di Enrico Galoppini
Riflettendo sulla
tragedia che da circa un secolo investe il Vicino Oriente e, nello
specifico, la Palestina, spesso mi sono chiesto se abbia un senso scrivere ancora un articolo in
merito. Lontani del teatro degli avvenimenti, non si è in grado di fornire informazioni di prima mano, ma a questo pensano egregiamente i
palestinesi stessi e gli attivisti che, da ogni parte del mondo, vanno
a testimoniare che quel popolo, sebbene obliato da quell’autentica
cricca che è la «comunità internazionale»,
non è stato abbandonato
dalle persone alle quali la parola «giustizia» dice ancora
qualcosa[1].
Ma se in Palestina si combatte una vera e propria guerra di liberazione
nazionale, chi sente - a migliaia di chilometri di distanza - che
quella lotta è giusta e sacrosanta non può che impegnarsi
nella
cosiddetta «guerra dell’informazione». Una ‘guerra’,
questa, che
necessita innanzitutto di una strategia adeguata ai mezzi di cui
dispone la parte svantaggiata. I filo-palestinesi, dunque, non avendo
accesso a tv e giornali ad ampia diffusione, ...
Intitolare un libro Sul
terrorismo israeliano è, in questa prospettiva, una scelta
vincente. Leggendo il volume curato da Serge Thion e pubblicato da
Graphos[2]
si è posti di fronte ad una scelta: o prendere atto che Israele
è uno
Stato fondato sul terrorismo («di Stato», appunto), oppure
smetterla di
versare lacrime per i «poveri palestinesi» salvo poi
condannarne le
azioni di resistenza come «terrorismo», né
più né meno come impongono
con la loro polizia del pensiero i vari ‘intellettuali’ ed opinionisti
sostenuti dal potere.
Il libro in questione
non si limita comunque ad una mera enunciazione di principio,
bensì apporta solidi argomenti.
Si comincia con il
saggio di Ronald Bleier, In principio era il terrorismo,
che in rapida ma essenziale successione passa in rassegna alcune delle
imprese criminali del sionismo. Il peccato originale, ovvero
l’espulsione di oltre un milione di palestinesi dalle loro terre, la
distruzione di centinaia di villaggi e gli oltre trenta massacri
perpetrati tra il 1947-48 e il ‘67[3];
l’attentato dinamitardo, il 22 luglio 1946, all’Hotel King David di
Gerusalemme, sede degli uffici del governo mandatario e del suo comando
militare (in tutto, 91 morti), e la serie di attacchi antibritannici
condotti nel periodo 1945-1948 dall’Haganah, dalla Lehi (o «Banda
Stern») e dall’Irgun[4];
l’assassinio, il 17 settembre 1948, del negoziatore di pace delle
Nazioni Unite, il conte svedese Folke Bernadotte[5],
il cui piano prevedeva il rimpatrio e il risarcimento dei rifugiati
palestinesi, tema che all’epoca ancora vedeva in disaccordo gli Stati
Uniti e il neonato Stato d’Israele: naturalmente nessuno venne mai
condannato, ma ci sono elementi che provano il diretto coinvolgimento
del governo israeliano e di quello cecoslovacco, lo stesso che
fornì il
ponte aereo per le armi ai sionisti durante l’armistizio del ’48 e che
risultò decisivo per la vittoria della guerra con gli Stati
arabi
limitrofi[6];
l’uso del terrore contro gli stessi ebrei d’Israele, teorizzato e
praticato dai governi (altro che «apparati deviati»!) allo
scopo di
cementare la società israeliana: è il caso delle bombe
sugli autobus
pubblici, spesso provvidenziali per togliere dall’empasse chi,
evidentemente, non ha alcuna intenzione di addivenire ad alcuna
soluzione politica del conflitto; il massacro di 60 persone inermi a
Kibya, un villaggio situato in territorio giordano, condotto il 12
ottobre 1953 come «rappresaglia» dal famigerato
«Reparto 101» di Ariel
Sharon; le incursioni a Gaza - sotto il dominio egiziano fino al ‘67 -
volte ad esasperare già un anno e mezzo prima del 1956, l’anno
della
Crisi di Suez, il presidente ‘Abd el-Nâser[7];
i reiterati tentativi di smembramento del Libano (importante per le
risorse idriche) per crearvi uno Stato-fantoccio[8],
i quali hanno condotto al progressivo spopolamento delle sue regioni
meridionali: la dissoluzione di tutti gli Stati arabi è proprio
uno dei
punti-cardine del sionismo[9],
e l’attuale vicenda irachena sta a dimostrarlo.
E’
senz’altro da sottolineare il fatto che per tutti gli anni 50-60 gli
Stati Uniti - che lungi dall’essere il «pupazzo nelle mani degli
ebrei»
sono i primi responsabili della perenne destabilizzazione della
regione vicino-orientale
– non hanno ancora un rapporto privilegiato ed esclusivo con
«l’Entità
sionista», ed è per questo che al massacro del Libano
Israele potrà
dedicarsi solo una volta archiviato l’asse con Parigi[10].
Un limite del libro è forse l’idea, che aleggia qua e là,
per cui
progressivamente gli Stati Uniti si sono identificati con la
«causa
d’Israele», ma, come John Kleeves ben argomenta, il potere – oggi
gli
Usa – ha sempre usato gli ebrei come schermo e parafulmine: ebrei in
prima linea in politica, nel giornalismo ecc., ebrei additati all’ira
popolare in caso di difficoltà[11].
L’alta percentuale di ebrei (che nel corso degli anni, in vario modo,
sono stati indotti ad identificarsi nelle sorti del progetto sionista)
nelle alte sfere del giornalismo è la causa di un episodio
incredibile
narrato da Bleier: l’occultamento al pubblico americano del
bombardamento da parte dell’aviazione israeliana, nel 1981, di
raffinerie di proprietà americana situate in Libano[12].
E’ la questione della «doppia fedeltà», per cui un
giorno o l’altro
dovranno spiegarci com’è che un cittadino italiano con
passaporto
israeliano può svolgere il servizio militare sotto le insegne di
Tsahal, ammazzare qualche palestinese e rientrare in Italia senza che
un magistrato della Repubblica si ponga alcuno scrupolo sulla
legalità
di tutto ciò.
Fatta questa
precisazione, Sul terrorismo israeliano ha certo
un’infinità di pregi.
Gli autori dei saggi
ivi raccolti sono quasi tutti ebrei, una volta tanto non immigrati in
Israele, ma emigrati da
Israele. Oppure in costante ‘esilio interno’. E questo dopo aver
saggiato la «democrazia» di un paese plasmato dalla
“struttura
esclusivista del sionismo nella quale solo gli ebrei sono trattati come
cittadini di prima classe” (R. Bleier, p. 35).
Per
una volta tanto, sottolineare l’ebraicità di autori che si
pongono
contro il sionismo non è un omaggio al politicamente corretto di
cui
danno prova molti filo-palestinesi troppo sovente ‘stressati’ dalla
causa che hanno abbracciato, ma è il giusto riconoscimento a
uomini e
donne oneste che naturalmente si trovano tra tutti i popoli e le fedi
religiose. Detto questo, se si è giunti al punto che se oggi un
non
ebreo viene a trovarsi in imbarazzo per aver criticato pubblicamente il
sionismo destrutturandone i miti fondatori lo si deve in primo luogo ad
un atteggiamento remissivo imposto ed accettato in virtù di
sensi di
colpa iniettati a dosi da cavallo nei popoli europei giusto a partire
dal momento in cui Israele è diventato il fedele alleato degli
Stati
Uniti.
Un
altro grande merito di questo libro è quello di proporre ampi
stralci
dei diari di Moshe Sharett (già Primo Ministro e Ministro degli
Esteri
dello Stato ebraico negli anni 40 e 50, e considerato un
«moderato»), a
cura di Livia Rokach (figlia di un ex Ministro dell’Interno)[13].
I diari di Sharett (ott. ’53-nov. ’57) sono un’autentica bomba
editoriale poiché smontano alcuni dei miti legati alla storia
del
progetto sionista. Innanzitutto, emerge che non sono gli arabi ad
«assediare» Israele, a voler «buttare a mare gli
ebrei», ma è Israele a
provocare incessantemente i suoi vicini[14].
In pratica, il vessillo della «sicurezza» viene
continuamente agitato
per raccogliere simpatie internazionali e tenere in scacco la regione.
A tal fine, la popolazione israeliana viene allevata nella paura e
nell’angoscia, e proprio per questo i governi israeliani si sono
macchiati di crimini anche ai danni dei cittadini che avrebbero dovuto
difendere. Di qui le ben note e sanguinose «rappresaglie» e
le
sistematiche violazioni del diritto internazionale dell’esercito
israeliano[15],
espressione di una società militarizzata in cui i militari che
fanno
carriera politica sono la regola. La lettura dei diari di Sharett
evidenzia anche che Israele non ha (e non può avere, imbeccato
com’è
dal suo sponsor statunitense!) alcuna intenzione di vivere in pace coi
suoi vicini, spingendoli, al contrario, in conflitti che è certo
di
vincere. La guerra con l’Egitto del ’56 era difatti meditata sin dal
‘53, l’occupazione della Striscia di Gaza e della Cisgiordania dagli
anni Cinquanta (ma l’ostacolo principale era la residua presenza
britannica in Giordania)[16]
e già Ben Gurion desiderava un Libano balcanizzato[17].
Un caso lampante di provocazione è l’atteggiamento seguito nei
confronti dell’Egitto nasseriano: L’affare Lavon: il terrorismo per
forzare l’Occidente
(pp. 163-168) racconta della rete spionistica impiantata da Israele in
Egitto al fine di svolgere attentati contro obiettivi britannici e
statunitensi per poi farne ricadere la responsabilità sui
Fratelli
Musulmani. Si chiarisce dunque che il terrorismo di Stato israeliano
agisce soprattutto in un quadro di destabilizzazione dell’area
mediterranea che può far comodo solo a chi ha interesse a
mantenere un
continuo divide et impera tra realtà che invece
avrebbero
interesse ad integrarsi e a vivere in comune prosperità. Ma la
rete del
Mossad viene scoperta, allora il tutto viene presentato come una
macchinazione egiziana contro gli ebrei entrando in scena un classico
sull’argomento, il «pregiudizio antiebraico», mentre
Sharett, che è
aggiornato su tutti i retroscena, si unisce al coro di hitlerizzazione
del ra’îs egiziano, il quale, inizialmente, si era illuso
di poter convivere con Israele[18].
Come, non è chiaro, stando a quel che annotava Sharett in data
26
maggio 1955: “Le azioni di rappresaglia, che non potremmo eseguire se
fossimo legati da un patto di sicurezza, sono la nostra linfa vitale
[…]. Con esse possiamo mantenere un alto livello di tensione fra la
nostra popolazione e nell’esercito. [Israele] si deve inventare
pericoli e, per farlo, deve adottare il metodo della provocazione e
ritorsione […]”. Se si aggiunge che gli Stati Uniti, mentre procedevano
ad eliminare Mossadeq in Iran e Arbenz in Guatemala, pensavano di usare
Israele per rovesciare l’uomo forte del Cairo, e che nel frattempo
agenti israeliani trescavano con elementi sudanesi, si capisce
perché
l’Egitto si sarebbe rivolto di lì a poco all’Unione Sovietica[19].
La
pressione sugli Stati arabi circostanti è anche da sempre volta
ad
allontanare i profughi palestinesi – vera pietra vivente dello scandalo
- dalle linee armistiziali del 1949, prima, del 1967, poi. Israele non
ha mai accettato dei confini stabili preferendo la politica dei
«fatti
compiuti», ma anche per tenere sempre aperta la
possibilità di
espandersi, tanto più se si pensa che è diffusa l’idea
secondo cui «i
palestinesi una patria ce l’hanno già, ed è la
Giordania»[20].
Lo
studio della Rokach ripone inoltre definitivamente in soffitta la
consumata «contrapposizione» tra «falchi» e
«colombe» (che tuttavia
trova sempre qualche rampante politico occidentale disposto a
credervi), “la tesi comunemente accettata secondo cui una divisone
distinta, contrassegnata da antagonismi ideologici, politici e
pragmatici esisteva, almeno fino al 1965, fra il sionismo laburista e
il sionismo cosiddetto «irrazionale» di origine
revisionista” (p. 155).
I diari di Sharett –
conclude la Rokach - provano come “non sia possibile una proposta
sionista per così
dire
moderata” (p. 127), ed il loro senso è ben sintetizzato da
Nasser H.
Aruri nella sua prefazione al saggio della Rokach: “Si tratta di una
denuncia del sionismo da parte del primo ministro di Israele”.
Una denuncia certo
involontaria, al contrario di quella di Israel Shahak[21],
curatore della ripubblicazione del saggio Una strategia per Israele
negli anni Ottanta del Novecento,
pubblicato nel febbraio 1982 da Oded Yinon (giornalista vicino al
ministero degli Esteri israeliano) su «Kivunim», periodico
del
Dipartimento dell’informazione dell’Organizzazione sionista mondiale.
Un saggio dal tono profetico, poiché se da una parte esso verte
sulla
dissoluzione di tutti gli Stati arabi esistenti e la creazione di
innocui micro-Stati in base alla distribuzione del mosaico
etnico-religioso vicino-orientale (a che servono, sennò, gli
esperti di
minoranze?), dall’altra evidenzia (nel 1982!) la forte relazione tra il
sionismo e il pensiero neoconservatore negli Stati Uniti. Per quanto
attiene il primo punto, non si può certo dare torto a Yinon: “Il
mondo
arabo è costruito come un provvisorio castello di carte, messo
insieme
dagli stranieri (Francia e Gran Bretagna negli anni Venti del
Novecento), senza tener conto dei desideri degli abitanti” (p. 71). Un
castello di carte avente un “unico comune denominatore:
l’ostilità per
Israele; ma perfino questa ostilità non è già
più sufficiente” (p. 73).
“In questo mondo vasto e frammentato vi sono alcuni gruppi opulenti e
una massa enorme di poveri […] tranne che in Libia e in Iraq” (ibidem).
Aggiungiamo volentieri che la situazione orwelliana creatasi nel mondo
arabo, dove in ciascuno Stato operano legioni di «servizi di
sicurezza»
volti alla repressione del dissenso interno, deve molto all’esistenza
d’Israele; per di più, la presenza dell’«Entità
sionista» ha fornito a
tutti gli attori dell’area un motivo propagandistico per stornare
l’attenzione dai problemi reali. Gli Stati arabi, con poche eccezioni
(tra cui il vituperato Saddam Hussein, l’ultimo campione del
panarabismo), hanno sempre avversato l’autodeterminazione dei
palestinesi, consci che essa li avrebbe posti di fronte alle loro
responsabilità[22].
Meno
credibile, invece, l’ipotesi che Israele intenda ergersi a
«potenza
mondiale» mettendosi, si potrebbe dire, in proprio. A destare
preoccupazione già basta e avanza un Israele potenza regionale
per la
quale ogni «politica di pace» è quanto meno
indesiderabile poiché una
pace va pur sempre rispettata. L’ipotesi finale, posta nei termini d’un
ineluttabile destino, sa dunque un po’ di fantapolitica. Eppure
è
interessante seguire il ragionamento di Yinon: “I rapidi cambiamenti
nel mondo [si prefigura un declino degli Usa] causeranno anche un
cambiamento della condizione complessiva degli ebrei, per i quali
Israele diventerà non solo l’ultima risorsa, ma l’unica opzione
esistenziale. Non possiamo considerare che la comunità degli
ebrei
statunitensi e quelle dell’Europa e dell’America Latina continueranno a
esistere in futuro nella forma attuale” (pp. 81-82). A questo punto
l’autore ricorre ad uno dei temi più cari alla propaganda
sionista: il
«crescente antisemitismo». Ma - va notato - non cita gli
ebrei del
mondo arabo. Lì, difatti, essi vi avevano sempre vissuto senza
grandi
problemi, fin quando sono stati forzati a lasciare i loro paesi
d’origine in un modo che ha tutte le caratteristiche del terrorismo di
Stato.
E il criminale è
ancora lo Stato d’Israele, come documenta Naeim Giladi, ebreo iracheno,
in Lo scandalo Ben Gurion. Come l’Haganah e il Mossad hanno
eliminato degli ebrei[23].
Il saggio di Giladi è la storia di come gli ebrei, che
costituivano un
quarto della popolazione di Baghdad, siano stati indotti ad abbandonare
il loro paese tramite attentati e attacchi d’intensità
crescente
operati da cellule sioniste negli anni 1950-51. Gli agenti provocatori
sionisti – che elargirono bustarelle a membri del governo
filo-britannico di Nûrî al-Sa‘îd per facilitare
l’emigrazione degli
ebrei iracheni e pagarono una «stampa gialla» locale per
esasperare il
clima con «articoli antisemiti» – utilizzarono alcune
sinagoghe per
nascondere gli esplosivi, provocando una comprensibile ondata
d’indignazione popolare. Altro che «antisemitismo arabo»!
A
questo punto, è facile intuire l’interrelazione tra gli allarmi
sul
«crescente antisemitismo» e l’esigenza del sionismo di
rimpolpare i
ranghi della popolazione ebraica d’Israele per sostenere una
«guerra
demografica» che prima o poi (si pensa, entro il 2020)
vedrà imporsi i
palestinesi. E dopo il 1948 sono stati proprio gli ebrei dei vari paesi
arabo-musulmani ad infoltire i ranghi dell’immigrazione ebraica in
Israele, mentre gli ebrei europei, dai quali ci si sarebbe attesi un
massiccio afflusso, o sono restati in Europa anche dopo le tribolazioni
della Seconda guerra mondiale o hanno scelto di stabilirsi negli Stati
Uniti. Anche altre comunità ebraiche sono state attirate, in un
modo o
nell’altro: si pensi al caso degli yemeniti o dei falascià
d’Etiopia,
entrambi discriminati in una società israeliana che vuole
sì i muri tra
gli ebrei e i non ebrei, ma che costruisce tutta una serie di barriere
al proprio interno[24].
Il
problema capitale del progetto sionista è appunto che mentre da
una
parte esiste un popolo, il popolo palestinese, composto da musulmani,
cristiani, baha’i, atei e, tra gli altri, anche da ebrei autoctoni e
dai loro discendenti, dall’altra si agita un’impresa
utopica sorretta in armi, soldi e sostegno propagandistico
dagli
anglo-americani e dalla parte più influente delle
comunità ebraiche
sparse nel mondo, un’impresa che per dare l’esito auspicato
dai suoi
sostenitori deve cooptare in vario modo individui provenienti da ogni
parte del pianeta; individui che, a parte un afflato di carattere
religioso, non sentono di condividere, l’uno con l’altro, assolutamente
niente: a partire dalla lingua, che è quella dei vari paesi di
provenienza. In breve, un popolo vero opposto a quello che lo scrittore
Israel Shamir ha felicemente definito Un popolo di filatelici[25].
Cioè un insieme di persone unite da un’ipnotica passione (quella
per Sion), ma che «popolo» non è.
I
«popoli» sono invece una cosa più seria e complessa
delle forzature
incoraggiate dai vari fautori dello «scontro di
civiltà». In un certo
senso, in Palestina avviene in scala ridotta, ma certamente più
devastante, lo scontro esiziale tra i veri
«popoli», che a garanzia
della varietà nel mondo sono radicati innanzitutto in un
territorio e
in una lingua (ma anche in usi e costumi), e la violenza prevaricatrice
della cosiddetta società «multietnica» o
«multirazziale», cosmopolita
per definizione, rappresentata nel caso specifico dalle decine e decine
di aggregati umani calamitatisi in Palestina per scoprire di non
condividere alcun valore reale e che per questo si mettono a
discriminarsi l’un l’altro rinserrandosi in tanti piccoli ghetti[26];
ma per non innescare una guerra civile permanente che è sempre
dietro
l’angolo, costoro hanno la tragica necessità di individuare un
(illusorio) collante che manca loro nella cieca volontà di
cancellare
ogni traccia della presenza autoctona. Che li tormenta come
una cattiva
coscienza.
Detto
questo, ciascuno può cogliere nello sradicamento delle piante
d'olivo
per far posto alle villette a schiera dei coloni un valore
profondamente simbolico. Il senso profondo del conflitto in Palestina
è
dunque quello che oppone il radicamento allo sradicamento,
l’omogeneizzazione del mondo alla varietà delle comunità
umane.
Ecco
perché, per ricollegarmi al discorso iniziale sulla
necessità di
«cambiare le regole del gioco», la «guerra
dell’informazione» a favore
del ristabilimento di una giustizia per il popolo palestinese
dev’essere condotta fuori dall’obsoleta dicotomia destra-sinistra, la
quale non fornisce più alcuno strumento culturale utile. Il
curatore
del volume, Serge Thion, è uomo «di sinistra», ma
soprattutto è un uomo
che ha speso gli ultimi venticinque anni, pagando di persona, nel
ristabilimento di una verità storica sulle sorti degli ebrei
europei
durante la Seconda guerra mondiale[27].
Scrive Thion a conclusione della magistrale introduzione al libro: “E’
necessario richiamare un'altra forma di terrorismo, più dolce,
quella
che si può definire con precisione terrorismo intellettuale. Per
poter
commettere il loro crimine di furto delle terre e di genocidio, i
sionisti hanno bisogno di neutralizzare l'opinione pubblica
internazionale, di paralizzarla, con iniezioni regolari di
«memoria
olocaustica» e di racconti mitologici sulla
«sofferenza» supposta degli
ebrei nella storia dell'Europa e del mondo musulmano[28].
[…] Si tratta di creare un sentimento di colpevolezza che i sionisti
utilizzano come leva per ottenere i vantaggi e le complicità di
cui
hanno bisogno per conservare le loro posizioni. […] Da un punto di
vista più generale, sono i ceti intellettuali a essere oggetto
di
campagne regolari di intimidazione. Da cinquant'anni, tutti gli anni o
quasi si diffonde la notizia che l'antisemitismo sta crescendo. Nessuno
l'ha mai visto diminuire... Ovunque, istituti finanziati da ricchi
filantropi americani sorvegliano la stampa e l'opinione pubblica. Se un
giornale che esce a Worcester (Regno Unito), o a Mazamet (Francia), o a
Novosibirsk (Russia), o non importa dove, pubblica uno scritto che
indica uno o due ebrei come corresponsabili di ciò che accade in
Palestina, mentre le comunità ebraiche ufficialmente si vantano
della
loro solidarietà senza incrinature nei confronti di Israele,
viene
lanciata una campagna. Si denunciano le intenzioni, si denunciano le
persone che hanno dichiarato tali intenzioni o permesso di dichiararle,
le si denuncia ai loro superiori per fargli perdere il lavoro, chiuder
loro le porte dei mezzi di comunicazione, isolarle e ridurle al
silenzio. Orde di funzionari sionisti sono pagate per fare quest'opera
di bassa polizia e di ricatto. Conosciamo queste agenzie, disponiamo
dei loro recapiti, sappiamo che hanno buoni rapporti con i poteri in
carica. Nessuno osa attaccarle.
Fa parte del bon ton criticare i fascismi[29].
È anche alla moda denigrare lo stalinismo e le sue derive. Si ha
(ancora per un po') il diritto di criticare l'America e il suo
imperialismo in piena espansione. Ma non si avrebbe il diritto di
criticare il sionismo perché ciò equivarrebbe a dar prova
di
antisemitismo. Questo metodo ricattatorio, divenuto sistematico,
lancinante, produce un effetto prevedibile: sempre più gente si
rende
conto che l'antisemitismo tradizionale non esiste più, che si
deve
combattere l'influenza degli ebrei alleati alla politica di genocidio
che si pratica in Palestina e che bisogna far cessare questo enorme
scandalo: il massacro di un popolo per rubargli la sua terra. La
solidarietà interebraica, intersionista, apre la strada a una
nuova
risposta politica, che si opponga con molta fermezza alla
volontà di
egemonia mondiale del sionismo e che rifiuti di fare del pianeta
l'ostaggio di qualche pugno di fanatici razzisti e sanguinari che
regnano, speriamo per poco tempo ancora, sulla terra di Palestina” [30].
Autore:
SERGE THION (a cura di)
Titolo: SUL TERRORISMO
ISRAELIANO
Editore: Graphos, 2004
Pagine: 252
Prezzo: 22 euri
Fonte: Al Jazira.it
Su gentile concessione
del trimestrale “Eurasia”, Rivista di Studi geopolitici, 1/2005,
pp. 219-228 ( www.eurasia-rivista.org
).
[1] Segnalo il sito del
Palestinian Information Center ( http://www.palestine-info.info/index.htm
), quello dell’International Solidarity Movement ( http://www.palsolidarity.org )
e quello della campagna contro il Muro israeliano ( http://www.stopthewall.org ). Un
altro ottimo sito sulla Palestina è http://www.arabcomint.com .
[2] Campetto, 4 – 16123
Genova ( http://www.graphosedizioni.it
). Alcuni dei materiali raccolti in questo volume sono disponibili, in
inglese, alla seg. url: http://www.vho.org/aaargh/fran/livres3/terris.pdf
.
[3] A titolo d’esempio, si
legga, sulla tragica sorte del villaggio di Emmaus, l’articolo di Marco
Hamam, L’anno prossimo a Emmaus, Aljazira.it, 7 luglio 2004 ( http://www.aljazira.it/index.php?option=content&task=view&id=191
).
[4]
Un terrorismo sionista anti-britannico può sorprendere solo chi
postula
un’identità completa, storica e dottrinale, tra ebraismo e
sionismo.
Per comprendere meglio, v. ad es. Bryan Mark Rigg, I soldati ebrei
di Hitler, Newton Compton, Roma 2003, oppure il sito dei Jews
United Against Zionism (Neturei Karta): http://www.nkusa.org
. Le origini dei gruppi paramilitari sionisti sono indagate da Emmanuel
Ratier, I guerrieri d’Israele. Inchiesta sulle milizie sioniste,
(trad. it.) Centro Librario Sodalitium, Verrua Savoia 1998.
[5] Sull’assassinio di
Bernadotte, v. il saggio di Arno Weinstein (direttore dello Zionist
Leadership Policy Institute), All’ombra di Stern: la storia segreta
di un agente della LEHI
(pubblicato su “B’tzedek”, n. 2, estate-autunno 1997 e ripubblicato
nella raccolta oggetto della presente recensione alle pp. 87-100). Il
saggio è interessante anche perché aiuta a capire la
reale attività di
certi ‘giornalisti’.
[6] Cfr. Piero Sella, Prima
di Israele. Palestina, nazione araba, questione ebraica, Edizioni
dell’Uomo Libero, Milano 1996, pp. 240-244 (una mia recensione di
questo libro è stata pubblicata su “La Gazzetta di
Sondrio”, 8/11/2002: http://www.gazzettadisondrio.it/commenti/e-74.html
).
[7] … e a massacrare i
palestinesi della Striscia di Gaza, come ampiamente documentato da Ugo
Dadone, Fiamme a Oriente,
CEN, Roma 1958 (Dadone aveva fondato nel 1935 al Cairo, per conto del
governo di Roma, l’Agenzia d’Egitto e d’Oriente, allo scopo di
guadagnare simpatie verso l’azione dell’Italia fascista nel mondo
arabo).
[8] Cfr. anche Creiamo
uno stato maronita in Libano!, pp. 146-153 (ben prima che il Libano
diventasse una base per guerriglieri
palestinesi…).
[9] Cfr. Un’opportunità
storica per occupare la
Siria meridionale, pp. 140-145, con riferimento al
colpo di stato del 25 febbraio 1954 che depose Adîb
ash-Shîshaklî.
[10] Dopo la rottura con la
Gran Bretagna,
fu la Francia ad essere il primo protettore d’Israele, fornendogli armi
(gli aerei
Mirage, ad es.), in specie dal 1956, ma anche impedendogli, nella
persona di De Gaulle (dal 1958), di procedere alla dissoluzione del
Libano. L’idillio con la
Francia
terminò con l’epilogo della guerra d’indipendenza algerina,
quando lo
stesso De Gaulle divenne sempre più insofferente verso
l’atteggiamento
israeliano. Il 1967, con la «Guerra dei Sei giorni»,
rappresenta la
svolta per gli Stati Uniti, i quali impostano tutta la politica
mediorientale sull’appoggio alla testa di ponte israeliana, vera diga
contro le unioni interarabe: è da quel momento che si mette in
moto
«l’industria dell’Olocausto» denunciata da Norman
Finkelstein nel suo
studio omonimo (trad. it. Rizzoli, Milano
[11] John Kleeves, Dietro
la «potente lobby ebraica» degli Usa c’è qualcun
altro, “Italicum”, mar.-apr. 2004 pp. 8-9 e mag.-giu. 2004, pp.
8-10. Di Kleeves si legga anche Balfour non era scemo, purtroppo,
pubblicato dal quotidiano “Rinascita” e ripubblicato all’indirizzo http://www.aljazira.it/index.php?option=content&task=view&id=351&Itemid=
[12]
Ma in fondo è quel che accade anche in Italia, dove
«autorevoli
opinionisti» filo-sionisti (ebrei e non ebrei) sciorinano elenchi
di
«Paesi arabi moderati» dai quali manca sempre la Siria: un
fatto ben
strano se si pensa che il primo partner commerciale della Siria
è proprio l’Italia.
[13]
[14]
Attacchi a cittadini israeliani indubitabilmente attribuiti agli Stati
vicini, dirottamenti di aerei, attentati contro «interessi
occidentali»
nei paesi arabi ecc.
[15] Cfr. Paola De Giorgis, L’intifâdah
palestinese. I diritti violati in Israele, Arte Tipografica
Editrice, Napoli 2002.
[16]
A ‘pensionare’ Sir John Bagot Glubb (Glubb Pascià), il
comandante della
celebre Legione Araba, ci avrebbe pensato il giovane Re Hussein, appena
salito al trono di Giordania (1953) dopo la deposizione del
«folle»
Talal.
[17] Cfr. Ben Gurion va
a Sdeh Boker: il ritiro spirituale come tattica, pp. 131-132.
[18] Cfr. Nasser: la
coesistenza con Israele è possibile. Replica di Ben Gurion:
Operazione Gaza, pp. 169-173.
[19] E’ ancora da valutare
appieno il danno causato dall’infiltrazione sovietica in un mondo arabo
alla ricerca di un partner
di peso che però al momento della verità ha sempre
inclinato verso
Israele. In realtà, il naturale interlocutore del mondo arabo
è
un’Europa allargata alla Russia e fuori dall’influenza atlantica.
[20] Cfr. Luciano Tas, Israele:
21 domande, 21 risposte,
da anni in distribuzione presso vari centri ebraici italiani
nonché
allo stand «Israele» dell’ultimo Salone del libro di
Torino, e perciò
da considerare come letteratura dotata dell’imprimatur
ufficiale: http://www.informazionecorretta.com/showPage.php?
template=storia&id=6. E’ degno di nota segnalare che lo stesso
Sharett considerava «infiltrati» i palestinesi che
riuscivano a
reintrodursi nelle loro terre (p. 178).
[21] Di Israel Shahak
è stato tradotto in italiano il fondamentale Storia ebraica
e giudaismo. Il peso di tre millenni, Centro Librario Sodalitium,
Verrua Savoia 1997 (con prefazione di Gore Vidal).
[22] Il comportamento
scandaloso di alcuni «fratelli arabi» emerge dalla lettura
di Stefano Fabei, Una vita per la Palestina Storia
di Hâjj Amîn al-Husaynî, Gran Mufti di Gerusalemme,
Mursia, Milano 2003. V. anche Mokhtar Sakhri, Gli arabi hanno
tradito la Palestina?,
(trad. it.) Florilène Int., Palermo 1982.
[23] Estratto di Naeim
Giladi, Ben-Gurion’s Scandals. How the Haganah and
Mossad Eliminated Jews, 1ª ed. Gilit, Flushing (NY)
1992; 2ª ed. Dandelion Books,
[24] Cfr. Hadi Yahmed, «Il
Muro di Sharon»… svela le radici del «ghetto» sionista,
Islamonline.net, 22/10/2004 (trad. it. Aljazira.it, 25/10/2004: http://www.aljazira.it/index.php?option=content&task=view&id=329&Itemid=).
Sulla cosiddetta «barriera di separazione» v. anche il mio Road
Map o Wall Map?, “LiMes”, 5/2003, pp. 191-201.
[25] Israel Shamir, Carri
armati… cit., p. 156. V. anche il sito http://www.israelshamir.net .
[26] Cfr. Nizar Ramadan, I
conflitti etnici tra israeliani. Un fenomeno in crescita,
Aljazeera.net, 7/6/2004, (trad. it. Aljazira.it, 9/6/2004: http://www.aljazira.it/index.php?option=content&task=view&id=160
).
[27] L’archivio telematico
dell’AAARGH ( http://www.vho.org/aaargh
) è fondamentale per chiunque intenda contestualizzare e
ricondurre a verità storica ciò che nessun ricercatore
serio è intenzionato a ridurre ad una barzelletta, né
in un senso né nell’altro.
[28] V. anche Ibrahim ‘Allush,
E’ saggio paragonare le sofferenze dei palestinesi con
«l’Olocausto» ebraico?, “As-Sabîl” (Giordania),
27/4/2004 (trad. it. http://www.aljazira.it/index.php?option=content&task=view&id=95
).
[29]
E’ forse il caso di ricordare che proprio l’Italia fascista, nel quadro
di una politica mediterranea (cautamente) antibritannica
finanziò la
prima grande insurrezione palestinese. V. Stefano Fabei, Il
sostegno dell’Italia alla prima intifâda. I rapporti tra fascismo
e nazionalismo palestinese negli anni Trenta, “Studi Piacentini”,
35, 2004, pp. 145-175.
[30] Il terrorismo sionista, nato dal ventre già fecondo…, pp. 11-31 (il testo è anche qui: http://www.vho.org/aaargh/ital/STsulter1.html ). Sul terrorismo intellettuale si legga anche John Kleeves, Il mandato di cattura europea ci sarà: ma forse è meglio così, “Italicum”, gennaio-febbraio 2004, pp. 6-7 ( http://utenti.lycos.it/progettoeurasia/mandato.htm ).