[size=small]Dall’Honduras a New York,
in nome degli sfruttati di tutto il Centroamerica.[/size]
di Massimo Mazzucco
Si chiama Lydda Gonzales, ha dicciannove anni, e pesa meno di cinquanta chili scarsi, ma la rabbia dentro deve essere enorme, per riuscire a fare quello che ha fatto.
Da tredici mesi impiegata in uno “sweatshop” – i laboratori tessili, di cui il centroamerica è pieno, che producono tonnellate di capi per i colossi commerciali americani – all’ennesima umiliazione da parte del proprio capo non ce l’ha più fatta, ha protestato, ed è stata naturalmente licenziata in tronco.
Ma invece di tornare a casa a piangere la propria disperazione, come tanti, Lydda ha fatto la valigia... ...ed è andata dritta fino a New York, dove sapeva trovarsi la sede centrale della ditta per cui lei cuciva le magliette. Qui si è data da fare dappertutto, spendendo quelle quattro lire che aveva in tasca, finchè è entrata in contatto con il sindacato americano, che ha un dipartimento apposito per combattere questa particolare piaga, chiamato “No Sweat”. (Sweatshop, letteralmente, vuol dire “la fabbrica del sudore”).
Tre giorni dopo Lydda era sulle pagine di tutti i giornali, per aver condotto una protesta pubblica, organizzata dal sindacato, davanti ad un nuovo negozio della ditta incriminata, dove ha denunciato pubblicamente tutte le miserie a cui sono sottoposti i lavoratori degli sweatshop in centroametrica (e, si suppone, nel resto del terzo mondo, con Cina e Vietnam in testa a tutti).
Quattordici-sedici ore di lavoro giornaliere, a ritmi massacranti, con il boss che ti ronza intorno col cronometro sempre in mano. Condizioni igieniche e di sicurezza decisamente insufficienti, disciplina arbitraria, contributi ed altri ammennicoli ovviamente inesistenti. La pausa per mangiare è minima, per andare al gabinetto più di una volta al giorno devi implorare, e se solo osi nominare la parola “straordinario” vieni minacciata di licenziamento. Alle più restìe vengono riservati trattamenti particolari, che variano da fabbrica a fabbrica, e vanno dalla semplici razioni di botte all’essere obbligato - se non vuoi morire di sete - a bere acqua intrisa di feci umane.
Naturalmente le società americane che si servono di queste fabbriche conoscono benissimo le condizioni disumane di lavoro, ma fanno finta di niente e si nascondono dietro all’alibi di “essere state rassicurate che lì tutto si svolge a norma di legge”. Della giungla, però.
E quando i sindacalisti americani si recano a visitare le fabbriche in centroamerica, devono prima ottenere un preciso appuntamento, per cui queste si fanno trovare sempre splendide ed ammantate, mentre agli operai è severamente probito parlare coi sindacalisti se non in presenza di un dirigente. Se no appunto, appena questi se ne vanno, sono botte per tutti.
Ancora più edificante è stato il trattamento che Lydda ha ricevuto a casa propria, l’Honduras, dove i giornali locali – chissà sotto la spinta di quali interessi - sono arrivati a definirla una “terrorista” e una “traditrice della nazione”.
Ma Lydda ormai ha rotto il ghiaccio, ed è diventata il tramite per il sindacato americano per avere informazioni di prima mano, con le quali stanno sporgendo denunce su denunce contro gli imprenditori americani un pò troppo distratti dalla contabilità interna.
La tabella che segue è stata fornita dalla Sweatshop Watch, un’organizzazione americana di trenta sindacati “anti-sweat” (http://www.sweatshopwatch.org/), e mostra la suddivisione di guadagno su una ipotetica vendita al negozio di 100 dollari.
Vendita 100 $ = 50 al negoziante, 50 al produttore.
Dei 50 $ al produttore = 12.50 il suo guadagno, 22.50 spese di tessuti e varie, 15 al padrone dello sweatshop.
Dei 15 $ allo sweatshop = 9 di guadagno pulito, 5 di spese, 1 ai lavoratori.
Quindi, per due felpe cucite a mano (circa 50 dollari l’una alla vendita), Lydda prende un dollaro. E siccome ci mette circa un’ora a farne una, Lydda guadagna 50 centesimi l’ora.
In Honduras la paga minima per sopravvivere è più del doppio.
Massimo Mazzucco