Una volta stavo seduto di fronte a un famoso produttore italiano, che a Hollywood è diventato una vera e propria leggenda. Mentre stavamo chiacchierando arrivò la telefonata di un pezzo grosso della Paramount, che era tutto agitato perché non riusciva a chiudere il contratto con Tom Cruise per un film importante. Il produttore lo mise in attesa, chiamò Tom Cruise su una seconda linea, e si mise a patteggiare direttamente con lui. In pochi secondi convinse l’attore di avere davanti il ruolo più importante della sua carriera, e si accordò con lui per un compenso di 9 milioni di dollari. Tornò sulla linea principale, e disse al boss della Paramount: “Tom ha detto che per nove milioni e mezzo il film lo fa”. L’uomo della Paramount lo ringraziò felice, e appese il telefono. Il produttore mi guardò e disse: “Ho appena guadagnato mezzo milione di dollari. Dunque, dicevamo?”
Cifre di questo genere, che possono sembrare spaventose, a Hollywood rappresentano la normalità. Questo è potuto avvenire grazie alla crescita abnorme che ha avuto il cosiddetto star system negli ultimi 30 anni. Fino agli anni ‘70, il cinema americano era stato un prodotto destinato principalmente alla distribuzione nazionale, che recuperava poi dai mercati esteri le cosiddette “noccioline”. Un film cioè doveva essere in grado di andare in attivo grazie alla sola distribuzione nazionale, mentre eventuali vendite estere rappresentavano per gli investitori del semplice “grasso che cola”.
Ma da quando siamo entrati nel villaggio globale, il mercato potenziale si è improvvisamente decuplicato, mentre le majors americane sono riuscite ad imporre in tutto il mondo ... ... un prodotto sempre più standardizzato, decisamente efficace e altamente remunerativo. Addio “Midnight Cowboy”, e benvenuto “Saturday Night Fever”.
Grazie al fatto di essere un sistema chiuso – l’intero processo produttivo avviene in loco, dall’ideazione alla realizzazione al lanciamento del prodotto – chi lavora nel cinema a Hollywood vive così in una specie di limbo dorato, che non ha nessun rapporto con la realtà circostante: mentre un taglio di capelli da un normale parrucchiere ti può costare venti dollari, il parrucchiere che taglia i capelli a Richard Gere ne guadagna magari duemila in un solo giorno. E finchè questa macchina sarà in grado di fatturare svariati miliardi di dollari all’anno sul mercato mondiale, Hollywood potrà permettersi di spartirsi le cifre da capogiro di cui stiamo parlando.
Ma c’è anche il lato oscuro della medaglia.
Proprio a causa di queste cifre colossali – che inizialmente bisogna comunque investire - ogni film è diventato ormai una scommessa che è in grado di mettere in ginocchio anche la più potente casa di distribuzione, con il fallimento di un solo film.
Ma c’è soprattutto un altro problema: trattandosi di un sistema chiuso, basta che uno dei suoi mille ingranaggi si inceppi, e l’intera macchina rischia di bloccarsi. Viaggiando infatti su parametri economici che non hanno relazione con il mondo esterno, non si possono semplicemente “ordinare i ricambi” da fuori, ma bisogna attendere che il danno venga riparato tutto dal suo interno. Accade così che gli sceneggiatori di Hollywood si mettono a scioperare, e questo innesca una catena di effetti negativi che si ripercuote rapidamente sull’intera industria, rischiando di danneggiarla in maniera irrimediabile.
In altre parole, di fronte allo sciopero degli sceneggiatori, non si può semplicemente dare il lavoro a qualche crumiro o scrittore straniero, poichè lo stesso sistema, per salvaguadare gli incassi dorati dei propri eletti, ha creato delle rigidissime regole sindacali che impongono agli studios di lavorare esclusivamente con gli ”iscritti all’albo”. O sei dentro o sei fuori, e quando la porta si chiude non c’è più nulla da fare.
A loro volta, gli sceneggiatori di Hollywood non si accontenterebbero più di andare a lavorare a Londra o a Parigi, dove le paghe sono molto più basse, e quindi rimangono prigionieri della gabbia dorata che loro stessi hanno creato.
Siamo quindi di fronte ad un sistema che ha artificialmente gonfiato i propri standard economici, forte delle vendite sui mercati esteri, ma che si trova improvvisamente in difficoltà quando è obbligato a rapportare i propri parametri a quelli del mondo reale che lo circonda.
In questo senso si potrebbe tentare una analogia con la situazione economica dell’America stessa, che fino ad oggi ha vissuto nel lusso grazie ad un valore del dollaro tenuto artificialmente alto, e che di colpo si trova in difficoltà nel momento di dover fare i conti con i parametri reali del mondo che la circonda.
Questa però è materia in cui sono poco esperto, per cui lascio volentieri lo spazio per esplorare questa ipotesi a chi se ne intende più di me.
Massimo Mazzucco
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