di Massimo Mazzucco
Dopo Londra, è tornata per molti quella sensazione di impotenza e di frustrazione, di fronte all'ovvietà della bugia, alla quale fa riscontro il più vergognoso complotto mediatico che la storia abbia mai registrato. Che fare?
(Parlo, ovviamente, per la parte di lettori che è convinta della tesi di fondo proposta dal sito sul 9/11). Innanzitutto, credo, bisognerebbe inquadrare il problema nella giusta magnitudine, invece di farsi intimorire dalle sue "enormi dimensioni". La magnitudine, rispetto alla dimensione, contempla anche la proporzione, cioè il rapporto con gli elementi circostanti. Non stiamo infatti parlando di Vigevano, o di Marsiglia, ma di tutto il mondo occidentale, e cioè, all'atto pratico, dell'intera umanità.
Evitiamo quindi di pensare di risolvere il problema entro giovedì pomeriggio. Anzi, direi addirittura, evitiamo proprio di pensare di "risolvere" il problema, perchè in realtà ... ... quando un problema si presenta in queste proporzioni non è affatto un problema, ma un semplice dato di fatto. Il problema casomai siamo noi, al suo interno, mentre il mondo non ha certo bisogno di noi per continuare ad esistere così com'è. Anzi, come ogni organismo superiore, è il sistema che tende ad espellere noi, le molecole malate, gli individui anomali, i corpi estranei. In altre parole, "i rompicoglioni dell'11 Settembre".
Ecco allora spiegarsi l'etichetta negativa di "complottisti" applicata a priori, ecco spiegarsi il totale silenzio mediatico sui fatti realmente accaduti, ed ecco spiegarsi certi attacchi particolarmente velenosi conto quelli che dovrebbero essere soltanto dei "tontoloni" un pò bizzarri nella società dei giusti.
Capovolgendo quindi il paradigma, ed iniziando a pensare di essere noi il problema, vediamo come di colpo ci passa la voglia di "curare il mondo", mentre ci rendiamo conto che a rischio di estinzione siamo noi.
E ora un pò di buone notizie.
Come dicono le tre regole fondamentali dei piloti d'aviazione, prima di tutto preoccuparsi di tenere in aria la macchina. Secondo, preoccuparsi di non andare a colpire nessun altro. E soltanto al terzo posto, una volta assicuratosi delle prime due esigenze, occuparsi del benessere dei passeggeri.
A quale dei tre livelli siamo? Io direi nel passaggio fra il primo e il secondo. Il sostentamento alare sembra ormai assicurato, per il fatto che internet contiene nella propria essenza la sua garanzia di sopravvivenza (ne abbiamo parlato altrove). Si tratterà di volare a sbalzi e a scossoni per un pò, ma ormai la struttura di sostegno dovrebbe reggere.
Cominciamo quindi a pensare alla rotta. Per ciascuno di noi longitudine e latituidine sono diverse, ma complessivamente riportiamo tutti dei "near miss" a ritmo quotidiano. Si rischia in ogni istante lo scontro frontale, con l'amico, il parente o il collega di lavoro, anche se abbiamo imparato che con una violenta sterzata riesci sempre a cavartela e a restare in aria. Ma volare rimane una fatica improba, e la cosa può diventare deprimente.
Nel momento però in cui ci si rende conto che siamo solo poche decine di aerei a volare in un cielo oscurato da chi vola in senso opposto, ci si rende anche conto che non si può pensare di far invertire la rotta a tutti contemporaneamente. Succederebbe un patatrac: a meno di una manovra sincronizzata con la precisione delle pattuglie acrobatiche, si innescherebbe una tale catena di incidenti da distruggere il sistema stesso.
E questo il sistema non può permetterlo. Fa parte della natura di ogni organismo superiore la capacità di auto-proteggersi dal cambiamento troppo rapido, nel quale non tutte le sue parti riuscirebbero ad adeguarsi in tempo senza portarlo al collasso. Negli esseri umani questo prezioso meccanismo è molto spesso in azione: in inglese si chiama denial, in italiano il termine sembra non esistere (diniego?), ma sappiamo tutti benissimo cos'è.
Così come gli individui, anche il "sistema umanità" ha quindi la sua valvola di auto-protezione, che ti permette di "convincere" soltanto un aereo alla volta ad invertire la rotta. E ciò deve avvenire pure con estrema cautela, poichè intorno a lui ci sono i parenti, gli amici, e i colleghi di ufficio che volano compatti nella direzione di flusso.
E' perfettamente inutile, quindi, pensare a dei "decreti legge", a degli interventi artificiali di un qualunque tipo, che "impongano" in qualche modo la verità a chi non è pronto a recepirla. Mentre, una volta preparato il terreno giusto in ciascun individuo, introdurla sarà come sfondare una porta che non c'è nemmeno. (Come ha scritto qualcuno fra noi, indignato per la cecità altrui, "le prove parlano da sole").
Certo, una volta completata la singola manovra [scusate, ormai mi sono impelagato nella metafora e faccio prima ad andare fino in fondo], il senso di solitudine è totale. Ma man mano che procedi vedi meglio la linea dell'orizzonte, ti accorgi che stavi volando versa la morte, e senti il desiderio di farlo sapere a qualcun altro. Finchè cominci a vedere, in lontananza, la sagoma di qualcuno che vola nella stessa tua direzione, e da lì in poi cominci già a sentirti meglio.
Nessuno di noi, rispetto all'11 settembre, è "nato imparato". Tutti abbiamo affrontato quel momento cruciale, l'"inversione totale di rotta", e non si vede quindi perchè altri non dovrebbero poterlo fare.
Ma se a questo punto abbiamo inquadrato il problema nella giusta magnitudine, dovrebbe anche passarci quell'angoscia di "risolvere" per forza tutto in venti minuti.
Diciamocelo francamente: l'11 settembre è stato qualcosa di "enorme", nel senso che ha toccato, anzi "inquinato", l'intera umanità. Per poter quindi essere sereni di fronte a ciò, bisogna poterlo collocare all'interno della storia dell'umanita stessa, e non del periodo nostrano fra qui e capodanno.
Non so gli altri, ma io riesco serenamente ad accontentarmi di fare ciò che faccio, e dei risultati, infinitesimali ma incontrovertibili (una volta uscito dalla bugia non c'è modo di rientrarci), che riscontro tutt'intorno.
Nessuna fretta, quindi, ma solo la coscienza di contribuire, nel limite delle proprie capacità, ad un processo che innegabilmente è in corso, e che appare chiaramente irreversibile. E' proprio l'irreversibilità, credo, a dare la forza per combattere comunque nel quotidiano: ogni minimo mattone posato, sai che almeno è posato per sempre. Con il più la possibilità di diventare lui stesso attivo, lasciando un buon margine alla sorpresa di una eventuale impennata, in forma algebrica, del processo in corso. (Quanto è lontana, la famosa massa critica?)
Il pessimista, ovviamente, potrà capovolgere tutto ciò che ho detto con la massima facilità. Mi permetta solo di suggerire, in quel caso, che forse una piccola parte del problema può abitare anche dentro di lui.
Massimo Mazzucco
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