Molti si domandano, in questi giorni, “che cosa stia succedendo” sui media mainstream riguardo all’11 settembre. Aveva creato un certo stupore la recente puntata di Minoli sull’11 settembre, nella quale il conduttore di “La storia siamo noi” aveva implicitamente validato le posizioni del Movimento per la verità sull’11 settembre (che richiede una nuova indagine sui fatti di quel giorno). Ma quello che era sembrato un caso isolato si sta ripetendo negli ultimi giorni con tale frequenza da suggerire che ormai si tratti di un tend consolidato: oggi parlare di verità alternative sull’11 settembre “si può”.
Ne ha dato prova La Repubblica, che “impavidamente” offre ai suoi lettori la
trilogia di Giulietto Chiesa sull’11 settembre. Ne ha dato prova “Il manifesto”, che in un
articolo di Manlio Dinucci si è spinto a dire “Ma la versione ufficiale sta crollando nel modo in cui sono crollate le torri: come un castello di carte.” E persino il buon Corriere della Sera, che ormai del glorioso quotidiano mantiene soltanto il nome,
riconosce l’esistenza di un serio dibattito sull’11 settembre attualmente in corso.
Ma allora, dicono i più sospettosi, che cosa c’è sotto? Perchè da un giorno all’altro parlare di 9/11 non è più un tabù come prima?
La risposta, a mio parere, è molto semplice: perchè nel frattempo noi … … abbiamo fatto abbastanza rumore da rendere legittimo parlarne sui media mainstream, senza venire necessariamente fustigati dagli editori. (Dicendo “noi” mi riferisco all’intero Movimento per la Verità nel mondo).
Una volta il numero di persone effettivamente al corrente delle nostre contestazioni era molto basso, e quindi si rischiava di apparire “controcorrente”, o “fuori posto”, nel parlarne sui grandi media. Oggi invece tutti sanno, bene o male, che esiste un grave problema riguardo alla versione ufficiale dei fatti, e quindi parlarne apertamente non comporta più lo stesso rischio che comportava prima.
Oggi nessun editore può permettersi di “dare uno scappellotto” in testa al suo direttore, dicendogli “Ma cosa ti salta in mente di pubblicare?”, perchè il direttore gli risponderebbe “Ma guardi che ormai queste cose le sanno tutti”. E molto probabilmente aggiungerebbe anche “Fra l’altro, ieri abbiamo venduto diecimila copie in più”.
E qui scatta il criterio fondamentale che da sempre governa le scelte dei mainstream media, e che ha molto meno a che fare con la politica di quanto abbia a che fare con questioni di tipo economico.
Tutte, assolutamente tutte le grandi testate giornalistiche del mondo – TV o giornali che siano – si reggono soprattutto in base alle inserzioni pubblicitarie che riescono a catturare, e non alle vendite vere e proprie. In altre parole, il numero di copie vendute è importante non tanto per l’introito aggiuntivo, quanto perchè ciò rende possibile alzare i prezzi dei propri spazi pubblicitari.
Se volete comperare un minuto per pubblicizzare la vostra pizzeria su Tele-Ciabatta vi costerà al massimo 100 euro, perchè Tele-Ciabatta la vedono in 15 persone, e quindi il vostro “incremento” massimo di business, derivante dallo spot pubblicitario, potrà essere di un paio coperti in più alla settimana. Se invece volete pubblicizzare una nuova bibita sulla CNN, che viene vista in tutto il mondo, lo stesso spazio pubblicitario vi costerà magari un milione di dollari, perchè quello è il ritorno che il produttore della bibita può aspettarsi dal suo spot pubblicitario.
Ma se le cose stanno così, dirà qualcuno, perchè tutti i mainstream media risultano costantemente omologati sullo stesso discorso politico? Perchè non cercano ciascuno la propria strada, per aumentare l’audience, indipendentemente da quello che fanno gli altri?
Anche qui, la risposta è molto semplice: proprio perchè si chiamano “mainstream” media. Quel nome (che significa “corrente principale”, nel senso di fiume) non gli viene dato per caso, ma perchè questi riflettono sempre la “corrente principale” di pensiero del pubblico a cui si rivolgono. E perchè riflettono sempre quella corrente? Perchè, essendo la “principale”, è anche quella che garantisce una audience più alta, e quindi maggiori introiti pubblicitari. Elementare, Watson.
Ecco che di colpo il teorema ci appare capovolto: non è la posizione politica di chi “controlla” la televisione a venire imposta al grande pubblico, ma la posizione politica del grande pubblico, recepita dalle “antenne “ particolarmente raffinate dei vari direttori, ad imporre le scelte editoriali delle varie redazioni.
Se ti metti a parlare di 11 settembre ad un pubblico che non è pronto a recepire l’argomento, la gente schifata cambia canale (o smette di comperare il tuo giornale), l’audience crolla, e gli inserzionisti ritirano le loro pagine pubblicitarie (oppure ti riducono il budget). Se invece lo fai quando “senti” che sia arrivato il momento giusto, e soprattutto lo fai nel modo giusto – sbilanciandoti sì, ma non oltre il necessario - scopri che la gente ti viene dietro volentieri, e probabilmente aumenti anche la tua audience.
Ecco perchè io sostengo da sempre che non esista un “grande vecchio” che ordina ogni giorno a TV e giornali di cosa parlare e di cosa non parlare. Non ce n’è bisogno, perchè ci pensa il sistema stesso ad autoregolarsi.
Ciascun direttore delle grandi testate funziona da solo – inconsciamente o meno – come “grande vecchio”, nel senso che sa benissimo se il suo pubblico desidera o meno sentir parlare di un certo argomento, e “come” eventualmente voglia sentirne parlare.
Torniamo quindi all’inizio del ragionamento: se oggi i più “coraggiosi” (Minoli, La Repubblica, il Manifesto) si sbilanciano leggermente a favore delle tesi alternative, mentre i più cauti (Corriere) riconoscono comunque l’esistenza di un serio dibattito, vuole dire che l’ago della bilancia del “pubblico sentire” – il pensiero mainstream, appunto – ondeggia attualmente fra quelle due posizioni.
E se questo accade è soprattutto grazie agli sforzi di tutti coloro che si sono impegnati, nel corso di questi 10 anni, a mettere insieme tutti quegli elementi che permettono oggi di contestare in maniera credibile la versione ufficiale dei fatti.
Gente come Steven Jones non ha perso il posto per nulla.
Questo però non significa, come molti sperano, che “un giorno la verità verrà fuori”. La verità, per chi vuole trovarla, è già fuori, ma non succederà mai che un governo – e di certo non lo farà quello americano – ammetta ufficialmente di aver mentito alla popolazione su fatti di una tale gravità ed importanza.
Per l’11 settembre potrà succedere, al massimo, quello che è già successo con il caso Kennedy: dopo aver cercato a lungo di coprire in tutti i modi la verità, sul finire degli anni settanta la pressione popolare costrinse il governo ad istituire una nuova commissione, chiamata HSCA (House Select Committee on Assassinations), la quale concluse che “con molte probabilità ci fu un secondo sparatore a Dallas”, e che quindi ci fu un complotto.
Ma di andare a cercare i veri responsabili non se lo è mai sognato nessuno.
Evitiamo quindi, da una parte, di crearci illusioni eccessive, mentre dall’altra cerchiamo di comprendere meglio i grandi meccanismi mediatici, al fine di ottenere i migliori risultati possibili dai nostri sforzi congiunti.
Massimo Mazzucco