di Salvatore Quartullo
Io non li ho cavalcati, quegli “anni di piombo”, anche perché nel 1977 avevo dieci anni, e non ero ancora in grado di salire nemmeno su una bici. I miei piccoli passi a malapena reggevano l’andatura disinvolta di mio nonno, al quale i miei genitori mi “mollavano” spesso e volentieri, perchè mi portasse a spasso per le vie e i giardini di Roma.
L’unica, importante raccomandazione da parte dei miei era quella di evitare le piazze e soprattutto le zone del Centro Storico, perché “è pericoloso girare di questi tempi”. Già, era il 1977, l’anno durante il quale le P38 nelle strade tuonavano insieme alla contestazione generale.
Non ricordo se quel maledetto 12 maggio fossi a casa convalescente o su di un prato a divorare il solito cartoccio di lupini, quando Giorgiana Masi fu “raggiunta” alle spalle da un proiettile nei pressi di Trastevere, a Ponte Garibaldi, dove io passavo sempre con il nonno per andare a Villa Pamphili.
Ricordo però il viso di Giorgiana, catturato in una foto-documento, e mi domandavo cosa fosse successo, perché tutto quel fumo e la gente che correva, narrati dal bianco e nero dei telegiornali, ... ... sentivo questa scatola luminosa che parlava di “morte”, di “polizia”, ma non capivo. Per fortuna c’era papà che mi spiegava, “la donna in fotografia mentre era per strada a strillare era morta, le avevano sparato”.
Nella mia ingenuità e nei tanti ricorrenti “perchè” non capivo come mai ad una “donna che urla”, così bella, bisognasse sparare. E da adulto lo stesso interrogativo si ripresentava, vent’anni dopo, con l’uccisione di Marta Russo all’interno dell’Università di Roma, nel tragico gioco di un cecchino in abiti da promettente criminologo alla ricerca del delitto perfetto. Di quel periodo non ricordo molto oltre alla confusione, oltre al disagio familiare e ai loro sguardi angosciati durante i telegiornali.
Ritroverò, più tardi negli anni, altre storie di “donne che urlano”, donne che furono duramente contestate anche dai…contestatori appartenenti a Lotta Continua come avvenne a Cinecittà, donne che venivano picchiate anche quando cadevano a terra, come l’8 marzo a Bologna, durante un corteo di femministe in quel maledetto 1977. E scoprirò che prim’ancora, sempre nel 1975, altre due ragazze urlarono per un crimine subìto: i loro nomi erano Donatella Colasanti, che sopravvisse alle torture e all’esecuzione fingendosi morta, e la povera Rosaria Lopez, protagoniste loro malgrado di quello che è meglio conosciuto come il “massacro del Circeo”, che vedrà per la prima volta il movimento femminile costituirsi parte civile nel processo contro i “mostri” Izzo, Guido e Ghira, figli della “Romabene”.
Sono solo episodi, segnali, ma significativi, se pensiamo all’emarginazione femminile di allora e al triste destino che accompagnava quelle donne, “vittime” anche del Codice Rocco che le racchiudeva in quella magica trinità patriarcale dove ci si doveva identificare in vergini, streghe o puttane. Nulla di più.
A distanza di tanti anni, oggi le tranquille passeggiate romantiche e le luci romane sul Tevere, mi riportano alla memoria Giorgiana, quel maledetto 1977 e la pallottola “in borghese” che ha cancellato i suoi 19 anni, e penso a come si può morire semplicemente urlando il proprio disappunto o la propria diversità, come può una società cosiddetta “civile” imporre la diversità femminile, arrivando ad espropriarle un diritto come quello dell’aborto, e a restituirglielo in forma di senso di colpa.
C’è sempre stato in me il “perché” di quella morte; perché anche io ho avuto le mie preoccupazioni, ai miei inizi, quando i calci nella schiena facevano veramente male; li consideravo esagerati per un semplice diciassettenne e soprattutto assurdi se ad assestarmeli era un padre di famiglia in abiti da lavoro delle Forze dell’Ordine, durante un pacifico sit-in davanti l’Ambasciata Usa.
E, come Giorgiana, avevo manifestato solo con la mia presenza e basta, senza ausilio di pistole o molotov. Ero un bambino, nel 1977 e, no, non volevo credere che Giorgiana fosse morta, perché l’ho trovata anni dopo, nelle piazze, a difendere la sua colpa, l’essere diversa, di appartenere a questa società che stava cambiando repentinamente, con tutte le sue nuove contraddizioni, l’ho rivista, difendersi, dietro un foulard, armata di una mano nella mano con altre compagne o con il proprio fidanzato, in un contesto sicuramente più tranquillo ma non meno vissuto come quello dei “ragazzi dell’ 85”. Giorgiana non era una partigiana, né una terrorista, né una “zia rossa”: era solo una eroina suo malgrado.
Ma Giorgiana è viva. La possiamo trovare in un amore perduto, in una madre, negli occhi di tutte quelle donne che hanno creduto di vivere una nuova avventura, in un nuovo libro, in una nuova storia, dove il lieto fine è il risultato di lotte anche cruente, anche con un finale così tragico.
Salvatore Quartullo (HAVEADREAM)