di Andrea Franzoni
Il Libano è sceso in piazza, in questi giorni, contro il “Club di Parigi”, gruppo di potenze economiche che concedono dal 1956 ingenti prestiti ai governi del sud del mondo chiedendo, in cambio della diluizione del pagamento degli interessi sull'enorme debito estero (o di una boccata provvisoria di caro ossigeno) privatizzazioni favorevoli, deregolamentazioni dell’economia, privilegi e concessioni politiche. Durante la conferenza del 25 gennaio i paesi e gli enti “prestatori” (Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale) hanno gentilmente concesso un nuovo prestito di circa 5 miliardi di euro (quasi 200 dollari per ogni abitante) al Libano, in cambio di concessioni economiche e politiche fra le quali la diluizione dei vecchi debiti della guerra civile, la privatizzazione morbida di settori economici appetibili (come la telefonia) e – si sussurra- qualche nuovo campo profughi per dirottare i palestinesi.
L’enorme somma di denaro, concessa sotto forma di prestito da numerosi stati (in prima linea Francia e Arabia Saudita, nazione sunnita che ambisce grazie alla protezione degli USA a potenza mediorientale), servirà soprattutto per ricostruire il paese distrutto dall’irruenza di Israele che non risparmiò, nel 2006, ponti, strade, edifici pubblici, centrali elettriche e nemmeno il mare, pesantemente inquinato, fondamentale sia per il commercio che per il turismo danneggiato in maniera forse irreparabile. I “donatori” (ma sarebbe corretto chiamarli “investitori” o “manipolatori”) del Club di Parigi continueranno inoltre a discutere con il governo Siniora ... ... per quanto riguarda gli interessi dei vecchi prestiti concessi, quasi due decenni orsono, per tamponare i buchi provocati da circa quindici anni di guerra (erroneamente e riduttivamente chiamata “civile”, visto che i responsabili delle devastazioni furono anche alcuni stati limitrofi). Questi prestiti, vecchi e nuovi, ricadranno ovviamente sulle generazioni future.
A fianco delle proteste di Hezbollah e dell’opposizione cristiana per ragioni politiche (il governo di Siniora è, secondo la costituzione, illegittimo a causa delle dimissioni di tutti i ministri sciiti), sono scesi in piazza quindi i sindacati per uno sciopero generale che segue alle dimostrazioni inscenate fin dall’8 gennaio.
Dietro la cortina fumogena dell’opposizione “presunta” (per usare un eufemismo), servita però come unica e certa chiave di lettura dai media, tra dittatura e democrazia, libertà e islam, civiltà e terrorismo, occidente e Siria o Iran, il Libano vive insomma l’ennesimo strangolamento economico e di ricatto che ogni paese, escluse un manipolo di potenze storiche (non si pensi chiaramente all'Italia), ha vissuto nell’ultimo mezzo secolo.
E’ difficile, di fronte a questa desolante realtà, non cadere in letture scomode: quelle letture scomode che fanno montare, consce dell’impotenza del Terzo Mondo, odi e opposizioni (per esempio nel mondo arabo) anche violente verso l’occidente. Come non leggere nella distruzione gratuita delle infrastrutture libanesi, in quella violenza inaudita che ha dato a tutti l’impressione che più che colpire Hezbollah si volesse lasciare in ginocchio un intero paese, la premessa forse volontaria per la svendita non soltanto di un concetto logoro e privilegio di pochi come quello di sovranità nazionale ma anche dei telefoni e di altri bocconi pregiati che andranno a diversificare gli investimenti e i profitti delle compagnie americane, francesi, italiane? E’ giusto che a pagare la provocazione di Hezbollah e la risposta del “rullo compressore” Israele siano i libanesi, quattro milioni di persone sulle quali pesano diverse centinaia di dollari cadauno di debiti, capitale più cospicuo interesse? Il Libano non ha forse già pagato abbastanza sia in termini economici (già oggi è stato ridotto, in sostanza, ad un paradiso fiscale con quartieri centrali di Beirut sede di banche, finanziarie e nababbi mediorientali a fianco di sobborghi dimenticati) sia umani? E con quale denaro lo stato libanese ormai privato di tutto, a partire da ciò che genera utile e moneta estera (dalla telefonia alle spiagge alla facoltà di tassare), potrà fare fronte, domani, agli esattori di Parigi, di Berlino, di Roma?
Anche l’Italia, ovviamente, partecipa e parteciperà ai saldi. Se per la missione Unifil si spenderanno secondo le stime 400 milioni di euro, Prodi e D’Alema hanno promesso a Siniora 120 milioni di euro ovviamente in prestito, con l’ulteriore speranza di avere in cambio qualche favore. Vista l’utilità della missione Unifil, non sarebbe stato forse meglio risparmiare tutti e aiutare realmente i libanesi, con al limite progetti di sviluppo e ricostruzione “gratuita”, senza usure e senza strangolamenti per le generazioni future?
Economia e politica, in questo campo, sono strettamente correlate e vivono in simbiosi: la politica è funzionale alla difesa degli interessi economici degli “investitori” che prestano denaro chiedendo riscontro e influenza, e l’economia è un mezzo per “comprare” l’appoggio politico dei paesi in difficoltà. Per leggere il Libano moderno è necessario utilizzare quindi entramble le chiavi.
Passa così in secondo piano la reale rappresentatività e legalità dell'attuale governo, che la carota degli "aiuti" vuole inchiodare al trono. I paesi occidentali (e le unità private e multinazionali che beneficiano dei saldi promossi da Parigi) sono infatti legati a doppio filo a Siniora: lo ricordiamo benissimo quando, malleabile come pochi, passeggiava in punta di piedi tra i corridoi del vertice di Roma in cui la comunità internazionale decise di lasciare ad Israele qualche giorno ulteriore per “rafforzare la propria sicurezza” mentre il proprio paese veniva ridotto da nord a sud ad un cumulo di macerie. Esplicito D’Alema: «Gli impegni economici sono presi con il governo [Siniora]. Se dovesse cadere, questo richiederebbe ovviamente una sospensione di tutto il meccanismo. Si tratta di un accordo tra la comunità internazionale e il governo libanese. Se dovesse venire meno uno dei contraenti si dovrebbe riconsiderare la situazione». Si tratta palesemente di un ricatto: una boccata momentanea di ossigeno (forse) ai libanesi, purché essi accettino (democraticamente?) il presidente che D’Alema desidera e ci ripaghino, ora e sempre, con i dovuti interessi. Il sostegno a Siniora gli permetterà anche di costruirsi un esercito: 40 milioni di dollari (in veicoli militari) sono già stati donati al politico filooccidentale dagli USA.
Non è tutto: alcuni membri dell’opposizione scesa per le strade (bloccando il paese) denunciano (riportati in Italia dal network cristiano Asianews.it) tra gli ordini del giorno della riunione di Parigi la richiesta, prima di tutto francese, di consolidare i campi profughi palestinesi (che rimangono campi profughi dagli anni '60 e '70) e magari di costruirne altri dirottando qualche altro centinaio di migliaio di palestinesi lontano dal regno di Israel. Nelle stanze chiuse di Parigi (nonne delle stanze americane in cui De Gasperi e i suoi successori negoziarono, insieme al piano Marshall, tutti quei “vecchi impegni presi” riesumati per esempio da Prodi per mettere una lapide sulla protesta dei vicentini contro la nuova base) si è forse negoziata anche una fetta del destino palestinese.
Hezbollah e l’opposizione cristiana (i cristiani sono divisi, e in alcuni quartieri si sono fronteggiati apertamente) denunciano da tempo, insieme al presidente della repubblica (bollato come filo-siriano), l’illegittimità del governo Siniora. Esso, infatti, aveva al suo interno sei ministri appartenenti a questa opposizione dimessisi nell’autunno scorso. Secondo la costituzione libanese, che stabilisce delle quote di parlamentari sulla base di una ripartizione tra le varie “confessioni religiose” basate su censimenti vecchi e che quindi non tengono conto dell’aumento enorme della componente sciita, relegata ancora a minoranza, il governo perde la legittimità quando viene a mancare la rappresentanza di almeno una delle parti in causa (in questo caso gli sciiti, azzeratisi con le dimissioni dei ministri vicini a Hezbollah). Da qui le richieste di Hezbollah: nuove elezioni previa una revisione delle quote, che tenga conto dei reali rapporti di forza attuali, che garantirebbero agli sciiti un peso maggiore e il diritto di veto sulle decisioni fondamentali (come i rapporti e le strategie da tenere nei confronti degli investitori). Per le ragioni già esposte, tuttavia, questo non è possibile.
In questo intrico di equilibrismi, tra la friabilità di Siniora, i corteggiamenti di D’Alema e Chirac, le badilate di fango gettate sull’opposizione semplicemente “filo-iraniana” e la posizione dominante di Israele e del Club di Parigi, spetta ai libanesi, per qualche almeno qualche altra generazione, riparare i cocci di tutti.
Andrea Franzoni (Mnz86)
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