A furia di fingere di esportare democrazia, si rischia di finire per riuscirci: sembra questo il senso ultimo degli eventi che stanno sconvolgendo l’Egitto in questi giorni. Di certo, gli eventi a cui stiamo assistendo possono essere presi come l’esempio di una trasformazione di tipo geopolitico che va ben oltre i confini del paese interessato.
Abbiamo detto “trasformazione” e non “rivoluzione”, e questo rende l’intera vicenda egiziana mille volte più importante e significativa di una qualunque rivolta armata. Le rivolte armate normalmente esprimono una rabbia generica, istintiva e non articolata, mentre il popolo egiziano sta dimostrando di avere molto chiari sia le cause che le finalità del proprio scontento. Non vogliono semplicemente la cacciata di un dittatore, che venga sostituito da un altro dittatore travestito da falso progressista, ma vogliono dei cambiamenti precisi e tangibili nella loro vita quotidiana: libertà di espressione, diritti civili, sindacati indipendenti, ed un livello di vita per tutti che sia almeno dignitoso.
Oggi in Egitto due terzi della popolazione vive con una media di due dollari al giorno, e questo è inconcepibile in un paese che da decenni riceve appoggi e aiuti finanziari da miliardi di dollari direttamente dagli Stati Uniti. E’ quindi evidente che gli appoggi degli americani ... ... non servono al benessere della popolazione – quando mai sono serviti a quello scopo, in realtà? - ma a mantenere un regime che tenga sotto controllo questa popolazione, contro i suoi stessi interessi. Una dittatura di matrice imperialista, appunto, anche se travestita da leadership illuminata. Ora questo gli egiziani lo hanno capito, ed è per questo motivo che non accetteranno un semplice rimpasto “di facciata”, ma che andranno avanti finchè vedranno concretizzarsi sotto i loro occhi i cambiamenti che vanno cercando.
Un altro aspetto interessante della vicenda è che non si tratta affatto di una “rivolta” ispirata dai gruppi islamici, come molti potrebbero credere. Per quanto la “Fratellanza Musulmana” abbia una certa consistenza in Egitto, i suoi leader si sono guardati bene dal cercare di prendere le redini di un movimento mille volte più grande di quello che potrebbero controllare: questa è la gente comune che protesta, ed il fatto che siano atei, cristiani o musulmani non c’entra nulla. Anzi, in un gesto decisamente significativo, la “Fratellanza Musulmana” si è umilmente unita alle proteste, lo scorso martedì, riconoscendo di fatto che questa iniziativa non sia partita da loro.
E’ anche importante notare come gli scontri odierni non siano il risultato di una “fiammata” estemporanea, ma il prodotto di una lunga rincorsa, fatta di un crescente scontento sociale, iniziata circa 6 anni fa. Nel 2004-2005 nacque il primo movimento popolare, che protestava “contro la continuazione del potere di Mubarak e contro il passaggio dei poteri al figlio Gamal”. Fra il 2006 e il 2008 vi fu una serie di oltre 800 scioperi, nella zona industriale del Delta, che coinvolsero non solo studenti e lavoratori, ma anche dipendenti statali e impiegati governativi. L’ultima serie di scioperi, nell’aprile 2008, fu repressa in modo brutale dalla polizia, ma il popolo egiziano ormai aveva capito quale potesse essere la forza di una rivolta popolare. Un terzo momento di rivolta fu scatenato, nel giugno 2010, dall’uccisione di uno studente da parte della polizia, e portò ad una nuova ondata di proteste e ad un rafforzamento del movimento popolare anti-governativo.
Si comprende così meglio come sia bastata la miccia della rivolta tunisina, improntata a simili tematiche di protesta sociale, per scatenare la massiccia discesa in piazza del popolo egiziano registrata in questi giorni.
Anche i social network hanno giocato un ruolo importante in tutti questi anni, contribuendo alla rapida diffusione delle informazioni che hanno finito per riunire il popolo egiziano sotto un’unica bandiera. Ora naturalmente Mubarak ha fatto chiudere Internet in Egitto, ma è troppo tardi. La gente sa chiaramente quello che vuole, e sa anche molto bene che può ottenerlo.
Resta infine da valutare l’aspetto geopolitico della questione, che è il più importante di tutti. Come sappiamo, l’Egitto è considerato ormai da 30 anni il “cane da guardia” dell’asse USA-UK-Israele in Medio Oriente. Dopo aver rinunciato alle ostilità con Israele, l’Egitto di fatto collaborato spesso con Israele, per mantenere gli equilibri locali favorevoli all’occidente, e ultimamente si è anche prestato alla chiusura – almeno ufficialmente – del confine con Gaza.
Ma è molto probabile che il nuovo assetto che uscirà dal fermento egiziano – qualunque esso sia - sarà molto meno favorevole ad un appoggio aperto ad Israele, e quasi sicuramente la frontiera con Gaza verrà riaperta, permettendo così il transito ufficiale di persone e di aiuti umanitari che finora hanno viaggiato lungo i tunnel sotterranei scavati fra i due territori.
Piacerà tutto questo ad Israele? Probabilmente no, ma la vera domanda a questo punto diventa se Israele possa ancora permettersi di usare gli Stati Uniti – come ha fatto fino ad oggi – per mandare avanti la propria agenda di espansionismo sionista. Quando gli eserciti si rifiutano di sparare sulla popolazione, le opzioni che rimangono a chi vuole controllarla non sono molte.
Forse davvero è finita un’era e ne sta iniziando un’altra, fatta di equilibri internazionali più precari e delicati, ma anche più sani e duraturi, poichè basati sulla consapevolezza che il popolo – inteso in senso lato – comincia finalmente ad avere una voce in capitolo. Di certo possiamo dire che i prossimi anni, per chi si ritroverà a viverli, saranno di tutto meno che noiosi.
Massimo Mazzucco