(Una riflessione nata dalla recente discussione sul Codex Alimentarius).
Il termine "alternativo" viene di solito utilizzato per tutto ciò che non è di uso comune, e viene quindi assegnato "dal punto di vista" della maggioranza della popolazione, nei rispetti della minoranza che quell'uso non pratica.
L'ambivalenza del termine, non a caso utilizzato sistematicamente dai media occidentali, sta nel suggerire anche, in forma subliminale, una "devianza" dalla retta via, che comporterebbe quindi un rischio per chiunque volesse farvi ricorso. Ma per un omeopatico, per un ayurvedico, ... ... o anche per lo sciamano degli Objiwa, "alternative" sono semplicemente le medicine degli altri, anche se praticate in grande maggioranza.
Più giusto sarebbe quindi parlare di medicine "diverse". Ma in che cosa si possono differenziare così radicalmente, i vari sistemi di cura, visto che lo scopo ultimo dovrebbe essere uguale per tutti?
Nel modo con cui raggiungerlo, ovviamente.
Della nostra medicina, detta allopatica, sappiamo fin troppo. Cura il sintomo, o meglio lo combatte, e non si preoccupa più di tanto della causa.
Chiacchieravo una volta con un "professorone", oncologo primario di una nota clinica romana, e provai timidamente a suggerire che una certa proprietà della cartilagine di squalo, detta antiangiostatica, pare aggredire e soffocare le cellule neoplastiche, poichè impedisce la neovascolarizzazione, indispensabile ai tumori per crescere. In altre parole, li "soffoca".
"Ennò! - mi rispose lui tutto scandalizzato - la cellula nun me la devi soffocà [la translitterazione è mia], se no è finita! Io la cellula la vojjo grossa, bella rossa, bella visibbile, così zacchete! che la pijjo col raggio della radioterapia! Se me la soffochi dopo come la faccio a beccà, che manco più la vedo?"
Confermo tristemente questo dialogo in tutta la sua più fedele veridicità.
Pur essendo - almeno, si spera - un caso estremo, l'esempio sintetizza certamente la cecità della nostra medicina moderna, ormai talmente compartimentalizzata, talmente focalizzata sul singolo obbiettivo, che ormai l'oncologo non sa più nulla di ciò che fa l'osteopata, nè questi sa nulla di ciò che fa l'otorino, eccetera eccetera. Si sono divisi il corpo umano a pezzettini, ognuno lavora a testa bassa nel suo giardino, dimenticandosi completamente che questo fa parte di un paesaggio, complesso e variegato, chiamato essere umano.
L'olismo che caratterizza invece la medicina ayurvedica, e tutte emedicine orientali in genere, si staglia nettamante sullo sfondo come l'elemento che la mette in diretta antitesi con la nostra.
Se vai dall'ayurvedico e gli dici "ho male al fegato", ti sentirai rispondere che soffri di un profondo disequilibrio fra le complesse forze - invisibili all'allopatico, e quindi, per lui "scienziato", non-esistenti - che regolano la nostra vita psico-fisica. E ti verrà magari chiesto di agire sui polmoni, che a casa nostra col fegato c'entrano come i cavoli a merenda.
L'omeopatia invece ragiona secondo il principio di "aiutare" il corpo a reagire da solo contro il male, stimolando l'azione degli elementi appropriati contro ogni male specifico. Anch'essa però - che i suoi buoni risultati siano dovuti ad effetto placebo o meno non importa - tende comunque a prendere primariamente di mira il sintomo.
Lo svantaggio evidente dell'omeopatia, in molti casi, è che stimolare una risposta naturale, in presenza di emergenze vere e proprie, è un processo troppo lento rispetto alle esigenze: quando il mal di testa ti spacca il cranio vuoi solo una cibalgina che te lo faccia passare in 5 minuti, altro che "stimolare le tue risorse".
Molto più utile invece, ovviamente, può risultare l'omeopatia nei casi in cui la cura sia raggiungibile in tempi medio-lunghi.
A queste tre "branchie" fondamentali della medicina mondiale, che volutamente abbiamo presentato in maniera superficiale, bisogna ora aggiungere quello che i media amano definire, con un tocco di sufficienza, "i rimedi naturali".
Ecco che ci si ricollega al Codex Alimentarius, con tutto quello che gli fa da contorno.
A pensarci meglio infatti, invece di assumere la valenza negativa che il termine intende darle, la definizione di "rimedi naturali" dovrebbe destare dei forti sospetti sulla nostra medicina ufficiale: come sarebbe, "naturali"? Che bisogno c'è di usare quel termine? Vuol forse dire che gli altri sono tutti "artificiali"?
Ebbene, pare proprio di sì. E' tutta chimica, ed è tutta, ovviamente, nelle mani delle industrie farmaceutiche. E così, nel capovolgimento del paradigma moderno, che ha visto negativizzare addirittura un termine come "pacifista", anche "naturale" è diventato qualcosa ormai da compatire, se non da evitare del tutto, a meno di non ritrovarsi con le pezze al culo: a volte sembra quasi che il paziente che si rivolge ai "rimedi naturali" lo faccia solo perchè non ha i soldi per farsi ricoverare in una lussuosa clinica privata.
La differenza invece sta proprio nel termine usato sopra, "farsi ricoverare". La medicina moderna prevede, da parte del paziente, un cieco abbandono alle sofisticatissime tecnologie ed alla sapienza inarrivabile del nostro sistema sanitario. Il ricorso al "naturale" prevede invece una presa di coscienza da parte del paziente, che senza nessun bisogno di prendere lauree supplementari, è spinto a comprendere prima alcuni meccanismi fondamentali del funzionamento del proprio corpo, per poi agire di conseguenza, in maniera cosciente ed attiva, e non più silente e passiva.
E forse buona parte dei risultati del "rimedio naturale", che qui non analizziamo nel dettaglio per non scadere a livello promozionale, sono dovuti anche a questo diverso atteggiamento interiore del paziente, che contribuisce così a guarirsi nello stesso modo in cui aveva contribuito, forse senza accorgersene, ad ammalarsi.
Sempre che la psicosomatica - ovvero il rapporto mente-corpo - non sia un'ennesima bufala inventata da qualche sciamannato new-age che quel giorno non aveva niente di meglio da fare.
Massimo Mazzucco