L’altra sera, verso mezzanotte, mia moglie ed io siamo usciti per portare a passeggio i cani, come d’abitudine.
Viviamo in un quartiere tranquillo di Los Angeles, fatto di casette basse, dove di giorno passa poca gente, e di notte non si vede proprio nessuno.
A un certo punto il silenzio è stato interrotto da un cigolio lontano, mentre di fronte a noi abbiamo visto un’ombra che ci veniva incontro, in mezzo alla strada deserta. Era un classico homeless, un “barbone” che si aggirava spingendo il suo carrello del supermercato, pieno zeppo di tutto: coperte, stivali, secchielli, cianfrusaglie, sacchi e sacchettini di ogni tipo.
Quando ci siamo incrociati, lui ha preso un sacchetto di plastica dal carrello e ha cominciato ad agitarlo verso di noi, urlando a piena gola: “Want some food? I have Korean food, I have Chinese food, I have pizza...” (Volete mangiare qualcosa? Ho cibo coreano, ho cibo cinese, ho della pizza...)
I cani gli hanno ringhiato contro, ma lui continuava imperterrito, urlando nella notte: “Want some food? I have Korean food, I have spaghetti, I have Chinese food...”
Nell’oscurità non riuscivo a vederlo bene in faccia: distinguevo solo un contorno “leonino”, ... ... fatto di capelli lunghi arruffati e di una barba incolta di molti mesi.
Gli ho detto “no grazie”, e siamo passati oltre, tirandoci dietro i cani mugolanti. Ma lui ha proseguito con la sua cantilena a voce alta, ripetendo meccanicamente il suo strano menù: “I have Korean food, I have Chinese food! Want some pizza? I have pizza, and I have spaghetti too”, mentre continuava ad agitare in aria il suo sacchetto di plastica.
Noi eravamo già lontani, quando ho notato un particolare nella sua cantilena: invece di pronunciare “spaghetti” come gli americani, che dicono “spa-ghè-di”, l’ultima volta aveva detto “spaghetti”, con la doppia “t” ben pronunciata, come facciamo noi italiani.
Instintivamente mi sono girato, e gli ho urlato: “Ma sei italiano?”
Lui non ha capito, e mi ha risposto “What?”
“Sei italiano?”, gli ho ripetuto.
Lui lentamente ha abbassato il braccio con il sacchetto, e con voce normalissima, quasi sottovoce, ha detto stupito:
“Io sì, e tu?”
“Noi pure”, gli ho risposto io.
C’è stato un momento surreale: noi fermi da una parte, lui fermo all’altra, con un singolo lampione acceso fra di noi, e il buio tutto intorno. Sembrava un quadro di Hopper.
Siamo tornati verso di lui.
“Come ti chiami?“
“Marco”, ha detto con chiaro accento napoletano.
“Io Massimo”, “Io Anna”.
Ci siamo dati la mano. Lui indossava dei guanti di lana con la punta delle dita tagliate. Ho sentito le dita, dure e callose. Aveva addosso almeno tre giacche, una sopra l’altra. L’ultima, di pelle, gli stava molto stretta, e lo faceva apparire goffo e impacciato.
I cani non ringhiavano più.
Ora che il lampione lo illuminava, potevo vedere meglio il suo volto. Nella cornice di barba rossiccia spuntava un sorriso diagonale, una specie di smorfia amara. La pelle del viso era molto scura, incartapecorita dal sole, con rughe marcate e profonde, in pieno contrasto con gli occhi piccoli e chiari, quasi trasparenti. I capelli erano tutti arruffati, unti e pesanti, lunghi sui lati ma cortissimi sulla fronte.
“Da quant’è che sei in giro così?” gli ho chiesto.
“Tre anni” mi ha risposto.
“Ma dove dormi”?
“Dove capita. In strada, in un portone, sotto un albero...”
“Ma come è successo?”
Marco ci ha raccontato la sua storia. Non sarà stato la persona più equilibrata del mondo, ma non era certamente il pazzo che aveva voluto farci credere poco prima.
Partito dall’Italia un decina di anni fa, era venuto in America per perfezionarsi nell’ambito delle tecnologie navali, che erano la sua passione.
Grazie a una esperienza precedente, fatta in Italia, aveva trovato subito lavoro. Si era sposato, e aveva avuto due figli. Tutto andava bene, quando un giorno successe qualcosa: scoprì che la moglie si era messa con un altro, “un armeno-libanese, amico dei giudei”, e per lui era iniziata la caduta verso il baratro.
Cacciato di casa sotto minaccia, si era rivolto alla polizia locale, ma questi “dovevano essere anche loro intrescati con gli armeni e i giudei”, perchè invece di proteggerlo lo arrestarono e lo tennero rinchiuso per una settimana. Quando usci cercò di tornare a casa, ma gli bruciarono la macchina, lo picchiarono, e gli presero il portafoglio.
Senza più un nome, senza potersi muovere, e senza più un dollaro in tasca, aveva cominciato a vagare per la città, e lentamente era diventato uno dei mille senzatetto che si aggirano senza meta nelle metropoli americane.
“Ma perchè non torni in Italia?” gli abbiamo chiesto mia moglie ed io, praticamente all’unisono.
“Noooo, non posso. Io sono venuto qui per fare carriera, e qui devo riuscire.“
Era stato un lampo di orgoglio, ma era chiaro che nemmeno lui ci credesse.
“Ma scusa, come fai a campare? Come ti procuri da mangiare?”
“Il governo mi passa un sussidio. Ho un piccolo assegno mensile, per i disoccupati.”
Poi ha cambiato tono, come per confidarci un segreto.
“Lo sapete qual’è il vero problema? Sono gli armeni, il problema. Sono loro che comandano, insieme ai giudei. Tutta Korea-Town è in mano loro, e a me non mi vogliono”.
“Capisco. Ma in Italia hai qualcuno, o sei solo?“
“Noooo, chè solo! In Italia ho mio fratello. Lui lavora all’Enel – la conoscete l’Enel, vero?”
“Sì, certo.”
“Ecco, io potrei tornare in qualunque momento. Con l’esperienza che ho potrei tranquillamente rimettermi a lavorare, in Italia. Ma ora sto qui, i miei figli sono qui, e io devo tornare a vederli.”
Mia moglie ed io ci siamo resi conto che oltre quel punto la conversazione non poteva andare.
Avevo in tasca venti dollari. Glieli ho dati, e ci siamo salutati.
Mia moglie ed io abbiamo continuato la passeggiata senza dire una parola.
Quando abbiamo completato il giro dell’isolato, abbiamo rivisto Marco, che stava preparandosi un giaciglio sotto un grande albero.
Anche lui ci ha visto, e da lontano ci ha salutato con il braccio.
Ricordo di aver pensato “per fortuna qui non piove quasi mai”.
Massimo Mazzucco