato proprio nel quartiere della Magliana. Sempre dal libro di Stefano Grassi "Il caso Aldo Moro. Un dizionario italiano": "Nel quartiere [la Magliana], controllato in modo capillare da questo particolare tipo di malavita collegato a settori deviati dei servizi segreti e all’eversione nera, è situata la prigione del popolo di via Montalcini. Nelle immediate vicinanze di via Montalcini abitano numerosi esponenti della banda: in via Fuggetta 59 (a 120 passi da via Montalcini) Danilo Abbruciati, Amleto Fabiani, Antonio Mancini; in via Luparelli 82 (a 230 passi dalla prigione del popolo) Danilo Sbarra e Francesco Picciotto (uomo del boss [di Cosa Nostra] Pippo Calò); in via Vigna due Torri 135 (a 150 passi) Ernesto Diotallevi [un altro subordinato di Calò], segretario del finanziere piduista Carboni; infine in via Montalcini 1 c'è villa Bonelli, appartenente a Danilo Sbarra".

Di fronte ad uno scenario del genere ci si può legittimamente chiedere se le BR, a loro volta, fossero anch'esse prigioniere. Curiosa, in tal senso, una citazione presa da un racconto del professor Enrico Fenzi (morettiano doc) fatta a Giorgio Bocca per il libro "Noi terroristi"; Fenzi sta raccontando al giornalista gli avvenimenti che hanno portato alla rottura tra la "Walter Alasia", colonna milanese dell'organizzazione, e il resto gruppo: "I milanesi rimproveravano Moretti di essersi legato alla «mafia romana»".

37 - Bianco Romano; Castronuovo Manlio, Via Fani ore 9.02, Nutrimenti.

38 - Flamigni Sergio, La tela del ragno, Kaos Edizioni.

39 - E' importante ricordare che all'interno della 7a Divisione del SISMI (incaricata di gestire la rete stay behind italiana), operavano gli OSSI, Operatori Speciali dei Servizi Italiani, conosciuti anche come sezione K: struttura segreta e rigidamente compartimentata che aveva una forte autonomia operativa e gestionale, composta da agenti specializzati nelle operazioni di guerra non ortodossa. Gli OSSI si raggruppavano in nuclei di quattro persone chiamati Gos (Gruppi operazioni speciali), costituiti da uno specialista explos-sabotaggio e da uno armi e tiro, con il compito di condurre sia azioni "dirette" ("condotte direttamente contro il nemico e il suo potenziale bellico con scopi informativi, di sabotaggio, di disturbo") che "indirette" ("attività di promozione e organizzazione della resistenza, supporto a unità della resistenza"). Il reclutamento degli operatori avveniva mediante la selezione di personale di leva delle forze armate. La sezione K salirà alla ribalta delle cronache quando verrà dichiarata dalla seconda Corte d’Assise di Roma (nel 1997), eversiva dell’ordine costituzionale, in quanto reparto militare che operava al di fuori dell’ambito delle Forze armate che, com'è noto, dipendono dal Capo dello Stato.

40 - Castronuovo Manlio, Vuoto a perdere, Besa.

41 - Flamigni Sergio, La tela del ragno, Kaos Edizioni.

42 - Grassi Stefano, Il caso Aldo Moro. Un dizionario italiano, Mondadori.
43 - D’Adamo Carlo, Chi ha ammazzato l’agente Iozzino?, Pendragon.
44 - In realtà la fantomatica scuola di lingue gestiva le relazioni internazionali delle BR: aveva contatti con l'IRA, l'ETA, la RAF e l'OLP, conosceva i canali per l'approvvigionamento di armi e dava protezione ai latitanti.

Dal libro "Terrore Rosso": Pietro Calogero [attualmente Procuratore Generale presso la Corte d'Appello di Venezia] - Approfondendo le indagini sulle origini di Potere Operaio e Autonomia, avevo scoperto contatti tra alcuni esponenti di queste organizzazioni e un gruppo di persone che nel 1969-70 avevano militato nel Collettivo Politico Metropolitano. Nel 1970 il Collettivo si scisse per divergenze sulle modalità di attuazione del processo rivoluzionario: Renato Curcio, Mario Moretti e Alberto Franceschini fondarono le Brigate Rosse, gli altri esponenti del Collettivo, Corrado Simioni, Duccio Berio [autodichiaratosi confidente del SID] e Vanni Mulinaris, sparirono. Cercai qualche informazione su queste figure di primo piano che non erano entrate a far parte delle Br, sospettando che non avessero abbandonato l'idea della lotta armata ma che avessero scelto una strada diversa. Mi trovai però di fronte al buio più completo [...]. La svolta avvenne con un colpo di fortuna. In una conversazione casuale con una conoscente mi giunse una traccia: Vanni Mulinaris era a Parigi e aveva un impiego presso la scuola di lingue Hyperion [...]. Partendo da quella esile traccia diedi incarico [...] [al] commissario Luigi De Sena [...] di indagare su Hyperion [...]. Riuscii ad ottenere che De Sena venisse accreditato presso i Renseignements generaux, l'omologo francese dell'Ucigos [ex Ufficio affari riservati], il dipartimento che già negli anni Settanta si occupava delle operazioni di polizia di prevenzione. Dalle intercettazioni telefoniche sull'utenza di Hyperion emerse che la scuola di lingue aveva anche un'altra sede, in una villa alla periferia di Rouen, in Normandia. Però quando De Sena e gli uomini dei Renseignements generaux tentarono di intercettare anche quell'utenza, si trovarono davanti a una cortina di ferro. I telefoni non erano intercettabili, e un triplice anello concentrico di sensori molto sofisticati rendeva impossibile l'avvicinamento alla villa per effettuare intercettazioni ambientali. Era chiaro che Hyperion era la struttura superprotetta di un servizio di informazioni di carattere internazionale, con compiti di supervisione e di controllo su gruppi che praticavano la lotta armata.

Silvia Giralucci - Intende dire la Cia?
P.C. - Verosimilmente. [...] [P]er poter poter proseguire le indagini, era necessario chiedere l'autorizzazione del ministero dell'Interno francese, che era all'oscuro dell'esistenza di quella struttura segreta. L'autorizzazione arrivò, e la sede parigina riservò altre sorprese. Le intercettazioni telefoniche permisero di individuare una terza sede di Hyperion a Bruxelles. Una missione di De Sena con i colleghi francesi in Belgio - dove ebbero la collaborazione dei servizi segreti - portò a individuare l'esistenza di una quarta scuola di lingue Hyperion, a Londra. Mandai De Sena, assieme al commissario Ansoino Andreassi [...] a indagare nella capitale britannica [...]. Chiesero aiuto ai colleghi di Scotland Yard, a cui comunicarono acquisizioni e ipotesi investigative. Erano appena passati due giorni dal loro arrivo [...] quando [...] De Sena mi chiamò molto agitato dall'albergo: rientrando aveva trovato la stanza completamente a soqquadro [...]. Non c'erano dubbi sul fatto che si fosse trattato di un avvertimento dell'ufficio di polizia londinese, che evidentemente non intendeva collaborare. Dissi a De Sena che il rischio era troppo alto ed abbandonammo il troncone britannico dell'indagine. [...] Appena poche settimane dopo una fuga di notizie, probabilmente orchestrata dai servizi segreti italiani, portò alla fine delle indagini su Hyperion. [...] Il 24 Aprile 1979 il Corriere della Sera pubblicò un dettagliato articolo [...] dal titolo "Secondo i servizi segreti era a Parigi il quartier generale delle Brigate Rosse". [...] Di molto sospetto c'è ancora da ricordare che in viale Angelico e in via Nicotera a Roma furono aperte, durante i 55 giorni del sequestro Moro, due sedi della stessa scuola di lingue, dove alloggiavano due noti esponenti di essa: [l'enigmatico] Corrado Simioni nella prima e Duccio Berio nella seconda. Ma questa è una scoperta che i miei colleghi fecero più tardi.

45 - Moro Alfredo C., Storia di un delitto annunciato, Editori Riuniti

toussaint
Inviato: 15/6/2015 18:14  Aggiornato: 15/6/2015 18:14
Sono certo di non sapere
Iscritto: 23/3/2012
Da:
Inviati: 5220
 Re: L'affaire Moro: un caso mai risolto
Massimo, due cose.
Da approfondire il ruolo e le conoscenze della famiglia Conforto e poi, ho appena ricordato in un altro post, che la pretestuosa inchiesta della "toga rossa" Pietro Calogero (che fu un seguito di altre inchieste portate avanti da altri due giudici del PCI, Caselli e Violante, tese a smantellare l'area a sinistra del PCI che non aveva però sposato la lotta armata) consegnò in pratica centinaia di militanti del Movimento del 1977 alle BR e alle formazioni armate contigue.
Il ragionamento di molti giovani, dopo la retata del 7 aprile 1979, fu pressappoco questo "se comunque quello che ci aspetta è la galera, allora meglio combattere con le armi".
E questo sancì la scomparsa dell'opposizione politica di sinistra praticamente fino ai nostri giorni.

"Siam del popolo le invitte schiere c'hanno sul bavero le fiamme nere ci muove un impeto che è sacro e forte morte alla morte morte al dolor. Non vogliamo più assassini non vogliamo più briganti come un dì gridiamo: avanti!" Arditi del Popolo 1921
toussaint
Inviato: 15/6/2015 18:35  Aggiornato: 15/6/2015 18:40
Sono certo di non sapere
Iscritto: 23/3/2012
Da:
Inviati: 5220
 Re: L'affaire Moro: un caso mai risolto
Ad esempio, la vulgata racconta che Giorgio Conforto, padre dell'astrofisica e attuale invasata new age Giuliana la quale ospitò a casa sua Morucci e Faranda, dicevo il padre Giorgio fosse un agente del KGB, nome in codice Dario, esponente del PSI e che dunque questo poteva far luce su un eventuale ruolo di Mosca nel sequestro Moro (vedere tutta la caciara dell'affare Mitrokhin).
Però, c'è un però...
Leggo dagli Atti parlamentari sul caso Moro:

GIORGIO CONFORTO E LA MASSONERIA
Non è da sottovalutare, peraltro, che Giorgio Conforto, oltre ai suoi
rapporti con la sinistra, mantenne per molti anni contatti con ambienti
massonici. Da una nota del 13 luglio 1979 successiva, quindi, all'arresto
della figlia Giuliana, rinvenuta nel fascicolo personale di Conforto (priva
di intestazione ma con ogni probabilità da attribuire alla Direzione di
P.S.), emerge che egli nel 1972 é diventato membro dell'Associazione nazionale
del libero pensiero «Giordano Bruno», definita come associazione
di «ispirazione radicale». In realtà, sono noti gli stretti legami che intercorrono
tra detta associazione e la massoneria italiana, in particolare
con quella all'obbedienza del Grande Oriente d'Italia di Palazzo Giustiniani.
Non a caso, quindi, nel 1987 la rivista La Ragione pubblicherà un
lungo e sentito necrologio per la scomparsa di Giorgio Conforto, nel quale
ripercorrendo le tappe della sua attività nell'associazione «Giordano
Bruno», ne esalterà l'impegno laico e di «libero pensatore» 23.
L'impegno di Giorgio Conforto nell'associazione «Giordano Bruno»
doveva essere tale che, alla sua scomparsa, il testimone passò idealmente
alla figlia Giuliana. Illuminante in proposito, un articolo apparso su la Repubblica,
nel quale, riferendo di un convegno indetto dall'associazione,
«nata alla fine dell'Ottocento come filiazione massonica», si menziona la
rivista La Ragione, «retta dal fisico Giuliana Conforto». E proprio in occasione
dell'anniversario della morte, Giuliana Conforto partecipa, nel
febbraio del 2000 in Piazza Campo de Fiori, alla cerimonia di omaggio
a Giordano Bruno.
Dal medesimo appunto, infine si rileva che Conforto viene definito
«aderente al Psi (corrente di sinistra)», mentre nella nota originaria del
1954 (dalla quale quella del 1979 é presumibilmente tratta) Conforto risulta
militante «nelle fila del Pci».
Come si vede, neppure la Direzione generale di P.S. del Viminale appare
certa riguardo la figura di Conforto. Può solo ipotizzarsi che la «correzione»
della posizione di Conforto da militante del Pci a quella di aderente
alla corrente di sinistra del Psi sia funzionale ad avvalorare i suoi
rapporti con gli esponenti di Potere Operaio, coinvolti nelle vicende dell'appartamento-covo
di viale Giulio Cesare. In ogni caso, appare ben
strano che della presunta super-spia del Kgb esistano biografie, elaborate
dai medesimi uffici, così differenti.

A conferma di ciò, ovvero della sua non appartenenza al partito comunista
italiano, esiste una lettera pubblicata su La Ragione, in ricordo
di Conforto, a firma del direttore di Interstampa, Nicodemo Boccia. Nel
ricordare la militanza politica di Conforto, Boccia fa riferimento alla
sua appartenenza, prima alla corrente di sinistra del Psi, e poi al Psiup.
La sua militanza nel Psi é testimoniata, anche, dalla candidatura nelle fila
socialiste alle elezioni comunali di Roma. A supporto ulteriore, durante
gli anni del fascismo, a riferire notizie su Conforto é «Secondo», un informatore
vicino al Partito d'Azione.

Rimane da riferire l'ultima importante acquisizione concernente Giorgio
Conforto e la sua presunta attività di spia sovietica. I documenti rinvenuti
presso l'archivio del Ministero dell'interno riguardano, più specificatamente,
Silvia Conforto, sorella di Giorgio.
Dal già citato appunto del 15 marzo 1954 a firma del Capo della Polizia,
risulta che «nella sua attività di informatore dell'Ambasciata sovietica,
il Conforto sarebbe aiutato dalla sorella Silvia, di anni 44, dottoressa
in medicina, anch'ella fervente comunista».
Anzitutto, non manca di stupire che la presunta attività fiancheggiatrice
di Silvia Conforto nei confronti del fratello, non venga menzionata
nei rapporti di polizia antecedenti. Il questore di Roma, infatti, nel
1943, riferisce che la Conforto «viene indicata quale ottima professionista,
tenuta in buona considerazione da quella Direzione [ospedaliera] dove
serba buona condotta morale e politica e non consta che svolga alcuna attività
contraria al Regime».
Nel medesimo torno di tempo, viceversa, sappiamo che il fratello
Giorgio già risulta in rapporti con esponenti comunisti, e per tale motivo
ha già subito più di un arresto. Non si comprende, pertanto, come possa
essere sfuggita agli organi della polizia politica fascista, l'asserita attività
di Silvia Conforto in favore dell'Urss.
Nonostante nel 1954 risulti coinvolta nell'attività spionistica del fratello,
Silvia Conforto, tuttavia, non ha fascicolo né al Casellario Politico
Centrale, né alla serie «Z» della Direzione centrale della Polizia di prevenzione,
ma risulta titolare, soltanto, di un fascicolo della categoria «PA», il
quale contiene due protocolli dell'anno 1959, n. 320 e n. 2000, che, da
verifica, nulla hanno a che vedere con la Conforto medesima.
La categoria «PA», peraltro, non solo é sconosciuta agli attuali archivisti
della DcPp, ma contraddistingue, oltre a quello della Conforto, soltanto
i fascicoli di cinque cittadini statunitensi: Bianca Kempton, Barnes
Wendell Gordon, Norma Barzmann Levov, Allan James Aronson e Florence
Marie Congiel. Al nome di Barnes W. Gordon, inoltre, corrisponde
il protocollo «zero» che segnala che il carteggio é sprovvisto di protocollo.
E' questa un'occorrenza gi° riscontrata diverse volte nell'esame di documenti
presso il Ministero dell'interno, ed é connessa sempre a personaggi
e strutture «sensibili», come nel caso dei fascicoli intestati a «Hyperion»
e a «Marcinkus».

I nomi dei cinque cittadini statunitensi, infine, non risultano neppure
presso l'archivio del Servizio stranieri, ed é, pertanto, presumibile che si
tratti di elementi «coperti», legati a strutture di intelligence occidentali.
Non puç considerarsi, in conclusione, del tutto anomalo che la sorella
di Giorgio Conforto, coinvolta anch'essa, secondo il citato appunto del
Capo della polizia, nell'attivit° di spionaggio a favore dell'Urss, sia presente
nei fascicoli del Viminale con il medesimo protocollo attribuito a
cittadini americani con ogni probabilità coinvolti in attività prettamente
anticomuniste.
Lo stesso Giorgio Conforto non risulta, come dovrebbe, intestatario
di un fascicolo al Casellario politico centrale, utilizzato, fino al 1968
come strumento di monitoraggio costante dei soggetti considerati «eversivi».
I fascicoli Cpc, infatti, venivano aggiornati ogni quattro mesi proprio
con il fine di mantenere costante l'osservazione delle persone considerate
pericolose; diversamente, i fascicoli della polizia politica, prima, e
«Z», poi, venivano aggiornati solamente sulla scorta di eventuali nuove
emergenze. Che Conforto non sia titolare, appunto, di un fascicolo Casellario
politico centrale testimonia, dunque, della sua scarsa pericolosità:
una realtà ben diversa da quella che certa stampa ha inteso far passare nell'opinione
pubblica.

Non c'é dubbio, anche alla luce degli elementi non privi di contraddizioni
che sono stati fin qui illustrati, che risulta molto difficile sostenere
in termini di assoluta certezza che Giorgio Conforto sia stato per oltre un
cinquantennio indisturbata spia sovietica in Italia.
Al contrario, si può ragionevolmente ipotizzare che la mancata denuncia
di Conforto all'autorità giudiziaria come spia sovietica sia da mettere
in relazione all'utilità di tipo uguale e contrario che il presunto agente
sovietico rivestiva per i nostri apparati di informazione e sicurezza. Non si
capirebbe, altrimenti, come mai di fronte all'esistenza di notizie e informazioni
«certe e sicure», gli organi di polizia giudiziaria e la magistratura
non abbiano mai inteso procedere penalmente nei confronti di Conforto,
come pure sarebbe stato doveroso in un paese nel quale l'azione penale
é obbligatoria e dove l'anticomunismo ha permeato per decenni l'attività
di magistratura e forze dell'ordine.
Ricapitolando, noi avremmo una spia sovietica:
che viene arrestata, ma fa poi carriera nelle burocrazie fasciste fino
ad assumere incarichi speciali;
che mantiene rapporti diretti con il potente capo dell'OVRA Guido
Leto e che, per conto di questi, svolge incarichi informativi;
che fin dal 1946 é «attenzionato» da Federico Umberto D'Amato e
dal referente dell'intelligence americana in Italia, James Angleton, impegnati
in quel periodo a reclutare agenti del campo avverso,
che non ha un fascicolo al Casellario politico centrale, utilizzato
per il monitoraggio costante dell'attività dei sovversivi.
Per quanto infine riguarda il presunto ruolo che il Kgb, attraverso
Conforto, avrebbe esercitato nel periodo a cavallo del caso Moro, non
si può non osservare che, come già sottolineato, é anzitutto lo stesso rapporto
Impedian a smentire decisamente questa circostanza. Ma al di là dei
rapporti confezionati dai Servizi inglesi (sulla cui attendibilità intrinseca ci
sarebbe, e c'é, molto da dire), l'unico dato certo é che all'indomani dell'arresto
di Giuliana Conforto, la famiglia nomina quale avvocato di fiducia
Alfonso Cascone, fonte retribuita del Viminale, alle dirette dipendenze
di D'Amato. Sempre nella stessa circostanza, servizi segreti, polizia giudiziaria
e magistratura omisero di rendere nota in sede processuale la notizia
dell'appartenenza del Conforto stesso all'intelligence sovietica. Un silenzio
mantenuto anche in sede governativa, nonostante in quegli anni la denuncia
del coinvolgimento dei servizi segreti dell'est europeo nel terrorismo
di sinistra fosse un formidabile strumento di propaganda, talvolta artatamente
utilizzato a fini depistanti, come le notizie fatte filtrare che
indicavano nell'ambasciata cecoslovacca il luogo ove le Br tenevano prigioniero Aldo Moro.
Alla luce della documentazione disponibile, é possibile chiaramente
affermare che Giorgio Conforto non svolse alcun ruolo a favore del
Kgb in occasione del sequestro Moro, come del resto sarebbe risultato impossibile
ad un agente abbondantemente «bruciato» quantomeno fin dal
dopoguerra.
Al contrario, tutta un'altra serie di circostanze, la collaborazione
con l'OVRA, l'attenzione dei servizi statunitensi, la nomina dell'avvocato
Cascone, il mancato inserimento del suo nome nel Casellario politico centrale,
e altresì, il mancato inserimento nello stesso casellario del nome
della sorella Silvia, pure indicata come una sua stretta collaboratrice in ordine
all'attività in favore dell'Urss, ci portano a ipotizzare che Giorgio
Conforto abbia lavorato occultamente per quegli stessi apparati che, teoricamente
avrebbero dovuto contrastarne l'attività e che si sono sempre
mostrati, in maniera sospetta, fin troppo indulgenti.
Ad ogni modo, proprio per la natura controversa di un personaggio
simile, sarebbero necessari ulteriori approfondimenti documentali (ivi
comprese le note del Sismi delle quali si attende la declassificazione)
per comprenderne meglio il ruolo all'interno degli apparati di intelligence,
nazionali o stranieri.

"Siam del popolo le invitte schiere c'hanno sul bavero le fiamme nere ci muove un impeto che è sacro e forte morte alla morte morte al dolor. Non vogliamo più assassini non vogliamo più briganti come un dì gridiamo: avanti!" Arditi del Popolo 1921
toussaint
Inviato: 15/6/2015 19:02  Aggiornato: 15/6/2015 19:02
Sono certo di non sapere
Iscritto: 23/3/2012
Da:
Inviati: 5220
 Re: L'affaire Moro: un caso mai risolto
L'istituto francese Hyperion era realmente una scuola di lingue o la stanza di compensazione di diversi servizi segreti?
Non esiste un momento unicamente riconosciuto per individuare la nascita delle BR. Qualcuno ipotizza il convegno di Chiavari nel novembre 1969, altri la riunione a Pecorile nell’Agosto 1970.

È certo però che due diversi componenti prendono vita dopo quegli incontri. Da una parte Curcio, Franceschini e la Cagol fondano le Brigate Rosse. altri uomini decidono invece di allontanarsi ritenendo inadeguata la struttura e la strategia adottata dalle nascenti BR.

Tra questi Corrado Simioni, Vanni Mulinaris, Duccio Berio, Mario Moretti, Prospero Gallinari e Innocente Salvoni, la cui moglie, Françoise Tuscher, era segretaria dell’Hyperion, nonché nipote dell’Abbé Pierre.

Duccio Berio avrebbe ammesso, in una lettera al suocero Malagugini responsabile del PCI per i problemi dello Stato, di essere un informatore del servizio segreto militare italiano (SID). In tal senso "GLADIO: The secret U.S. war to subvert Italian democracy" di Arthur E. Rowse e "Puppetmasters: The Political Use of Terrorism in Italy" di Philip Willan.

Sono loro gli uomini che decidono di fondare il Superclan, una nuova struttura super clandestina, con la volontà di egemonizzare e coordinare le varie organizzazioni terroristiche su scala internazionale.

Particolarmente controversa la figura di Corrado Simioni. All’inizio della sua carriera politica milita nelle file del Psi con Bettino Craxi ma nel 1965 viene espulso dal partito per indegnità morale. Di lì a poco comincia la sua collaborazione con l’Usis, l'United States Information Service. In seguito Simioni, tra i principali studiosi di Luigi Pirandello, si trasferisce a Monaco di Baviera per approfondire gli studi di latino e materie religiose. Quindi ricompare in Italia alla vigilia del Sessantotto e partecipa alla costituzione del Cpm.

Ma i rapporti con Curcio cominciano a deteriorarsi fino alla rottura definitiva. Simioni aveva progettato un attentato dinamitardo contro la sede dell'ambasciata statunitense di Atene. Il piano prevedeva l'utilizzazione di una donna, da scegliere fra le appartenenti alle cosiddette "zie rosse". Simioni si era inizialmente rivolto a Mara Cagol, alla quale aveva però richiesto di non parlarne neanche con Curcio. Dopo il rifiuto della Cagol, Simioni cerca nuovi volontari. Li trova nel cipriota Giorgio Christou Tsikouris e in Maria Elena Angeloni. Il 2 settembre 1970 i due salgono a bordo di una Volkswagen per dirigersi verso l’ambasciata, ma il meccanismo ad orologeria della bomba si inceppa. L’auto esplode. Muoiono entrambi. La tragica conclusione della vicenda provoca la definitiva rottura dei rapporti tra Simioni e Curcio.

Nel libro intervista con Mario Scialoja "A viso aperto" Curcio dice: "Tutto cominciò da uno scontro di potere al convegno di Pecorile. Corrado Simioni arrivò con l'intenzione di conquistarsi una posizione egemonica all'interno dell'agonizzante sinistra proletaria: pronunciò un intervento particolarmente duro, e sostenne che il servizio d'ordine andava ulteriormente militarizzato. La sua operazione non riuscì, ma una volta tornato a Milano non si diede per vinto: propose attentati inconcepibili per una organizzazione ancora inserita in un movimento molto vasto e, praticamente, aperta a tutti. Margherita, Franceschini e io ci trovammo d'accordo nel giudicare le sue idee avventate e pericolose. Decidemmo così di isolarlo assieme ai compagni che gli erano più vicini, Duccio Berio e Vanni Mulinaris: li tenemmo fuori dalla discussione sulla nascita delle Brigate rosse e non li informammo della nostra prima azione, quella contro l'automobile di Pellegrini. Simioni radunò un gruppetto di una decina di compagni, tra cui Prospero Gallinari e Francoise Tusher, nipote del celebre Abbé Pierre: si staccarono dal movimento sostenendo che ormai non erano altro che cani sciolti. C'erano però degli amici comuni che ci tenevano informati delle loro discussioni interne e conoscevamo il loro progetto di creare una struttura chiusa e sicura, super-clandestina, che potesse entrare in azione come gruppo armato in un secondo momento: quando noi, approssimativi e disorganizzati, secondo le loro previsioni saremmo stati tutti catturati".

I militanti del Superclan si trasferiscono presto a Parigi, dove fondano dapprima le associazioni culturali internazionali Agorà e Kiron, e poi la scuola di lingue Hyperion, da più parti ritenuta una centrale internazionale del terrorismo.

Il generale Maletti ha rivelato l'esistenza di un rapporto datato 1975 in cui denunciava il rischio che le BR, decapitate dagli arresti di Curcio e Franceschini, potessero rinascere sotto la direzione di uomini di maggior peso culturale, ma a prezzo di mutare considerevolmente la propria matrice politica. Un riferimento all’Hyperion?

Nell’autunno 1977 l’Hyperion apre un ufficio di rappresentanza a Roma in via Nicotera 26. Nello stesso stabile operano alcune società coperte dal Sismi.Gli uffici restano aperti fino a giugno 1978, cioè per l’arco temporale che va dalla progettazione del sequestro Moro, fino a poco dopo il suo tragico epilogo.

Il giudice Pietro Calogero scopre prove che implicano il coinvolgimento della scuola nell’attività delle BR, ma una provvidenziale fuga di notizie pubblicata dal Corriere della Sera, controllato dalla P2, vanifica l'imminente perquisizione della sede della scuola da parte della magistratura.

Antonio Savasta, brigatista pentito, racconta che Simioni, Berio e Mulinaris, coordinavano una struttura internazionale di collegamento tra tutte le organizzazioni terroristiche, nel periodo della "seconda stagione" delle BR, quella militarizzata ed egemonizzata da Mario Moretti.

Tale struttura e i suoi coordinatori clandestini avevano sede a Parigi dove Moretti si recava spesso, aveva una abitazione e manteneva un contatto diretto con i "superclandestini" italiani e con Jean-Louis Baudet, esponente dell’ agenzia privata di intelligence "Le Group" protetta dai servizi segreti francesi e in contatto con tutte le realtà clandestine e di intelligence, d’Europa e non solo.

Nel 1980 l’onorevole Craxi ipotizzando l'esistenza di un capo occulto delle Brigate Rosse aveva ammonito "Bisognerebbe andare indietro con la memoria, pensare a quei personaggi che avevano cominciato a fare politica con noi, poi sono scomparsi, magari sono a Parigi a lavorare per il partito armato"; un profilo che ricorda fortemente la figura di Corrado Simioni.

Giovanni Pellegrino per 7 anni alla guida della Commissione Stragi, avanza il sospetto che Hyperion fosse un punto d'incrocio tra Servizi segreti dell'Ovest e dell'Est, assolutamente necessario nella logica del mantenimento degli equilibri di Yalta. Equilibri che Aldo Moro, con la sua politica di apertura al Pci, minava gravemente.

Pellegrino rintraccia un riferimento all'Hyperion nella testimonianza del generale Nicolò Bozzo, fidato collaboratore di Dalla Chiesa. Bozzo ha raccontato in sede giudiziaria che Dalla Chiesa gli aveva chiesto di indagare su "una struttura segreta paramilitare con funzione organizzativa antinvasione, ma che aveva poi debordato in azioni illegali e con funzioni di stabilizzazione del quadro interno, struttura che poteva aver avuto origine sin dal periodo della Resistenza, attraverso infiltrazioni nelle organizzazioni di sinistra e attraverso un controllo di alcune organizzazioni".

Ecco come il giudice Carlo Mastelloni ricorda l’incontro con l’Abbé Pierre che, a metà degli anni '80, si presentò al Tribunale di Venezia.

"Era venuto dalla Francia per rendere dichiarazioni spontanee in favore del gruppo di italiani residenti a Parigi che ruotavano intorno alla scuola di lingue Hyperion. Avevo emesso contro di loro una serie di mandati di cattura per reati che avevano a che fare con il terrorismo rosso. Venne a dirmi che erano persone perseguitate da una centrale legata alla destra, che li aveva accolti in seno alla sua organizzazione, che al massimo avevano commesso errori di gioventù.

Fece otto giorni di sciopero della fame. Mi resi conto che l'Abate era una specie di referente dell'Hyperion anche perché sua nipote Françoise Tuscher, segretaria della scuola, era la moglie di uno dei ricercati, Innocente Salvoni. La foto di Salvoni fu diffusa dal ministero dell'Interno il giorno del rapimento dello statista dc assieme a quella di altri 19 latitanti, sospettati di essere coinvolti nell'agguato di via Fani. Ma non venne più riproposta nelle settimane dopo.

Sappiamo poi che durante il sequestro, l'Abbé si recò nella sede della Dc a piazza del Gesù per parlare con il segretario del partito, Zaccagnini. Ma non sappiamo se lo incontrò e cosa si dissero.

L'Abbé Pierre era un eroe della Resistenza, un uomo che aveva una visione superiore di come vanno le cose, aveva l'atteggiamento di chi vedeva lo scenario completo."

All'età di 69 anni Corrado Simioni sarebbe morto. Il condizionale è d'obbligo. Anche la sua uscita di scena infatti è avvolta nel mistero. La notizia è stata resa nota nell'Ottobre 2009 ma risalirebbe addirittura a un anno prima. L'unico labile indizio in tal senso risulterebbe essere la cessazione del B&B che da tempo gestiva nel dipartimento della DrÔme, Francia sud orientale, con la compagna Giulia Archer.

Il reportage pubblicato sull'Europeo firmato da Ivan Carozzi, che aveva trascorso alcuni giorni nella struttura turistica, è tra le rare testimonianze dirette su Corrado Simioni. Il profilo che ne emerge è quello di un uomo dalla forte personalità, assai difficile da inquadrare in schemi consolidati. Di Corrado Simioni si è sempre scelto di parlare poco. Nella vita, come nella morte.

"Siam del popolo le invitte schiere c'hanno sul bavero le fiamme nere ci muove un impeto che è sacro e forte morte alla morte morte al dolor. Non vogliamo più assassini non vogliamo più briganti come un dì gridiamo: avanti!" Arditi del Popolo 1921
toussaint
Inviato: 15/6/2015 19:04  Aggiornato: 15/6/2015 19:04
Sono certo di non sapere
Iscritto: 23/3/2012
Da:
Inviati: 5220
 Re: L'affaire Moro: un caso mai risolto
L'azione di via Fani fu annunciata mezz'ora prima dall'emittente radiofonica romana Radio Città Futura, dalla voce di Roberto Rossellini, figlio del regista:

Un altro inquietante episodio è stato conosciuto in seguito alla segnalazione della signora Clara Giannettino, la quale dichiarò di avere ascoltato, circa 45 minuti prima dell'evento di via Fani, da Radio Città Futura, condotta all'epoca da Renzo Rossellini, la notizia del rapimento dell'onorevole Moro. Gli accertamenti di polizia vennero svolti dal dottor Umberto Improta, che ascoltò la signora Giannettino alle ore 14 dello stesso 16 marzo, e si conclusero negativamente per la "palese poca attendibilità della notizia, data verosimilmente in buona fede dalla Giannettino" la quale, nell'emozione del momento, avrebbe attribuito al comunicato "un orario diverso da quello che in realtà andava dato."
Tuttavia il 17 marzo, alle 8.15, la stessa Radio Città Futura informò che era stata chiamata dai conduttori di Radio Onda Rossa, alcuni dei quali il giorno prima avevano seguito una trasmissione di Teleroma 56. A detta di costoro nel corso della trasmissione un'ascoltatrice aveva telefonato dicendo di aver sentito la notizia del rapimento di Moro alle 8 del mattino da Radio Città Futura. A commento di questo episodio, Radio Città Futura parlò di "supposizione metafisica".
Purtroppo la Commissione ha potuto acquisire di Radio Città Futura soltanto la registrazione di una trasmissione delle ore 8.20, durata un paio di minuti, e relativa ad una manifestazione in programma a sostegno del popolo palestinese, nonché di una trasmissione iniziata alle ore 9.33 che, citando le notizie date dal GR 2, commentava gli avvenimenti di via Fani. In effetti è stato riferito alla Commissione che né gli organi di polizia, né i servizi informativi provvedevano all'epoca alla registrazione sistematica delle radio libere, ma operavano semplicemente su campioni, percorrendo cioè le varie lunghezze d'onda e fermando l'attenzione sulle notizie interessanti sotto il profilo dell'ordine pubblico. Né la stessa radio effettuava registrazioni delle proprie trasmissioni.
Il 4 ottobre 1978 il quotidiano francese "Le Matin" pubblicava un'intervista a Renzo Rossellini. Secondo l'intervistatore Rossellini avrebbe, tra l'altro, dichiarato: " Io ero personalmente all'antenna il mattino del 16 marzo. Ho spiegato che le BR stavano, forse il giorno stesso, per tentare un'azione spettacolare. Fra le altre ipotesi annunciai la probabilità di un attentato contro Aldo Moro. 45 minuti dopo, Moro fu rapito" .
" Io non affermavo. Era un'ipotesi. Preciso che questa ipotesi circolava negli ambienti dell'estrema sinistra. Noi sapevamo che il 16 marzo doveva presentarsi alle Camere il primo governo sostenuto dal PCI. Era evidente per noi che questa era l'occasione sognata dai brigatisti."
"Bisognava rapidamente, immediatamente marcare il nostro disaccordo, perché io temevo e temo sempre che una escalation della violenza abbia il risultato di criminalizzare l'insieme del movimento."
La Commissione ha interrogato a lungo Renzo Rossellini, nel corso di tre diverse sedute.
Il teste ha ammesso di avere parlato dai microfoni di Radio Città Futura la mattina del 16 marzo, ma ha precisato di avere soltanto formulato l'ipotesi di un'imminente clamorosa azione delle BR sulla base di notizie che circolavano da tempo negli ambienti dell'Autonomia romana. Le "voci" collegavano tale possibile evento al verificarsi dell'ingresso del PCI nella maggioranza governativa. Attraverso l'analisi del clima che si era creato negli ambienti più estremisti e una serie di deduzioni logiche che avevano a base il rapporto tra l'aggravarsi della situazione internazionale e la recrudescenza del terrorismo, era possibile – sempre secondo Rossellini – ipotizzare che le BR scegliessero come obiettivo un rappresentante della tendenza favorevole al compromesso storico. Radio Città Futura si era resa interprete di tali preoccupazioni in molte trasmissioni precedenti a quella del 16 marzo che, pertanto, sempre secondo Rossellini, non rappresentò una novità clamorosa, ma lo sviluppo di un discorso da tempo avviato.
Rossellini ha poi aggiunto che proprio perché molto allarmato si era deciso a chiedere un colloquio all'onorevole De Michelis per informare, suo tramite, la direzione del PSI dell'imminente pericolo. Anche nell'intervista a "Le Matin" Rossellini aveva parlato di tale incontro e aveva lamentato che l'onorevole De Michelis non gli aveva prestato attenzione.
Lo stesso 16 marzo il signor Rossellini fu convocato alla direzione del PSI ove si incontrò con gli onorevoli Craxi, Signorile e De Michelis. Anche in questa occasione Rossellini avrebbe espresso i suoi giudizi sul rapporto esistente tra l'acutizzarsi della tensione internazionale e la recrudescenza del fenomeno terroristico nonché sui possibili legami tra i servizi sovietici e le BR.
Circa l'intervista a "Le Matin" , Rossellini ha precisato che essa sintetizza un lungo colloquio avuto con l'intervistatore sulla politica dell'URSS nel bacino del Mediterraneo, sugli appoggi dell'Unione Sovietica ad alcune forze politiche che hanno "bracci militari" , sui movimenti di liberazione e sui campi di addestramento palestinesi. Ha precisato di riconoscersi nel contenuto generale dei temi dell'intervista, ma non nel tono, né nelle affermazioni perentorie, tanto da avere smentito "Le Matin" con un comunicato e una conferenza stampa. Rossellini ha poi ribadito che le ipotesi da lui fatte dipendevano da una valutazione più generale sulla natura delle BR e sulla loro autonomia politica: se le BR erano una proiezione delle tensioni internazionali, dell'acuirsi della tendenza militare determinatasi alla ripresa della conflittualità tra i due blocchi, era possibile che servizi segreti di altri Paesi trovassero facilità di manovra in settori politici non controllati, anche con comportamenti criminali.
La Commissione ha potuto accertare che la smentita fu effettivamente diffusa a Roma, ma che il quotidiano francese non la pubblicò né replicò ad essa.
La Commissione si è anche chiesta se il fatto che il gruppo dirigente del PSI avesse ritenuto, in una giornata così drammatica e allo stesso tempo piena di impegni politici come il 16 marzo, di dedicare tempo prezioso al colloquio con Rossellini dovesse essere interpretato come la prova del convincimento che costui fosse depositario di notizie utili per la identificazione degli autori del sequestro e per la liberazione dell'onorevole Moro.
L'onorevole Gianni De Michelis ha dichiarato alla Commissione che il primo colloquio con Rossellini aveva avuto per oggetto l'utilizzazione di una catena di radio libere di sinistra e la possibilità di organici rapporti del PSI con tale rete. La conversazione, ad un dato momento, si spostò sul terrorismo e Rossellini espose le sue tesi sul rapporto tra situazione internazionale e attività terroristiche nonché le sue preoccupazioni per la possibile, conseguente repressione politica per una vasta area di sinistra contestatrice ma dissenziente dal terrorismo.
La mattina della strage di via Fani, De Michelis ricordò quella conversazione e ritenne utile l'incontro con Rossellini nella speranza di poterne ricavare utili elementi. Secondo De Michelis, in questo secondo colloquio, Rossellini fu molto più generico che nel primo, sicché l'incontro fu di breve durata e non ebbe alcun seguito durante i cinquantacinque giorni.
La Commissione ha anche ascoltato il dottor Improta in relazione alle dichiarazioni fatte da Rossellini, secondo le quali egli aveva avuto frequenti rapporti con l'Ufficio politico della Questura di Roma, e di avere addirittura partecipato a riunioni con lo stesso dottor Improta, il dottor Spinella e il dottor Fabrizio, nel corso delle quali era stato analizzato il fenomeno terroristico. Rossellini ha detto che gli sembrava moralmente giusto in quel momento cercare un contatto con l'apparato di polizia per analizzare e isolare il fenomeno terroristico, anche se coloro che operavano militarmente non erano noti neanche ai militanti politicamente più vicini.
Il dottor Improta ha dal canto suo dichiarato che i promotori delle varie manifestazioni venivano contattati per conoscere e capire il tenore delle manifestazioni stesse, e in questo quadro ha collocato alcuni colloqui con Rossellini, senza peraltro attribuire loro una particolare importanza. Si cercava, insomma, di capire da dove venisse la parte armata di Autonomia e le formazioni che operavano attacchi con bottiglie molotov; ma non si ottennero informazioni apprezzabili. La Commissione ha riascoltato Rossellini per verificare se egli avesse potuto ricavare le sue valutazioni dalle asserite attenzioni ai comunicati e ai documenti delle BR, ma egli ha mostrato di non ricordare neppure il contenuto della risoluzione della direzione strategia del novembre 1977 nella quale le BR indicano la DC come obiettivo fondamentale.
In ordine alla struttura e alle vicende di Radio Città Futura, la Commissione ha ascoltato anche l'altro conduttore della radio, Raffaele Striano.
Questi ha escluso che ci possa essere stata una trasmissione avente i contenuti sopra riportati ed ha anzi precisato di avere egli stesso comunicato per telefono alla Radio la notizia della strage, circa mezz'ora dopo il fatto, dalla redazione di Paese Sera.
La Commissione ha rilevato molte contraddizioni nella versione di Rossellini, il quale tra l'altro non ha chiarito perché, pur avendo continuato ad avere buoni rapporti con il dottor Improta, non abbia ritenuto poi di informarlo di quanto egli stesso poteva avere appreso circa un imminente attentato, secondo voci che circolavano nella sinistra, come da lui riferito all'onorevole Craxi. Né si può ritenere che egli avesse supplito a questo suo silenzio con l'iniziativa nei confronti del PSI che, come si è visto, fu casuale e, secondo quanto riferito dall'onorevole De Michelis, non avrebbe riguardato affatto la previsione di gravi ed imminenti fatti criminosi.
I verbali delle due prime deposizioni di Renzo Rossellini sono stati perciò trasmessi alla Magistratura per le valutazioni di sua competenza.

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toussaint
Inviato: 15/6/2015 19:14  Aggiornato: 15/6/2015 19:16
Sono certo di non sapere
Iscritto: 23/3/2012
Da:
Inviati: 5220
 Re: L'affaire Moro: un caso mai risolto
Da precisare come l'emittente in questione non fosse, come si legge in rete, legata all'Autonomia romana, bensì all'area ormai solo culturale (visto che il partito si era sciolto) di Lotta Continua, quella per intenderci dei Sofri, dei Boato, dei Liguori, dei Pecorella, dei Rossella, dei Mughini, dei Deaglio, insomma di quelli che guarda caso ritroviamo a 35 anni di distanza dall'altra parte della barricata.
Gente da salotti buoni, buoni natali e buone conoscenze.
Le radio romane dell'Autonomia erano invece Radio Onda Rossa, riferibile all'area più specificamente "movimentista", contraria alla struttura partito e alle avanguardie, insomma di matrice anarcoide (edit, oggi diremmo vicini al Black Bloc) e Radio Proletaria, riconducibile alla cosiddetta OPR, Organizzazione Proletaria Romana che ancora oggi fa capo al quartiere di Casal Bruciato, zona Tiburtina, e al centro sociale Intifada.
Questi ultimi erano e sono rigidamente comunisti vecchio stampo, internazionalisti, gente da servizi d'ordine e katanga, vedi COBAS insomma.
Spesso le assemblee di movimento finivano in rissa tra queste diverse componenti ideologicamente ben distinte.

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m4x
Inviato: 15/6/2015 19:17  Aggiornato: 16/6/2015 4:24
Mi sento vacillare
Iscritto: 6/6/2007
Da:
Inviati: 746
 Re: L'affaire Moro: un caso mai risolto
E' proprio grazie "all'inchiesta pretestuosa" di Calogero che si e' scoperta l'Hyyperion... E comunque se certa gente ha deciso di rovinarsi la vita imboccando la via del terrorismo non e' certo colpa del giudice.

toussaint
Inviato: 15/6/2015 19:23  Aggiornato: 15/6/2015 19:23
Sono certo di non sapere
Iscritto: 23/3/2012
Da:
Inviati: 5220
 Re: L'affaire Moro: un caso mai risolto
Da non dimenticare, inoltre, che lo stesso Curcio che comunque si oppose ai disegni dell'ex studente di estrema destra Mario Moretti, aveva comunque avuto un esordio di militanza politica nell'estrema destra (da wiki):

I suoi primi approcci politici vanno in direzione dell'estrema destra, secondo quanto contenuto in alcuni opuscoli riconducibili a quest'area.[9][10] Ad Albenga milita dapprima nel gruppo "Giovane nazione", quindi in "Giovane Europa", due piccole organizzazioni che riprendono le tesi nazional-socialiste di Jean Thiriart.[11] Curcio viene anche citato come capo della sezione di Albenga e celebrato il suo zelo militante nella Rivista "Giovane Nazione":[12] bisogna notare, tuttavia, che nell'autunno '63 Curcio già frequenta l'Università di Trento - città in cui si è trasferito giugno '62 dopo un anno trascorso a Genova - e i suoi studenti. Curcio non ha mai fatto riferimento a questa sua militanza nell'estrema destra, affermando anzi di aver cominciato ad occuparsi di politica quando era già all'Università di Trento, "e neanche subito".[13]


Mara Cagol e Renato Curcio
Dopo un anno trascorso in condizioni precarie a Genova, dove vive di piccoli espedienti, nel 1963 si iscrive all'Istituto Superiore di Scienze Sociali (poi Università) di Trento, al corso di laurea in sociologia. Lì, tra i vari corsi, le cronache raccontano che Curcio seguisse con particolare interesse le lezioni di un allora giovanissimo Romano Prodi[14], all'epoca assistente universitario del professor Beniamino Andreatta. A Trento, intorno al 1964, lavora come portaborse del vicesindaco di Trento Iginio Lorenzi, socialista, scomparso nel 2004. Viene poi coinvolto dalla mobilitazione studentesca, che a Trento inizia prima di altrove con l'occupazione dell'università. Nel 1965 entra a far parte del G.D.I.U.T., il gruppo trentino dell’Intesa Universitaria, fondato da Marco Boato, in cui si ritrovavano giovani di ispirazione cristiana, ma politicamente laici. In tale contesto conosce Margherita Cagol, studentessa cattolica che sarà la sua compagna fino alla morte di lei. Matura il proprio credo ideologico all'interno delle lotte universitarie e aderisce ad alcuni piccoli gruppi d'estrema sinistra.

Per un certo periodo condivide l'abitazione con Mauro Rostagno, soprannominato il "Che" di Trento, che sarà uno dei fondatori di Lotta Continua. Nel 1967 forma un gruppo di studio denominato Università Negativa, in cui viene svolto un lavoro di formazione teorica con una rilettura di testi ignorati dai corsi universitari tra i quali Mao Zedong, Herbert Marcuse, Che Guevara, Raniero Panzieri, Amilcar Cabral. Entra a far parte della redazione della rivista "Lavoro Politico" di ispirazione marxista-leninista: dai suoi articoli traspare una critica verso il "filocastrismo" e verso l'avventurismo di chi arrivava a proporre azioni armate in Italia; come si legge testualmente " è solo un piccolo borghese in cerca di emozioni e non un vero rivoluzionario" chi queste azioni proponeva, poiché la presa del potere da parte del proletariato è un processo lungo che non può essere ridotto alla sola parola d'ordine della guerriglia. Pur avendo completato tutti gli esami, fa la scelta politica di non laurearsi. Il primo agosto 1969 sposa, nel Santuario di San Romedio in Val di Non, con rito misto, cattolico-valdese, Margherita Cagol.


edit: notare, due comunisti duri e puri che si sposano con rito religioso in un periodo in cui non solo si rompeva con la Chiesa vera e propria, ma anche con la Chiesa politica, ossia il PCI.
Strano, se non altro mette in luce chiaramente le contraddizioni ideologiche e dottrinarie dei fondatori delle BR.

"Siam del popolo le invitte schiere c'hanno sul bavero le fiamme nere ci muove un impeto che è sacro e forte morte alla morte morte al dolor. Non vogliamo più assassini non vogliamo più briganti come un dì gridiamo: avanti!" Arditi del Popolo 1921
m4x
Inviato: 15/6/2015 19:27  Aggiornato: 15/6/2015 19:27
Mi sento vacillare
Iscritto: 6/6/2007
Da:
Inviati: 746
 Re: L'affaire Moro: un caso mai risolto
Si vede che la storia delle Br te l'ha insegnata Wikipedia, auguri.

toussaint
Inviato: 15/6/2015 19:28  Aggiornato: 15/6/2015 19:32
Sono certo di non sapere
Iscritto: 23/3/2012
Da:
Inviati: 5220
 Re: L'affaire Moro: un caso mai risolto
@m4x

non mi interessano i discorsi umanitari, sto parlando di spazi politici, l'inchiesta di Calogero (che ormai è provato, fu una montatura) fece il gioco delle BR e di coloro che le guidavano.


edit: ho letto anche il tuo secondo post e quindi vorrei capire:
che cazzo vuoi?
Se hai qualcosa da scrivere, fallo, ma evita gli attacchi personali.


edit2:
citazione da un mio post precedente:

"Il giudice Pietro Calogero scopre prove che implicano il coinvolgimento della scuola nell’attività delle BR, ma una provvidenziale fuga di notizie pubblicata dal Corriere della Sera, controllato dalla P2, vanifica l'imminente perquisizione della sede della scuola da parte della magistratura."

Chi sa chi l'ha data la notizia al Corrierone, la fuga di notizie parte sempre dall'ufficio del giudice che fa finta di occuparsi di un'inchiesta, è una vecchia storia...

"Siam del popolo le invitte schiere c'hanno sul bavero le fiamme nere ci muove un impeto che è sacro e forte morte alla morte morte al dolor. Non vogliamo più assassini non vogliamo più briganti come un dì gridiamo: avanti!" Arditi del Popolo 1921
m4x
Inviato: 17/6/2015 6:37  Aggiornato: 17/6/2015 6:37
Mi sento vacillare
Iscritto: 6/6/2007
Da:
Inviati: 746
 Re: L'affaire Moro: un caso mai risolto
Vedi che non sai di cosa parli, la soffiata sull'inchiesta la dette Russomanno.


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