Fra le persone più deluse per la sua nuova presidenza sicuramente c’è lo stesso Barack Obama, che deve aver imparato molto in fretta, nei mesi scorsi, la differenza fra i buoni propositi e la loro applicazione nel mondo reale.
Per quanto abbia segnato alcuni punti a suo favore, lo ha fatto in zone di territorio relativamente facili da conquistare: il ritorno della ricerca sulle staminali, la liberalizzazione del FOIA, l’apertura al mondo islamico, la legge per la parità del salario femminile, oppure la fermezza con cui conduce la campagna per la riforma medica, sono tutte battaglie che gli fanno onore, ma che scompaiono di fronte alla facilità con cui ha dovuto cedere su due dei tre argomenti più importanti: guerra ed economia.
Per prima cosa, Obama deve aver toccato con mano quanto sia difficile convincere i generali a schiodare le proprie truppe da qualunque angolo del mondo, una volta scesi sul campo di battaglia. Questa è gente per cui la diplomazia è “roba da donnine”, mentre retrocedere di un solo metro significa ingiuria e disonore per il resto dei loro giorni. Aggiungici gli imponenti interessi economici di chi in Asia Centrale ha puntato tutto quello che gli restava (leggi UNOCAL & Co.), e ti ritrovi a dover farfugliare spiegazioni ridicole sul perchè parli di “rispetto fra le nazioni” mentre raddoppi i tuoi contingenti in Afghanistan.
Non a caso Obama ha commentato che “è molto più facile iniziare una guerra che finirla”.
Sul fronte della finanza poi Obama ci ha fatto proprio la figura del merlo: partito per salvare “Main Street” da “Wall Street”, ovvero “la gente” dalle “banche”, … … sembra che abbia finito per accomodare prima di tutto le esigenze della Fed, che si serve proprio di Wall Street per fottere Main Street.
Ho detto “sembra” perchè non ho gli strumenti per giudicare da solo certe strategie di tipo economico, ma non mi pare di aver letto molti articoli che sostenessero che Obama ha invece messo tutti nel sacco.
In economia è tutto talmente volatile già per natura, che se non sei più che preparato su ogni minimo dettaglio ci vuole poco a farti credere tutto e il contrario di tutto.
A Obama però rimane ancora uno dei tre argomenti “big”, su cui giocarsi la reputazione: Israele.
Proprio in questi giorni Netaniahu ha scoperto le carte, mostrando di avere in mano esattamente quello che tutti pensavano che avesse: il solito bluff sionista, mascherato da pacifismo di facciata. La “grande disponibilità” di Netaniahu verso i palestinesi, che gli aveva permesso di conquistare la guida del governo, si è ridotta ad una proposta semplicemente ridicola: accetteremo la soluzione dei due stati – ha detto - a condizione che quello palestinese sia demilitarizzato.
Poi però si è sbilanciato, dicendo che verrà congelata l’espansione delle colonie, ma ha subito aggiunto che questo non fermerà il loro “sviluppo naturale”. Che sarebbe come dire “mi impegno a non farti del male, ma se mi parte un cazzotto non posso farci niente”.
Tanto per essere sicuro che i palestinesi non accettino mai, Netaniahu ha anche aggiunto che prima di firmare qualunque accordo è necessario che i palestinesi riconoscano Israele come “stato ebraico”, il che equivale a rendere immediatamente deportabile il milione e mezzo di arabi nazionalizzati, che già vivono in Israele come cittadini di serie B.
Il discorso di Netaniahu è venuto in risposta a quello di Obama pronunciato al Cairo dieci giorni fa: in quell’occasione il presidente americano aveva dichiarato “inaccettabile” la situazione delle colonie israeliane in Cisgiordania, obbligando il PM israeliano a scoprire le carte.
Oggi la Casa Bianca ha reagito freddamente alla presa di posizione di Netaniahu, commentando che rimane ferma la sua intenzione di raggiungere una soluzione a due stati, il che naturalmente comporta condizioni ben diverse da quelle poste da Netaniahu.
Dal canto suo, il Ministro degli Esteri Clinton ha detto che qualunque precedente “accordo informale”, fra un presidente americano ed il governo israeliano, che avesse tollerato questo “sviluppo naturale” delle colonie, era da considerarsi decaduto.
Obama e Clinton sembrano quindi decisi ad affrontare apertamente la questione palestinese, ben sapendo che convincere un sionista ad un qualunque compromesso è ancora più difficile che convincere un generale a retrocedere.
Paradossalmente, è proprio sull’argomento che appare più ostico di tutti, Israele, che Obama ha qualche seria possibilità di successo: mentre sugli altri due fronti la complessità del problema supera di gran lunga la portata di qualunque presidente, la questione israeliana si riduce fondamentalmente ad una questione psicologica, dove certe sudditanze sono tanto forti all’apparenza quanto semplici da smantellare nella sostanza.
Finchè i cordoni della borsa resteranno in mano americana – e mai come oggi lo sono - gli altri hanno poco da sbraitare.
Certo che se Obama fallisse anche in questa direzione, rischierebbe di passare lui alla storia come il bluff più grande di tutti.
Massimo Mazzucco