recensione di Enrico Galoppini La vicenda politica ed umana di Marwan Barghouti, leader politico di al-Fatah assai popolare tra la sua gente detenuto in un carcere israeliano dall’aprile 2002 con accuse che ruotano attorno alla nozione di “terrorismo”, ci impone, una volta di più, d’interrogarci su quello che significa, oggi, questa parola. “Terrorismo” non è più quello che ci racconta un qualsiasi dizionario della lingua italiana, ma viene ormai spacciato per sinonimo di “resistenza”. In poche parole, i detentori del potere ed i loro trombettieri, intendono far passare l’idea che resistere ad un’invasione è sbagliato, che chi resiste ad un’occupazione è un “terrorista” e che c’è la “guerra al terrorismo”: “Il terrorismo è una drammatica realtà del presente, ma la grande menzogna che viene propalata con estrema faciloneria (quando non si tratti di colpevole complicità con il potere politico) dalla maggioranza dei mezzi di informazione occidentali ... ...è che il terrorismo sia una politica, e non un metodo di lotta politica, che per quanto ripugnante può, quindi, essere adottato dai soggetti più diversi, anche nemici in guerra tra loro e ideologicamente diversissimi” (p. 23).


Dunque, in una guerra, ciascuno mette in campo i mezzi che ha. Altrimenti, si diano aerei, elicotteri, carri armati, corvette, satelliti, bulldozer anche ai palestinesi. Il resto sono solo chiacchiere.


Ma una volta imposta la mistificazione mediatica per cui il problema è il “terrorismo” (palestinese), tutto si semplifica. Si spianano delle abitazioni? “Erano di sicuro abitate da terroristi”! Si lanciano razzi su un corteo funebre? “Vi si commemorava un terrorista, e terroristi erano comunque tra i presenti”! Si confiscano patrimoni e conti in banca? “Di certo servivano a finanziare il terrorismo”! Si spara sui contadini che difendono i loro olivi? “Comunque, avrebbero fornito appoggio, rifugio, a dei terroristi”... Addirittura, secondo le autorità israeliane, esisterebbe di fatto un “terrorismo da omissione”, ovvero il non essersi adoperati per impedire il “terrorismo” (di qui la giustificazione della prolungata reclusione forzata del Presidente Arafat)! Il risultato è tuttavia sempre lo stesso: umiliazioni, assedi, distruzioni, uccisioni… nella pressoché totale indifferenza di quella cosca mafiosa che è la “comunità internazionale”.

Non sia mai detto poi che esiste un “terrorismo di Stato”, qual è quello che la base politico territoriale del Sionismo (lo “Stato d’Israele”) pratica da decenni, nell’impunità più assoluta, ai danni dei palestinesi.[1] E persino il “terrore” non è lo stesso a seconda di chi lo vive: “Così quando gli iracheni vivono sotto le bombe per mesi, minacciati da elicotteri, carri armati e checkpoint americani non anno diritto ad essere terrorizzati, ma diventano immediatamente preda del terrore quando ad esplodere sono i kamikaze invece delle cluster bomb, del fosforo o del napalm […]” (p. 23).


Si è capito dunque che i palestinesi, qualunque cosa facciano per combattere l’occupazione (dall’uomo bomba al guerrigliero, senza risparmiare chi s’impegna sul fronte dell’informazione non embedded), sono “terroristi”, quindi sbagliano. Questo snodo fondamentale è colto bene nel libro Barghouti. Il Mandela palestinese,  che Paolo Barbieri e Maurizio Musolino dedicano ad una delle ultime e più limpide figure espresse da una parte di umanità che da quando è nata ha solo visto l’occupazione della propria terra. [2] Il processo a Marwan Barghouti è, essenzialmente, un processo politico, il cui obiettivo è, come sottolineano gli autori, processare l’intero popolo palestinese. “[…] è così difficile disgiungere le accuse a suo carico, le prove che la giustizia israeliana ha considerato sufficienti per condannarlo, dal contesto politico [il fallimento degli “accordi di Oslo”[3] e la nuova intifada, NdR] nel quale il processo si è svolto e dal significato politico che esso ha assunto” (p. 63).


Ma come in tutti i processi di questo tipo (si pensi a quello a Slobodan Milosevic), l’accusatore diventa ben presto l’accusato: il pezzo forte del libro è difatti l’atto di accusa di Barghouti da egli pronunciato nell’udienza del 3 ottobre 2002 [4], il quale è “un documento politico, ma anche un dettagliato elenco di nomi, fatti, circostanze”. In 54 “capi d’imputazione” c’è tutta la storia del terrore (altro termine su cui è volutamente operata una mistificazione)[5] inferto alla popolazione palestinese, “il racconto di una violenza quotidiana e diffusa, che trascende le ragioni della storia e soffia via la cortina fumogena della cosiddetta guerra di religione, infrange il mito della democrazia assediata e getta un’ombra cupa sull’ideale un tempo mitico della nazione israeliana […]” (p. 59)[6].


L’autodifesa di Marwan Barghouti, è l’ennesima dimostrazione che la miglior difesa è sempre l’attacco. Perché mai attestarsi ‘sulla difensiva’ in un processo nel quale su 128 testimoni ben 96 sono israeliani (63 dei quali investigatori o associati all’investigazione su Barghouti) ed i 21 testimoni palestinesi non hanno ripetuto in aula una sola parola delle loro accuse fioccate così generosamente nelle carceri israeliane in cui si trovano?


Ecco perché le parole con cui il j’accuse di Barghouti si apre (“Marwan Hassib Barghouti, in nome del popolo palestinese, accusa – contro – lo Stato d’Israele”) rappresentano la consapevolezza che se la partita in gioco è la criminalizzazione del diritto a resistere (e ad esistere) di un intero popolo, tanto vale giocare sullo stesso piano, quello di un processo politico, incentrato però, si badi bene (ed è questa la capitale differenza tra la Resistenza palestinese ed il Sionismo), non sull’incriminazione dell’intera popolazione di cittadinanza israeliana[7] ma su quella dell’establishment della base politico-territoriale del Sionismo, lo Stato d’Israele.


La differenza – ‘di stile’, o di sensibilità - non è da poco: significa che se un giorno la Resistenza palestinese dovesse spuntarla, patrioti come Marwan Barghouti che hanno sempre sostenuto l’importanza della conduzione, di pari passo, della battaglia e della trattativa (non si può trattare da sconfitti) non procederanno ad espulsioni di massa (com’è invece accaduto ai danni dei palestinesi dal 1948 in poi). Finirebbe  certo l’afflusso di ‘coloni’ (altro termine foriero di equivoci) che “ritornano” (e qui siamo oltre ogni ragionevole equivoco!) e degli altri stranieri che - è poco noto - vengono fatti affluire dal Governo israeliano per svolgere determinate mansioni (ad esempio durante lo shabbat), col risultato che i palestinesi sono diventati ospiti (indesiderati) a casa loro.

Dunque, la questione cruciale per i palestinesi è come riconquistare la sovranità sulla loro terra: politica, sociale, culturale, economica. Ne sarà protagonista – come prefigura (e si augura) il titolo del libro – un “Mandela palestinese”?


In Sud Africa, alla fine, ha prevalso la ragione contro l’ideocrazia, è stato riaffermato il diritto naturale degli autoctoni a potersi autogovernare. Il j’accuse di Barghouti è in pratica lo stesso di Nelson Mandela lanciato, nel 1964, all’indirizzo dei razzisti di Pretoria[8]. Sappiamo poi com’è andata in Sud Africa: uno Stato per tutti i suoi cittadini, e non certo sul 22%... “Resistenza non è terrorismo”: è questo il messaggio testimoniato dalla vita e dall’opera di Marwan Barghouti[9].


Enrico Galoppini

Aljazira.it - venerdì, 22 luglio 2005


Autore: PAOLO BARBIERI / MAURIZIO MUSOLINO
Titolo: BARGHOUTI. IL MANDELA PALESTINESE
Editore: Datanews, 2005
Pagine: 160
Prezzo: 13 euro



[1]“Il terrorismo, in altri termini, può anche essere, anzi il più delle volte è, ‘terrorismo di Stato’, come ci insegna la storia”. Fabio Marcelli, Il processo a Marwan Barghouti e il problema dei prigionieri politici, pp. 97-119 di questo volume (cit. p. 112). Cfr. anche il fondamentale Serge Thion (a cura di), Sul terrorismo israeliano, (trad. it.) Graphos, Genova 2004, di cui ho scritto una recensione su “Eurasia”, 1/2005, pp. 219-228.

[2] Un’avvincente biografia di Barghouti si trova alle pp. 31-52.

[3] “Prima Peres, poi Netanyahu e Barak non dimostrano di voler rispettare gli accordi firmati […]”, p. 44.

[4] Marwan Barghouti accusa lo Stato di Israele, pp. 77-96. L’atto d’accusa si compone di Capi d’accusa contro lo Stato di Israele (Dichiarazione di imputazione; Leggi, trattati e convenzioni violate) e Capi d’accusa specifici contro lo Stato di Israele (I. Crimini di guerra e crimini contro l’umanità; II. Negazione dell’assistenza sanitaria; III. Espulsioni; IV. Demolizioni di case e distruzioni di proprietà; V. Confisca della terra e colonizzazione; VI. Confisca dell’acqua; VII. Violazione del processo dovuto e tortura; VIII. Distruzione dei mezzi di sostentamento; IX. Discriminazione ed apartheid; X. Negazione della libertà di stampa; XI. Negazione dell’istruzione; XII. Negazione della libertà di religione).

[5] Sullo strapazzamento dei concetti di “terrore” e di “terrorismo” ho scritto alcune note, citate in questo stesso volume (pp. 22-23) come “meticolosa ricostruzione”: I palestinesi che si fanno esplodere: ‘martiri’ o ‘terroristi’?, “LiMes”, 2/2003, pp. 227-228.

[6] A dire il vero, anche gli Autori concedono qualcosa a tale “mito”, quando affermano che Israele è “uno Stato che ha solidissime basi legali e giuridiche democratiche, ma che applica regole diverse, e riconosce diversi diritti alle popolazioni arabe ed a quelle di origine europea, a cristiani, islamici ed ebrei a seconda della loro origine etnica o religiosa” (p. 20). L’equivoco - è evidente - sta proprio nella valutazione di una discriminazione pianificata, che non ha le sue radici in “un virus che è, evidentemente, dentro di noi [europei, NdR]”, ma, come acutamente (ed impietosamente) osservato da Israel Shahak, nella visione del mondo talmudica – profondamente razzista - fatta propria dall’élite sionista. Cfr. I. Shahak, Storia ebraica e giudaismo. Il peso di tre millenni, (trad. it.) Centro Librario Sodalitium, Verrua Savoia 1997 (prefaz. di Gore Vidal). Il libro di Shahak – se vogliamo, definibile come “umanista integrale” - è uscito in edizione in lingua inglese per Pluto Press Limited, la casa editrice che ha pubblicato testi di N. Chomsky e E. Said, e solo perché in Italia si ha il “terrore” (!) di compromettersi è stato tradotto per i tipi di un editore “cattolico integrale”.

[7] Non parlo intenzionalmente di “popolo israeliano” per il semplice motivo che non è possibile attribuire la qualifica di popolo ad un’aggregazione di individui che si riconoscono in una idea, politica o religiosa che sia. Altrimenti avremmo, ad esempio, il “popolo buddista”, il “popolo di Scientology” o il “popolo liberale”. L’utilizzo di denominazioni quali “il popolo della sinistra” è comunque rivelatore della misura in cui, anche inconsapevolmente, trova accoglienza il concetto di ‘popolo ideocratico’. Non parliamo infine del “popolo delle partite IVA” o del “popolo delle discoteche”…

[8] Non è un caso che spesso di parli di “bantustan palestinesi” per definire le aree nelle quali la popolazione autoctona è costretta a (soprav)vivere… Per ironia della sorte, fu proprio in Sud Africa, a Durban, dal 31 agosto al 7 settembre del 2000, che nel corso della Conferenza mondiale dell’Onu sul razzismo l’immagine dello Stato d’Israele e del Sionismo (e anche del loro sponsor statunitense) toccò uno dei punti più bassi della storia recente, al punto che, isolate da tutte le altre, le delegazioni israeliana e statunitense dovettero abbandonarla. Ma quattro giorni dopo, sarebbe scoppiato il ‘big bang del XXI secolo’, l’11 settembre…

[9] A tal proposito si legga di Antonio Venier, Considerazioni sulla distinzione tra guerriglia e terrorismo, “ISTRID - Istituto Studi Ricerche Informazioni Difesa”, dicembre 2003, significativo perché pubblicato su una rivista d’ambiente militare.