(QUI la seconda parte del video.
GUARDATELO. NE VALE LA PENA)
Ricordo ancora il giorno in cui Bossi comparve sulla scena pubblica. Gridava “Roma ladrona”, aveva la voce rauca, e parlava come l’uomo della strada. Sembrava il giusto vendicatore del popolo oppresso, il condottiero senza paura che avrebbe demolito il palazzo, il nuovo Masaniello che tutti aspettavano da tempo.
Trent’anni dopo Bossi ha ancora la voce rauca, ma non grida più Roma ladrona. La “capitale del vizio” – come lui l’aveva definita - lo ha accolto a braccia aperte, lo ha fatto senatore, e gli ha messo subito in tasca un paio di assegni poco puliti, con i quali ricattarlo nel caso gli venisse di nuovo in mente di mettersi contro il sistema.
Ma non ce n’è stato bisogno: al buon Bossi il “sistema marcio” deve essere piaciuto molto, visto che da allora ha fatto di tutto per allargare la propria base elettorale, in modo da accrescere di pari misura il proprio potere politico nella capitale.
Nel frattempo non ha fatto assolutamente nulla ... ... di quello che prometteva ai suoi elettori: non solo non ha demolito il palazzo, ma il suo principale cavallo di battaglia, il “federalismo”, rimane per ora una chimera tutta da realizzare.
Ma questo non significa affatto che lui abbia fallito, anzi. Il federalismo di Bossi infatti non è mai stato un reale obiettivo politico, ma soltanto uno strumento ideologico con il quale catalizzare intorno a sè il malcontento del nord-est, in modo da accrescere i propri voti.
Il classico specchietto per allodole.
Il problema è che in bocca sua il “federalismo” suona sempre più spesso come un elegante sostituto per il termine “egoismo”, che nessuno naturalmente può pronunciare a voce alta. Nessuno può dire “sono più ricco di te, quello che ho guadagnato me lo tengo, e tu vai fuori dai coglioni”, e quindi si dice “vogliamo poter gestire in prima persona i flussi economici che ci riguardano da vicino”.
Facendo leva su questa particolare “esigenza” dell’essere umano – la paura di perdere quel poco che si ha - Bossi ha saputo disseminare nel corso degli anni una vera e propria cultura di odio e di intolleranza verso “gli altri”, chiunque essi siano. Oggi non sono più solo i “terùn” ad essere odiati da “quelli del nord-est”, ma tutti coloro che parlano lingue diverse, che si amano in modo “diverso”, che praticano religioni diverse, e che la pensano – in ultima analisi – in modo diverso dal loro.
E’ facile andare da quello che ha messo da parte due lire e dirgli: “Io ti difenderò sempre da chi te le vuole prendere”. E’ chiaro che quello il voto te lo darà sempre.
Più difficile sarebbe usare il potere politico per affrontare davvero i grandi problemi sociali, cercando di integrarli in soluzioni costruttive, ma questo significherebbe volere il bene del proprio paese, ed è improbabile che il nostro “celoduro” abbia mai provato una sensazione di quel tipo.
Le uniche volte che ha pestato i piedi sono state per confermare alla propria base – quando magari sentiva sfuggire il supporto popolare - che “adesso basta se no mi incazzo”, ma di sostanziale non ha mai fatto nulla per loro, nè ha mosso un solo passo in direzione di un vero progresso sociale.
A lui il regresso va benissimo.
Il problema è che nel frattempo ha convinto ”quelli del nord-est” di essere diversi, di essere migliori, di essere superiori. Loro guardano con orgoglio alle loro fabbrichette, alle loro villette e alle loro macchinette, e dicono “lo vedete che è possibile perseguire un modello sano e produttivo, senza stare a piagnucolare dal mattino alla sera?”
Certo che è possibile: nessuno nega infatti che il nord-est sia oggi la regione più ricca d’Italia. Ma il nord-est vive forse in un’economia separata dal resto del mondo? Ricava forse le materie prime dal proprio territorio, produce esclusivamente con quelle, vende e consuma tutto all’interno dei proprio confini?
Perchè altrimenti sono capaci tutti a mettere su una “impresa vincente”: basta fare le marmellate con le arance raccolte dagli immigrati in Calabria, dove la manodopera la paghi 5 euro al giorno, oppure basta fare le gonne con la seta lavorata in Viet-Nam, dove la manodopera la paghi un dollaro al giorno, oppure basta fare le caramelle con lo zucchero di Haiti, dove la manodopera la paghi direttamente a bastonate.
Salvo poi scendere in piazza e gridare in coro “Fuori i marocchini da casa mia!”
Massimo Mazzucco