di Florizel
Non è certo la prima volta che nella gloriosa storia della Repubblica Italiana si verifica una frattura tra potere politico e potere giudiziario, almeno fin da quando le lacune delle istituzioni in materia di “lotta alla legalità” sono state inizialmente riconosciute tali, e dibattute sul piano della loro potenziale risoluzione.
Le vicende dell’Italia degli ultimi decenni sembrano invece dimostrare quanto esse siano una caratteristica rivelatasi fisiologica al potere statuale ed al suo mantenimento (come rivela l’attuale deriva presa dalle classi dirigenti).
Né è la prima volta che il ruolo della magistratura finisce poi per investire competenze istituzionali che sconfinano dal suo ambito, per il semplice fatto di supplire a dei “vuoti decisionali” rispetto a contraddizioni e punti nodali che, quando non affrontati, hanno generato l’impantanamento e la paralisi di importanti traguardi nella denuncia delle grandi (e piccole) illegalità che lo stesso mondo politico dichiara di voler combattere.
In questi ultimi mesi, la querelle tra il ministro di Giustizia Clemente Mastella ed il pm Luigi De Magistris rivela palesemente che la pendenza da “una sola parte” dell’ equilibrio tra i due poteri, ... ... quello politico e quello giudiziario, è un fatto voluto e difeso a vantaggio non solo del mondo politico, e sostenuto anche da una parte dell’apparato giudiziario.
Per De Magistris è arrivata, tradizionalmente puntuale, la richiesta di trasferimento dal ministro di Giustizia Clemente Mastella, proprio nel momento in cui alcune sue inchieste portavano all’emersione dell’esistenza di un "comitato d'affari" che agirebbe in Calabria e Basilicata (in una delle quali risulterebbe indagato per abuso d'ufficio il premier Romano Prodi) e che svelerebbero gli interessi comuni tra politica, imprenditoria, finanza, ed istituzioni (solo poche testate e siti web parlano anche di massoneria) relativi ad ingenti finanziamenti pubblici destinati dall’ Unione Europea alla Calabria, che si aggirano intorno agli 8 miliardi e mezzo di euro a partire dal 2007 fino al 2013.
A muovere l’istituzionale indignazione di Mastella sarebbe l’uso di intercettazioni attraverso l’acquisizione di tabulati telefonici da parte del pm, una sua responsabilità in merito a “fughe di notizie” (con particolare riferimento all’inchiesta “Why not”) che avrebbe intaccato la riservatezza delle indagini preliminari, interviste “inopportune” e un “abnorme” (questo il termine usato dal misurato ministro di Giustizia) decreto di perquisizione nei confronti di alcuni indagati.
Soffermandosi sull’aspetto “tecnico” delle procedure giudiziarie, ed accantonando per il momento le dovute considerazioni circa lo specifico dell’inchiesta di De Magistris, ci si trova di fronte ad un vizio interno al meccanismo che regola il rapporto tra i due apparati dello stato, quello giudiziario e quello legislativo (o esecutivo).
Se è vero che il potere legislativo è la facoltà di fare le leggi, il potere esecutivo è quella di applicarle, ed il potere giudiziario quella di “giudicare, ed eventualmente punire, chi non rispetta le leggi”, (
link ) nella vicenda di cui parliamo un magistrato, animato indubbiamente da un grande “senso dello stato”, nell’adempimento del suo compito istituzionale si vedrebbe costretto a prescinderlo, pur di ripristinare una, seppur piccola, porzione di “legalità”.
Nei fatti, tra le cose di cui viene accusato De Magistris c’è che avrebbe violato la legge Boato del 2003, utilizzando intercettazioni dell’utenza telefonica di diversi indagati senza la preventiva autorizzazione delle Camere di appartenenza.
In sintesi, la legge Boato prevede che le intercettazioni degli indagati sono valide solo se la Procura, fattane richiesta al Gip che la richiede al parlamento, riceve autorizzazione da quest’ultimo. Ma se quest’ultimo risponde che senza indagati dalla Procura non c’è motivo di autorizzare le intercettazioni, la Procura non può procedere. Un beffardo gioco del cane che si morde la coda.
E’ accaduto al giudice Clementina Forleo nell’ambito dell’inchiesta Unipol.
E De Magistris deve senz’altro essersene ricordato, quando gli è stata mossa proprio quella obiezione. Nonostante egli stesso abbia chiarito che la norma per il decreto di perquisizione non prevede l’obbligo della firma del capo dell’ufficio, e le circostanze “particolari” di fronte alle quali si è trovato.
«È una accusa falsa in quanto il provvedimento di iscrizione l’ho secretato per un buon motivo: avevo scoperto che il procuratore Lombardi e l’aggiunto Murone erano in rapporti stretti con gli indagati. Non informo Lombardi perché avevo scoperto, un mese prima, che probabilmente era lui la gola profonda che nel maggio del 2005 informò gli indagati di una imminente attività di perquisizione nei loro confronti. E un perito ex Banca d’Italia, Piero Sagona, aveva scoperto che Pittelli era in società con il figlio dell’attuale moglie del procuratore Lombardi»
(link).
E, da indagatore, il pm rischia di ritrovarsi indagato da parte di una magistratura che, applicando le regole dettate dal potere legislativo, legittima le stesse scappatoie del sistema politico, e finisce col sostenerne i disvalori, decretando la sua sconfitta nel campo d’azione che le compete.
Riportando la memoria alla vicenda che contrappose l’allora governo presieduto da Andreotti in qualità di Presidente del Consiglio, e Francesco Cossiga, Presidente della Repubblica ed il pm Casson, in merito alla
strage di Peteano e alla scoperta di
“Gladio”, la struttura clandestina legata alla Nato, una considerazione nasce spontanea: se in quell’occasione lo “stato” sembrò addirittura imbarazzato per l’emersione di un dato allora ritenuto anticostituzionale, negli ultimi tempi il comportamento delle classi dirigenti è diventato assolutamente disinibito ed autoassolutorio di fronte a fatti che ne denuncerebbero il coinvolgimento in faccende di malaffare.
A chi questo dovesse ispirare una “nota nostalgica” per quel momento politico, è utile ricordare che, affidandosi ad elementi concreti, l’attuale degenerazione della struttura statuale, per alimentare la sua infinita avidità e la sua sete di potere, si è fatta forza esattamente di quelle “alte” lezioni di depistaggio, oggi raffinatamente tradotte in “leggi”. E se la faccia tosta non dovesse bastare, la strategia della tensione potrebbe sempre essere ripescata dai polverosi archivi del potere.
La “strategia preventiva” che ai tempi di Gladio risultò utile ad arginare “fuoriuscite insurrezionali” servendosi di “clandestini apparati paralleli”, e che oggi “punisce” un pubblico ministero attraverso procedimenti legislativi, non solo sottrae le istituzioni ad un “giudizio” che potrebbe trasformarsi in aspra critica da parte dell’opinione pubblica, ma va ad infondere nuova linfa a quel cancro costituito dalla commistione tra stati, finanza, poteri forti e poteri “occulti” che non si limita solo agli italici confini.
Il meccanismo autodifensivo diventa una “legge”, e l’effetto che ne scaturisce è quello di costituire, né più né meno, le leggi ad personam da cui l’attuale coalizione di governo, ieri all’opposizione, si è detta tanto scandalizzata.
Resta una domanda da porsi: se Falcone e Borsellino si fossero imbattuti in “leggi” del genere, sarebbero ancora vivi?
Se lo chiedano i ragazzi di Locri, i movimenti che trasversalmente si stanno interrogando ed organizzando ovunque, e chiunque sta cercando disperatamente di “fare pulizia”.
“Mio padre è stato ucciso una seconda volta. Dallo Stato.” - Rosanna Scopelliti.
Florizel
Link utili:
Legge Boato sulle intercettazioni.
Comma 22.
"Why Not".
Fuga di notizie.
Mastella interviene alla Camera in merito al caso "Why Not".