di Andrea Eremita
Tra le tante guerre dimenticate ce n’è una più dimenticata delle altre. Questa guerra non si combatte a migliaia di chilometri di distanza, non ci sono reportage che ne parlano in TV, e nemmeno se ne occupano i giornali. Ciononostante questa guerra si combatte in casa nostra, nel campo appena fuori città, e anche nell’orto sotto casa.
È la guerra che l’uomo moderno ha intrapreso con la natura per trarre sostentamento, per averne cibo.
Nel corso della storia l’agricoltura è mutata radicalmente, ma tale mutamento è stato lento, ed è avvenuto in stretta comunione con la natura, che ha sempre dettato la misura di ogni cambiamento.
In questo modo, conformandosi ai ritmi della natura, l’uomo non ha mai provocato dissesti tali da comprometterne l’equilibrio. La stessa rivoluzione industriale ha fornito i mezzi per ottimizzare il ciclo produttivo, ma si è trattato di un mutamento limitato all’ambito organizzativo e pratico, che non ha interessato la biochimica della terra.
Invece, a partire dagli anni cinquanta del secolo scorso, l’agricoltura ha subito un cambiamento radicale dovuto al progressivo utilizzo dei prodotti chimici di sintesi, deputati alla fertilizzazione dei terreni, alla disinfestazione da parassiti, alla protezione e al rafforzamento delle culture stesse. Tali prodotti sono definiti fitofarmaci o agrofarmaci.
Nello spazio di circa cinquant’anni, la figura del contadino è cambiata radicalmente. Da uomo intimamente legato alla propria terra, capace di integrare alla perfezione i cicli di produzione ... ... senza incorrere in sprechi ed eccessi, siamo passati ad una figura di contadino di cui il riquadro sottostante offre un’immagine del tutto in linea con lo spirito del tempo.
Questo quadretto, distribuito da una nota azienda del settore, illustra dove e come si debbano conservare gli agrofarmaci.
“Locale lontano dalle abitazioni”, “Prodotti a categoria di rischio”, “Numeri di emergenza”, “Indumenti di protezione”, “Chiuso a chiave e riservato”...
Sono passati solo 150 anni da quando Thoreau, in
Vita nei Boschi, descriveva romanticamente la sua attività di contadino come “far dire alla terra fagioli”.
Il contadino di oggi assomiglia più ad un guerriero. Se la terra non produce quello che le si chiede, o lo fa in modo diverso dalla aspettative, egli può ricorrere ad ogni sorta di rimedio, perchè la produzione ed il profitto, anche in questo contesto, giustificherebbero ogni mezzo.
Il bugigattolo dove una volta teneva i suoi ruvidi attrezzi, e dove gatti e topi giocavano la loro guerra infinita, si è trasformato in un arsenale chimico di cui può disporre liberamente.
Tutto ciò può apparire come un modello di efficienza, ma se è per questo lo era anche l’organizzazione ideata dai nazisti per sterminare ebrei e diversi in genere.
La realtà è un’altra.
Cinquant’anni di chimica industriale applicata all’agricoltura hanno segnato profondamente il territorio. Questo lo si evince da numerosi segnali, come per la scomparsa dalle risaie delle rane, il generale impoverimento dell’humus, la proliferazione di alghe in mare, e lo si evince soprattutto dalla progressiva e costante diminuzione di api, che delle avversità e degli squilibri ambientali sono finissime recettrici.
Nell’ambito dell’economia della natura l’ape ha un ruolo insostituibile, poichè è responsabile dell’ 85% delle impollinazioni (entomofile). Nel 2006 in Francia il loro numero s’è dimezzato, e di certo non è un caso che Sarcozy, appena salito all’Eliseo, abbia messo fuori legge una decina di diserbanti ed insetticidi contestati.
Quest’anno, in Italia e a livello mondiale, la situazione non va per il meglio, perchè anche qui il numero di api da allevamento risulta ancora dimezzato.
C’è un altro aspetto da considerare. L’economia globalizzata, priva di coscienza e di controllo, ha portato a soffocare un grande numero di microcolture che hanno retto per secoli le economie di ogni angolo del pianeta, integrando a perfezione le risorse idriche, la terra, il clima e le genti.
Oggi l’80% delle mele che si consumano provengono da un numero di varietà che si contano sulle dita. Lo stesso può dirsi per il grano e per moltissimi altri prodotti agricoli.
È vero che oggi, nei nostri piatti, circola molto più cibo di prima, ma nel frattempo sono scomparsi del tutto i sapori.
Non è soltanto una questione di nostalgia per i minestroni, le torte di zucca o di verdure che la nonna cucinava attingendo direttamente al proprio orticello: oggi gli ingredienti non mancano, ma provengono da sementi selezionate e prodotte secondo criteri strettamente industriali, che compromettono la naturale freschezza che sta all’origine del sapore.
Per superare questo palese inconveniente, è venuta in soccorso sempre la chimica di sintesi, che grazie all’ingegneria alimentare è in grado oggi di simulare qualsiasi sapore, come se fosse genuino.
In questo modo, un nuovo strato di illusione è venuto ad aggiungersi a quelli già esistenti: all’illusione di essere informati, di essere liberi nelle scelte e nel modo di pensare, si aggiunge l’illusione del sapore di fragola del milkshake, quello della menta del dentifricio, o quello dei ravioli agli spinaci e ricotta, “proprio come li faceva la nostra nonna”.
Il quadro generale non è confortante, ma c’è soprattutto un motivo che desta preoccupazione: dopo aver sacrificato la biodiversità della natura sull’altare della produttività, e dopo aver sottomesso le politiche ambientali agli interessi economici delle corporations, è subentrata una sorta di rassegnazione rispetto al danno devastante che stiamo portando alla natura.
È come se ormai fosse stabilito che questo è un prezzo necessario da pagare per continuare a vivere su questo pianeta.
Certamente la cultura biologica, biodinamica e la permacultura sono realtà ben radicate ed in espansione, ma al di là di questo la più precisa e coinvolgente iniziativa di salvaguardia della biodiversità non arriva dal campo sottocasa, ma dalle isole Swalbard, le quali non sono fertili campi assolati, ma una gelida landa nel Circolo Polare Artico, dove crescono bene solo i licheni.
Qui il 25 di febbraio il governo norvegese ha inaugurato lo Svalbard Global Seed Vault. Si tratta di un tunnel di 150 metri ricavato nel ventre di una montagna, dove verranno custoditi i semi alimentari di tutte le varietà tra quelle che costituiscono la base dell’alimentazione umana.
Lo scopo è quello di proteggerle da eventuali disastri, quali guerre nucleari, asteroidi o stravolgimenti climatici. Le volte del tunnel potranno ospitare fino a 4,5 milioni di campioni di semi. Il
Global Crop Diversity Trust, che ha coordinato la collezione dei semi e che si sta occupando del loro mantenimento “perpetuo”, ha assicurato che i piccoli e preziosi campioni potranno conservarsi per più di 1.000 anni. Questo assicurerà la possibilità di produrre cibo, soprattutto grano, orzo e piselli, in ogni circostanza, in ogni luogo del globo e in seguito a qualsiasi evento imprevedibile, per il prossimo millennio.
In passato, a nessuno era mai venuto in mente di raccogliere e mettere al sicuro tutti i semi del pianeta in un tunnel su un isola sperduta. Era più facile chiamare un contadino, piantarli e farli fruttare. Evidentemente oggi la natura non offre più le stesse garanzie.
Andrea Eremita