Era da almeno 15 anni che non guardavo una partita di calcio.
A parte le finali dei vari mondiali, che ho seguito più come evento mediatico che non come episodio sportivo, avevo improvvisamente smesso di interessarmi di calcio negli anni '90, dopo essere stato per tutta la vita uno sfegatato tifoso interista.
I motivi di quell'addio, tanto improvviso quanto irreversibile, stavano nella trasformazione del calciatore, avvenuta appunto negli anni '90, da semplice sportivo ad una sorta di eroe mitologico in formato tabloid.
Ingaggi milionari (in quell'epoca "miliardari”), protagonismo da dive del cinema, adorazione incondizionata da parte dei fans, mi avevano fatto passare di colpo la voglia di seguire "tutto il calcio minuto per minuto”.
Se a questo si aggiunge il crescente sospetto, che iniziava a formarsi già allora, di quella che si è poi rivelata una enorme macchina da soldi, basata sulla corruzione e sull'inganno, sembrava evidente che per me il gioco del calcio fosse morto una volta per sempre.
Ma ieri, per caso, ho saputo che stava per giocarsi la finale di Coppa dei Campioni, ... ... fra Inter e Bayern Monaco.
Ho voluto accendere il televisore, forse per curiosità, e inizialmente mi sono ritrovato completamente estraneo alla situazione, a criticare quello che mi sembrava diventata un ridicolaggine assoluta: giocatori (per me) del tutto sconosciuti, dal nome straniero, fra i quali spiccava uno con un nome tipo "Chivasso", che sembrava essere l'unico italiano, salvo poi scoprire che è straniero pure lui. In porta una specie di armadio pigliatutto, che si muoveva come un robot, e si tuffata avvinghiandosi in modo teatrale anche su palle già praticamente ferme. A centrocampo, una specie di esaltato con il berretto da ciclista e le orecchie da Walter Chiari, che sembrava fuggito dal vicino nosocomio. Un paio di africani dal nome improbabile e dalle qualità ancora più sfuggevoli, che non riuscivano a toccare una palla nemmeno se gliela tiravi addosso. Un giocatore dal nome slavico che si aggirava per il campo con la testa perennemente china, come se avesse perduto il portafoglio. Uno strano giocatore con l’alopecia, dal nome tedesco scritto però con la “J” - un po' come le ragazzine che si chiamano “Gianna” ma si firmano “Janna” - che sembrava fare apposta a sbagliare ogni palla che toccava. E poi dappertutto una selva di ridicole scarpette colorate, gialle bianche arancioni e rosso fosforescente, al punto che sembrava di assistere ad un inconto aziendale fra i dipendenti dell’ANAS (quelli che di notte lavorano in autostrada, con la pettorina e le scarpe catarifrangenti).
Insomma, il mio disgusto era totale.
Poi è venuto il goal di Milito. Un lampo a ciel sereno, una illuminazione calcistica assoluta, capace di trasformare, con due tocchi soltanto, un semplice rilancio del portiere in una azione da goal indimenticabile.
In quel triangolo improvviso avevo rivisto, fotogramma per fotogramma, le più belle azioni mai giocate da Sandro Mazzola e Mariolino Corso, che riuscivano a far fessi una mezza dozzina di avversari, triangolando alla velocità della luce nello spazio di un semplice fazzoletto.
Qualcosa, senza che me ne accorgessi, si stava risvegliando in me. Non più disgustato, ma attento ora alle geometrie del gioco, seguivo con attenzione gli affannosi tentativi del Bayern di aggirare la difesa interista, mentre mi veniva da sorridere nel sentire il commentatore americano della FOX che pronunciava a suo modo la fatidica parola “cattee-nacho”.
Ah, Helenio! Grande, unico e insostituibile Helenio, dove sei finito?
Con l’inizio del secondo tempo, ed una serie di occasioni mancate da parte del Bayern, ero tornato a sedermi sulla punta della sedia, tirando un sospiro di sollievo ogni volta che il nostro armadio umano bloccava o deviava un tiro avversario. (Ma dove lo mettono, quando è finita la partita? Lo smontano a pezzi, per rimetterlo in valigia?)
E quando Milito ha segnato il secondo goal - forse ancora più strepitoso del primo - mi sono ritrovato ad esplodere con le braccia al cielo, esattamente come feci 45 anni fa quando Jair infilzò a tradimento il portiere del Benfica, regalando all’Inter la sua seconda Coppa dei Campioni consecutiva.
Mi sono poi ritrovato a gustarmi con gelido cinismo il trascorrere del tempo restante, durante il quale ogni minuto aumentava la certezza che non saremmo più stati raggiunti, e che la coppa dopo 45 anni sarebbe tornata ad essere nostra. (Notate il “plurale maiestatis”, sintomo inequivocabile del ritorno della malattia).
Maledetto calcio. A nulla sono servite le critiche, le analisi, le prese di posizione e tutti quei giusti ragionamenti che mi avevano portato ad abbandonarlo una volta per sempre. È bastata una semplice finale di Coppa per farmi capire che c'è qualcosa nel calcio, probabilmente intrinseco nel nostro DNA, che nulla purtroppo riuscirà mai ad eliminare del tutto.
Sarti Burgnich Facchetti, Bedin Guarneri Picchi, Jair Mazzola Peirò Suarez Corso. Olè!
Massimo Mazzucco