Il Grand Jury ha incriminato oggi Scooter Libby, il capo-gabinetto di Cheney, per ostruzione di giustizia, avendo mentito sotto giuramento a loro stessi e all'FBI. Ecco un sunto dell'intricata vicenda, che si trascina praticamente dall'inizio dell'invasione dell'Iraq.
Nell'annuale "State of the Union" del 2003 (equivale, mutatis mutandis, al discorso di Ciampi di fine anno), Bush pronuncia le famose "16 parole" che cambiano la storia moderna:
"The British government has learned that Saddam Hussein ... ...recently sought significant quantities of uranium from Africa." ("Il Governo inglese ha saputo che di recente Saddam Hussein ha cercato di procurarsi sostanziali quantità di uranio in Africa").
Vale qui la pena di notare che un sondaggio della CBS del 2002 aveva stabilito che "la maggioranza della popolazione è contraria ad una guerra preventiva, a meno che ci si trovi sotto minaccia di un attacco nucleare".
Curiosa quindi la coincidenza, anche perchè risulta che la Casa Bianca sapesse, da oltre un anno, che i documenti che provavano l'interessamento di Saddam all'uranio erano pacchianamente falsi. (Da ciò che è emerso di recente in Italia, anche i nostri governanti non erano proprio all'oscuro della faccenda).
Come facevano a Washington a saperlo? Perchè già dal febbraio 2002 la CIA aveva mandato in missione speciale in Niger l'ex-Ambasciatore Wilson (una nomina di Clinton), per cercare di capirci qualcosa.
Arrivato in Niger, Wilson ci aveva messo 5 minuti a scoprire che era tutta una bufala, ed aveva informato la CIA di conseguenza. La CIA aveva a sua volta informato la Casa Bianca (Cheney), che però aveva preferito ignorare quel rapporto, nel mettere in bocca al Presidente le famose 16 parole del Gennaio 2003.
E così si andò comunque in guerra.
Ma nessuna "arma batteriologica" veniva usata contro i Marines, che anzi entravano a Baghdad con facilità irrisoria (si parlò di un tradimento di Saddam da parte di un suo generale), mentre dalla sabbia faticavano notoriamente a spuntare le famose ADM (armi di distruzioni di massa) che oggi stiamo ancora cercando.
La guerra volgeva al peggio, e il previsto "might and awe" (potenza e stupore) diventava potenza della resistenza irachena, e stupore per gli americani, che si sentivano scappare fra le dita ogni granello di sabbia conquistato.
Nel Luglio 2003 arriva la bomba: Wilson esce a sorpresa con un op-ed (editoriale libero) a tutta pagina sul New York Times, in cui denuncia come la Casa Bianca sapesse fin dall'inizio che la storia dell'uranio era tutta inventata.
Nel frattempo in Iraq gli attentati si intensificano, i Marines cominciano a morire a dozzine, e qualcuno inizia a paventare "un nuovo Viet-Nam".
L'America si spacca, ed inizia il dibattito interno sul "presidente bugiardo", sul "vero motivo per cui siamo andati in guerra", e sull'opportunità di restarci o di venirsene a casa con la coda fra le gambe. Sull'altra sponda, anche Blair passa i suoi bei 5 minuti, per motivi simili. Aveva detto che Saddam era in grado di colpire l'Europa in 40 minuti. (Con la fionda, forse).
La Casa Bianca reagisce in perfetto stile Cheney: l'editorialista Robert Novak - noto "infiltrato" conservatore alla CNN - rivela in un articolo che Valery Plume, la moglie dell'ambasciatore Wilson, non lavora affatto per lo studio legale Brewster Jennings & Associates, ma è un'agente della CIA sotto copertura, da più di 20 anni. Era stata lei stessa, scopriremo in seguito, a suggerire ai suoi capi di mandare il marito in Niger nel 2002.
Lo scandalo è enorme, ed è - forse per la prima volta - davvero sincero. L'America ama talmente pensarsi padrona del mondo grazie alla CIA (ed in parte certo lo è), che rivelare l'identità di un agente segreto è considerato da sempre un reato federale, semplicemente imperdonabile.
Ma da tutto questo il viscido Novak esce indenne, poichè protetto sia dal 1° Emendamento (libertà di espressione), sia dalla convenzione in uso da sempre in America, per la quale il giornalista non è tenuto a rivelare le sue fonti - a meno che le stesse lo autorizzino - se non al proprio direttore (per questioni di responsabilità). E' il caso di "gola profonda" del Watergate, come di mille altri casi meno noti nella recente storia americana.
Ma per "la fonte", chiunque essa sia, la macchina della giustizia si mette in moto con grande fragore. Lo stesso Bush, pressato dalla stampa, va talmente in confusione che dichiara che "si è trattato di un reato orribile, che va punito in maniera esemplare".
Si dimentica infatti che il dito punta chiaramente su Carl Rove, il suo "consigliere personale", che a sua volta dipende da Dick Cheney, vero padrone effettivo della Casa Bianca. (Quando ci sono questioni importanti da risolvere, come noto, Bush viene mandato in Florida a leggere le favole ai bambini). Fra i due galleggia la figura meno nota di Lewis "Scooter" Libby, il capo-gabinetto di Cheney, che fa da tramite fra i due. (Ricordiamo che Carl Rove è in tutto e per tutto un privato cittadino, "ospite" della Casa Bianca per volontà del Presidente, che non appare da nessuna parte sui libri-paga del governo. Sarebbe quindi strano che Cheney gli parlasse del tutto.).
Nei mesi successivi la giornalista del New York Times Judith Miller rivela di conoscere il nome della "fonte" - che però non denuncia apertamente.
Scattato nel frattempo il Grand Jury (una giuria popolare, che in certi casi svolge un'istruttoria preliminare, per decidere se si sia effettivamente in presenza di un reato), questo convoca la Miller, ma non per conoscere il nome della "fonte" originale - che lei ha già detto di non voler rivelare - ma quello di chi avrebbe rivelato a lei tale nome, cioè "la fonte della fonte".
In altre parole, "non vuoi dirci chi è stato, dicci almeno chi te lo ha detto".
Ma Judith Miller si rifiuta di rivelare anche questo secondo nome. In una scelta fortemente contestata, il Grand Jury minaccia allora di farla incarcerare, se non "collaborerà con la giustizia".
La Miller tiene duro, prepara pigiama e spazzolino, e parte piena di orgoglio per la più brutta vacanza della sua vita.
Dura tre mesi, durante i quali gli avvocati di ambo le parti lasciano capire che ci sarebbe stato un accordo, e che ora "fonte2" avrebbe autorizzato la Miller a fare il suo nome.
Judith Miller torna a casa, esausta, fra gli applausi dei pochi giornalisti che ancora tengono ai loro diritti, e fa il nome di Scooter Libby, che finisce sulle prime pagine di tutti i giornali.
Sembrerebbe finita: ora che sappiamo chi lo sa, "lo possiamo torturare", e quindi il nome della fonte originale dovrebbe divenire pubblico da un giorno all'altro.
Ma Libby "non ricorda chi glielo ha detto", "lo avrebbe sempre saputo", insomma, mostra chiaramente di aver accettato di sacrificarsi al posto del suo capo.
Qualcuno però non si accontenta della sua testa, ed oggi il Grand Jury lo incrimina per aver mentito a loro stessi, all'FBI, e chi più ne ha più ne metta. Vogliono il nome originale, e siccome Libby non fa il giornalista, non può rifiutarsi di dirlo.
E' troppo presto per definirne i contorni, ma la faida all'interno del partito repubblicano sembra ormai chiaramente in atto. Le elezioni intermedie, nelle quali rischiano di perdere il controllo del Senato, sono a meno di un anno.
To be continued.
Massimo Mazzucco
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