Fulvio Grimaldi non è un giornalista qualunque. Anzi, paradossalmente, forse lo è, nel senso che rimane una delle pochissime persone degne di fregiarsi di quel titolo, ormai tristemente usurpato da una massa anonima di passacarte senza più identità, omologati a un sistema volutamente acritico, disposti a tradire la professione - e a calpestare la Verità - in cambio della miserevole pagnotta. Grimaldi invece ha "saputo" farsi licenziare, un paio di anni fa, dal giornale ("progressista", ça va sans dire) per cui lavorava, nel momento in cui gli è stato chiesto di non dire ciò che sapeva, e che risultava evidentemente troppo scomodo per tutti.
Diamo quindi a Grimaldi, nei limiti delle nostre possibilità, lo stesso spazio che daremmo a chiunque sappia essere, prima di tutto, coerente con sè stesso. Qui "destra" e "sinistra" contano poco, quello che conta è che una qualunque voce fuori dal coro, per principio, abbia sempre la sacrosanta possibilità di farsi sentire. Se poi ci porta anche delle informazioni - tanto preziose quanto devastanti - che servono a capire meglio il grande paradosso che sta tenendo in ostaggio il mondo, meglio ancora.
LIBANO, DELITTO E CASTIGO di ritorno da Beirut, Sidone, Tiro, Khiam, Bint Jbeil...
di Fulvio Grimaldi
Auschwitz in Libano. Khiam, 2000: un militante di Hezbollah (Hezb'Allah) mi fa fare il giro del carcere in cima alla collina, in capo al villaggio omonimo, in vista delle irridenti lande di Sheba, a cui Israele si è abbarbicata quando, infliggendole la prima sconfitta sul suo cammino colonialista, la Resistenza libanese la cacciò - maggio 2000 - da una terra occupata e massacrata per 18 anni. Sfumando verso la profondità di un cielo iperazzurro, il massiccio del Monte Hermon, ... ...a guardia della triplice frontiera siro-palestino-libanese, custodisce testimonianze di millenni di invasioni ed efferatezze "occidentali", giudaico-cristiane, le "nostre radici" secondo colui che vignette meno abusive di quelle danesi hanno rinominato Nazinger. A Khiam gli israeliani hanno eretto il prototipo di quanto poi sarebbero stati Guantanamo, Bagram, Abu Ghraib, e le infinite prigioni segrete dei sequestri, delle torture, delle eliminazioni, necessari alla guerra globale di classe lanciata dalla madre anglo-israelo-statunitense di tutti i terrorismi, dopo aver obliterato un po' di propri cittadini tra torri gemelle e metrò.
Mahmud, chiamiamolo così, mi introduce nell'area del solitary confinement, isolamento. Un lungo corridoio nero come la pece con minuscole aperture e grate sulla sinistra, oltre le quali si intuiscono celle di due metri per uno e mezzo. Qui patrioti, contadini, bottegai, studenti, sono stati incastrati per anni, dal 1982 in poi. Niente fastidi come imputazioni, processi. In parallelo c'è il corridoio donne. In fondo, due cassonetti di lamiera, un metro per un metro, in cui si dovevano avvoltolare i riottosi, per giorni e settimane. Poi, altrettanto nera di un buio gonfiato da una nuda lampadina, l'apertura di una sala con nel mezzo un palo e dei ganci. Palo delle tortura: sevizie, lesioni, sale sulle ferite, corpi appesi per i polsi, al culmine di un trattamento alla privazione del sonno, alle bastonate, all'elettroshock, alle tremende termoescursioni. Sistemato il prigioniero, lo si lasciava alla canicola e, d'inverno, alla neve.
Ne sono passati a migliaia, ne sono crepati più della metà. Lo sconforto del visitatore, temperato neppure dalla più rabbiosa delle indignazioni, si rinnova alla vista della "sala d'armi". Una raccolta di strumenti di morte e tortura tolti al nemico, o da questi in fuga abbandonati, simbolo, insieme ai volti dei martiri della liberazione, ai manifesti di lotta, alle colombe e ai fiori, di orrori che nessuna vittoria può far dimenticare. Ma lo smarrimento, la collera si sciolgono in rivoli di sollievo, addirittura fisico, alla proiezione delle immagini della lotta armata vittoriosa contro l'invasore (quanti ricordi della valle del Giordano con i fedayin di allora!), poi dei momenti sconvolgenti della liberazione dei prigionieri dall'Auschwitz di Khiam: folle che irrompono nel fortino-lager, mazze che spaccano i lucchetti delle porte delle celle da cui mani si protendono tra le grate, uomini macilenti e inebetiti che vengono estratti come tappi di bottiglia dagli scatoloni di lamiera, mutilati portati via a braccia, nel piazzale sopravvissuti di dentro e di fuori che si abbracciano, si baciano senza posa, un corteo trionfante che si avvia giù dalla collina... Il monte Hermon, sovrano, sentinella, cancelliere della storia, che registra.
Bombe-cancellino contro la memoria. Carcere di Khiam, settembre 2006. La terza guerra coloniale d'Israele contro il Libano, la ventimillesima violazione della pace, serenità, sovranità, salute, vita di questo popolo, irriducibile come i palestinesi, gli iracheni, i cubani, tutti quelli che hanno ragione, è finita da un mese. La Auschwitz in Libano è ridotta a un cumulo di macerie. Così tutto il paese. Avete presente Falluja, o, riandando al sangue tossico dei maestri di terrorismo, Deir Yassin? Stessi terroristi, stessi carnefici. E stessi invincibili dalla parte della ragione e della giustizia, a Falluja dove le ceneri del fosforo si sono coagulate in nuovi corpi combattenti e i marines non possono nemmeno più compiacersi della vista della città martirizzata, a Khiam dove all'onta inflitta all'esecito più immorale del mondo si aggiunge lo sberleffo di una ricostruzione che sembra la crescita di un bosco nell'accelerazione del montaggio. Sul lager della loro nefandezze, prova vivente di una psicopatia terroristica ontologica, frutto di uno Stato costruito sul sangue e sul crimine razzista, la Israeli Defence Force (IDF) ha scaricato quanto di più micidale aveva nel suo repertorio di distruzione. Ha bombardato, cannoneggiato, mitragliato, lanciato missili. Ha disperatamente tentato di sradicare, con le mura, i crimini compiuti. Impotente paranoia di fronte all'avanzare di una nemesi, inevitabile e possente come il Monte Hermon. Inciampo su un cartello giallo accartocciato: solitary confinement. Dalla torretta dei tanti blindati e carri catturati all'invasore un mazzetto di ragazzini alza i pugni e grida Qullu Hezbollah! Tutti Hezbollah!
Il comandante del Sud. Sciti di Libano e sciti di Iraq. Nabil al Khuq è il responsabile politico-militare dell'intero Sud Libano. Insomma, il maresciallo Zukov, comandante della vittoria. Sta, insieme ai suoi militanti, sotto l'unico tetto rimasto in piedi nel complesso carcerario. Alto, con l'ampia veste bruna degli imam, giovane e sorridente, è il simbolo di un paese nato da poco (prima era la "Svizzera del Medio Oriente", un postribolo mafio-capitalista), ma già campione nella sua specialità, la resistenza. "La nostra resistenza non è finita e non finirà finchè Israele continua ad occupare terre arabe e finchè insiste a violare le risoluzioni dell'Onu. A noi la guerra non piace, ma Israele, aggredendo e occupando, ci costringe a impegnare le nostre vite nella resistenza e, dunque, a mantenere le nostre armi. Nessuno ci disarmerà".
Colgo l'occasione per liberarmi di un intreccio di perplessità: "Cosa può dire della contraddizione tra voi qui, schierati all'avanguardia di un fronte mondiale antimperialista ed antisionista, e i vostri fratelli di confessione in Iraq che, con Moqtada e Al Sistani, legati al vostro stesso alleato iraniano, collaborano con l'occupante imperialista e con i suoi fantocci? La risposta è tanto magistrale quanto chiarificatrice: "Questa contraddizione c'è e dimostra che noi Hezbollah non siamo 'integralisti islamici' che scelgono le alleanze in base alla religione. Le nostre strategie e alleanze sono fondate su valutazioni esclusivamente politiche". I collaborazionisti di Baghdad e Najaf, agenti di una potenza regionale che gioca su più tavoli, sono sistemati. E anche tutti coloro che volevano buttare nello stesso paiolo gli squadroni della morte sciti di matrice Usa-Sion-Iran e i patrioti libanesi del riscatto arabo.
Ascari Onu del colonialismo. Il pulmino costeggia il reticolato che, fottendosene per l'ennesima volta della risoluzione 1701, pur redatta dai sostenitori di Israele e della riduzione in schiavitù del Libano, i militari sionisti scornati hanno infilzato in territorio libanese, oltre la "linea blù" del confine riconosciuto. Devastando ancora campi e colture. Insieme ai quotidiani sorvoli, alle occasionali incursioni di terra e, crimine descritto dalla convenzione di Ginevra, la deviazione dei corsi d'acqua verso Israele , tutti in violazione di sovranità e cessate il fuoco, tutti sotto gli occhi impassibili dell'Unifil, sono l'espressione della tracotanza impunita, ma anche della frustrazione. Da non sottovalutare, comunque, perchè sono i colpi di spillo che, con ogni certezza, precedono il quarto assalto, quando alla belva ferita e umiliata gli "interposizionati" Onu (posizionati esclusivamente sul collo dell'aggredito) avranno dato tempi e occasioni per riazzannare.
A uno sputo, Metulla, sgargiante insediamento coloniale in Alta Galilea palestinese, cala lo sguardo su un cilicio di rovine che, partendo dai piedi dell'Hermon, si perde verso Tiro. Ed eccoli, i "nostri ragazzi" (appellativo che poteva valere per i coscritti della Leva, tutti noi, ma fa un po' ribrezzo se riferito ai professionisti volontari della guerra), su blindati e camionette dai vessili tricolori svettanti, eccoli i veterani degli eccidi di civili e ambulanze sui ponti di Nassiriya. Li incrociamo scendendo da Khiam verso Bint Jbeil, detta anche Nasrallahgrad. Sono i militi della risoluzione 1701, quella scritta sotto dettatura israelo-destralibanese da Bush d'intesa piena con Chirac (lasciando a quest'ultimo l'onore e l'onere del satellite prodigo), nuovi compari della rivincita colonialista contro una nazione araba che, mezzo secolo fa, ai vampiri europei aveva fatto vedere i sorci verdi, mostrando al mondo intero come si fa.
Riscatenamento colonialista mimetizzato da "intervento di pace" grazie alla più clamorosa conversione sinistra-destra vista in Italia dalla metempsicosi fascista-antifascista, mallevadore Togliatti, in qua: quella del movimento presunto pacifista, già natoficatosi contro gli afghani, in corpo di spedizione che avrebbe fatto l'orgoglio del maresciallo Graziani. Potenza magnetica della greppia Ong in corso di allestimento, anche con i buoni uffici del viceministro PRC, Patrizia Sentinelli! E della consapevolezza che se non si fosse dato retta ai padrini israelo-statunitensi di Kofi nessuno ti avrebbe risparmiato i botti delle loro truppe speciali Al Qaida contro treni o metropolitane!
La "nuova politica estera" del bombarolo e i suoi corifei di pace (israeliana). Una risoluzione festeggiata dai ciarlatani sacerdoti della "nuova politica estera" italiana: gli eterni collateralisti - e infamoni - della Tavola della pace, i cerchiobottisti vertici Arci, i piccioni viaggiatori cacasenno Cgil, il nuovamente allupato (perso il parco giochi Iraq) Ponte per... "Liberazione", "manifesto" e tutto il bertinottume ex-nonviolento, Lidia Menaguerra, Ingrao, Napolitano, Rossanda e altri "afghani" invecchiati malissimo nella melma della "riduzione del danno". Una combriccola rimpinzata dalla conversione a U afgana degli eternamente rientranti "ernestini" del PRC, i Grassi, i Burgio, i Giannini, campioni di supponenza e di codismo, banda capeggiata dal sergente clintoniano e brigadiere bushiano Massimo D'Alema, attore e celebratore dello stupro della Jugoslavia, della Nato di proiezione universale, dell'esercito di killer professionisti e dei carabinieri caput mundi. Una banda di quaquaraquà assurta da salmerie al seguito delle nuove SS, nel sostegno alla famosa "riduzione del danno", diventata guerra di sterminio contro il popolo afgano, al rango di associazione a delinquere con per ragione sociale gli entusiasmi guerreschi anti-musulmani ed anti-arabi sotto copertura Shoa e lasciapassare Onu. Una risoluzione, la 1701, firmata da Kofi Annan nel vergognoso epilogo del suo servizio ai potenti, notaio, o ex-post, o ex-ante, dei crimini di guerra euro-statunitensi, dalla Corea al Vietnam, da Haiti alla Somalia, dall'Iraq al Ruanda, dalla Bosnia all'Afghanistan e ai tribunali di giudichesse tipo Carla del Ponte all'Aja.
Un miserabile pappagallo che ripete sottovoce e impachettate nella bambagia le aberrazioni del padrone, ora sguinzagliato su Libano e Sudan (il minibertisconi, Giordano, plaudente con il temperino tra i denti all'intervento anche in Darfur), ovunque si tratti di sostituire a una sovranità renitente un mafiastato. Una risoluzione lanciata da una vergognosa Conferenza di Roma che si era astenuta dal chiedere all'Onu un'immediato fermo all'aggressione israeliana, fermo poi dilazionato per un mese da Washington, Londra e Onu, fino a quando non ci si dovette rassegnare al fatto che gli stragisti israeliani, buoni solo a bombardare dall'impunità, allenati solo a schiacciare coi cingoli bimbetti lanciasassi, proprio non ce la facevano.
Una risoluzione che, portentosamente era riuscita ad attribuire agli hezbollah il crimine massimo di Norimberga, l'aggressione, mentendo sul dato provato della cattura in territorio libanese di due soldati israeliani penetrati col preciso scopo di provocare una reazione che agevolasse una guerra discussa e preparata da mesi insieme ai capibastone neonazisti di Washington. E occultando le aggressioni, a prevalente carattere infanticida, programmati ed eseguiti tra Gaza e Beirut da un'accozzaglia di gangster, tutti inquisiti per qualche oscenità: stupro, speculazioni, abusi di potere, pedofilia, insider trading in vista dei profitti di borsa assicurati dall'imminente macello libanese. Ma l'Onu, ossequiente, come ha sacralizzato l'impostura dell'11 settembre, così ha legittimato la frode del 12 luglio 2006. Ancora, la risoluzione 1701 si "interpone" tra aggressore storico (20.000 ammazzati nel 1982, 1300 stavolta, tantissimi in mezzo) e un aggredito che ha sacrosantemente e stupendamente esercitato il diritto alla difesa, mettendo le truppe Onu solo dalla parte del confine di quest'ultimo, ponendosi l'obiettivo di disarmare solo la vittima, rendendola vulnerabile sia a nuove aggressioni esterne, sia a nuovi cannibalismi antiproletari delle cosche mafiose che hanno sgovernato il Libano grazie all'imprinting francese del 1943.
Questi militari, che concedono amabili ed ebeti saluti, rispondendo a occhiatacce che non capiscono, hanno ancora nelle orecchie l'ossessivo "dobbiamo difendere Israele, dobbiamo disarmare le milizie, dobbiamo, occupandolo, salvaguardare la sovranità del Libano" martellatogli dai vari Parisi, Rutelli, Bertisconi, Blair, Condoleezza, Annan (così anche il recente rapporto di questo pony-express della Casa Bianca) e generali vari. Baionettari della San Marco, arditi incursori, sbarcatori lagunari, tagliagole speciali, fra un po' i caramba del Tuscania, reduci degli elettrodi su testicoli somali, tutta la panòplia squadrista di un armata allevata nello spirito del G8 di Genova e incoronata da un panzerpapa che, d'accordo con i nazisionisti, ne vasellina le protesi di ferro negando all'Islam raziocinio e addossandogli violenza connaturata. Ancora una volta il bue che dà del cornuto al... leone. E pensare che il sempre preciso presidente iraniano, Ahmadinejad, alle volgarità offensive e ignoranti del bavarese ha risposto "Io rispetto il papa". Buon per lui, che ovviamente non ne è rispettato per niente.
Le bombe e i cannoni (e le risoluzioni Onu) / sono armi del padrone/ la nostra sola arma / è la rivoluzione (canzone di Lotta Continua). Lo sanno benissimo i partigiani del Partito di dio che, pure, la 1701 l'hanno dovuta accettare per porre fine alla carneficina di aggressori talmente dotati di umanità da aver concentrato nelle ultime 72 ore prima di un cessate il fuoco già sanzionato un terzo di un'apocalissi che è equivalsa a cinque bombe di Hiroshima. Un terzo, anche, di quel milione e passa di bombe a grappolo che, sanzionati dalle convenzioni internazionali, scoppiando tra piedi e mani e facce infantili e contadini, svolgono però il proficuo lavoro imperialista di sabotare il recupero economico delle popolazioni trucidate e di sfoltire un'umanità inopportuna per generazioni a venire. Lo stesso compito assegnato all'uranio in Jugoslavia, Iraq, Somalia e, ora, Libano.
Sanno che l'Unifil ha per obiettivo primario quello di finire il lavoro sporco di Israele. Un lavoro sporco iniziato con la prima invasione, nel 1978, coronata dalla strage himmleriana di Sabra e Shatila, interrotto nel 2000 dal trionfo Hezbollah, prima vittoria araba sugli energumeni "invincibili". Lavoro poi ripreso con l'assassinio di Rafik Hariri, di chiarissima marca Mossad (checchè abbia tentato di mistificare il tedesco amico della Cia, Detmer Mehlis, messo da Annan a capo della commissione Onu, poi cacciato quando i suoi "testimoni" hanno rivelato di essere stati pagati da Cia e Hariri figlio. "Manifesto" non te ne sei accorto?). Assassinio rocambolescamente attribuito ai siriani, che ne avevano tutto da perdere in quanto custodi della sovranità libanese di fronte agli appetiti colonialisti, e che, facendo fuori il pur brigantesco speculatore filosaudita che in qualche modo aveva imposto un equilibrio politico e interconfessionale al paese delle cento tribù e dei mille clan, riattivava le ferite della "guerra civile" 1975-1992. Come dettava la strategia israeliana.
Dalla "rivoluzione dei cedri" al recupero coloniale euro-statunitense denominato Unifil. Competizione interimperialistica? Quell'attentato avrebbe dovuto innescare, con la "rivoluzione dei cedri" e i miliardi di George Soros e della famigerata National Endowment for Democracy, un processo di eversione "non violenta" di quella roba fanghigliosa di destra che viene chiamata "società civile" e portare a un regime change tipo Georgia, Serbia, Ucraina. Ma, come già in Uzbekistan, la formula si rivelò logora e venne disintegrata da milionate di proletari sciti che, uniti alle sinistre e a settori cristiani patriottici, come più tardi nella Resistenza (12 furono i martiri del Partito Comunista Libanese, alleato degli Hezbollah), ricacciarono nella classiche fogne i nostalgici del sogno franco-israelo-feudale dei bei tempi di quando il Libano era il santuario del gangsterismo finanziario di mezzo mondo.
Per quella volta, e anche per la successiva, il presidente francese Chirac dovette rinviare il sogno di tornare a un Libano prima colonia e poi protettorato francese. Con la 1701 e la Grande Armada d'assalto italo-franco-tedesca (incursori, sbarcatori, portaerei, incrociatori, artiglieria di lunghissima gittata, elicotteri d'assalto, F16, carri pesanti, insomma roba da "difesa di Israele" da Beirut fino a Damasco e, forse, Tehran. E comunque roba per sistemare una volta per tutte - così si pianifica - hezbollah, comunisti e patrioti vari, quando il premier Fuad Siniora e il compare voltagabbana Walid Jumblatt avranno deciso che è venuto il momento della resa dei conti. La chiameranno nuova "primavera di Beirut", vedrete. Bertisconi avrà sussulti di orgasmo.
E ci sono sputasentenze nel "movimento" romano che cicalano di competizione interimperialista tra franco-germano-europei e gli Usa nazi-evangelico-sionisti. Sono gli stessi che svettarono ai vertici della coerenza politica trascinando nel giugno 2006 la parte più sciocca e/o più vorace dell'arcipelago "antagonista", addirittura il Forum Palestina, in una lista "Arcobaleno" per Veltroni, sindaco-fuffa per tutte le stagioni sioniste, opusdeiste, amerikane e imperialiste. Ora, perso con lo 0,6 del voto ogni credibilità politico-radiofonica, si sono ri-revisionati in anti-Unifil, nel segno della teoria della competizione tra europei e statunitensi dentro la quale bisogna aprire le solite "contraddizioni". La faccenda è più complessa di quanto appaia ai nostri accademici vernacolari. La definizione appropriata per il rapporto tra Usa e Francia (con Germania, Italia e frattaglie est-europee, tutti incondizionatamente legati al carro da morto israeliano) è di collusione-collisione. Esattamente come tra Iran e Usa in Iraq. E tutto sta ad indicare che la collisione, dati anche i rapporti di forza, è di là da venire, mentre oggi siamo in piena fase di collusione, con questi subordinati europei che, sotto la ferula Usa e Israeliana, riempiono gli interstizi aperti nel militare israelo-angloamericano dalla vincente resistenza popolare in Iraq, Afganistan, Libano, domani Sudan e Siria.
Cedere le armi? Mai! Inciampando tra la desertificazione dei quartieri sud di Beirut e di quelli che rasentano la più imponente testimonianza archeologica di Roma nel mondo, a Baalbeck, nella valle della Bekaa, vena giugulare del paese, detta anche hezbollandia, mi accompagnano le immagini e i racconti delle magnifiche donne col velo, dei bambini a colori, degli uomini in jeans che tra mezze pareti ancora in piedi e sotto tetti sfondati, irridono ai terminator allestendo grigliate di qebab tra due sassi sottratti alle macerie (macerie già rimosse, accumulate e contrassegnate da un incredibile lavoro di ricostruzione degli hezbollah, tutti volontari, Stato latitante).
Frammenti di quel popolo di un milione di sfollati, un quarto dell'intero Libano, che venne inseguito dalle armi a energia diretta, dalle bombe al fosforo e dalle bunker busters all'uranio fin sui ponti distrutti, fin nei funerali, fin nelle colonne contrassegnate Onu, fin nelle case e scuole apertegli da una fratellanza umana che è senza confronti nella parte occidentale dello "scontro di civiltà". Scontro di civiltà davvero, solo che la civiltà - solidarietà, resistenza, ospitalità, dignità, verità, cultura - è tutta qui al di là del Mediterraneo, il più possibile lontano da D'Alema, Calderoli, Bertisconi e dal Vaticano. Frammenti di quel popolo che ho visto rientrare a casa, cluster o non cluster, scavare a mani nude, muovere trattori, manovrare bulldozer, condurre camion carichi di rimasugli di esistenza, fin dalle primissime ore dal cessate il fuoco e, appunto, cucinare qebab da offrire insistentemente e con i sorrisi più caldi del mondo, sorrisi arabi, sorrisi del Terzo Mondo, al primo venuto con l'irriverente videocamera tra le mani.
Beirut Sud dove tutto è incominciato. Il sindaco di Ghobeiry, quartiere rivoluzionario di Sud Beirut, Abu Said al-Khansa, è una vecchia conoscenza. Da anni accompagna la comitiva del giornalista Stefano Chiarini (barchetta dalla rotta certa e resistente nel manifesto alla deriva) "Per non dimenticare Sabra e Shatila" nel percorso di dolore e memoria che è riuscito a strappare i quasi 3000 della Marzabotto di Israele alla discarica in cui lo Stato delle destre li aveva sepolti, fossa comune oggi riscattata a solenne e fiorito sacrario. Qui si incontrano le madri, le spose, i figli del più schifoso crimine israeliano nella storia del conflitto, con coloro che ne hanno condiviso la sorte oggi, nella ripetizione di Qana, base Unifil con dentro centinaia di disperati in fuga dalle bombe, ma da queste inseguiti fino alla morte, anche di 37 bambini. "L'impunità, dice Stefano, nello spiazzo dei martiri riscattato anche per merito suo, conduce alla ripetizione del delitto. Perciò la nostra solidarietà con le vittime e con la Resistenza è totale". Dell'impunità ne sanno qualcosa i Begin, gli Shamir, gli Sharon poi premier di un regime madre di tutti i terrorismi, quando già negli anni '40 e '50 bruciavano villaggi e massacravano arabi peggio di Riccardo Cuor di Leone, sterminatore di Acri (mentre il vittorioso Saladino risparmiò tutti i cristiani).
Il lavoro sporco di Israele e degli Usa. L'Unifil della spedizione che ha ridato impeto virilista anche a Bertinotti, già nonviolento integrale e propagandista indefesso di ogni antivirilistico particolarismo sessuale, è intervenuta là dove le mazzate dei robocop israeliani avevano fallito. Il che fare essendo: eliminare la Resistenza, cioè le venticinquennali difese del Libano dal mostro espansionista, dare respiro a un'Israele squilibrato dalla virulenza revanscista della popolazione contro i suoi fallimentari boss militari e politici, in vista della ripresa bellica. E, in subordine, far parlare di multilateralismo, ricupero dell'Onu, politiche mediterranee di pace, per inbrogliare il colto e l'inclita e anche per oscurare il bagno di sangue allestito da uno Stato canaglia a Gaza, quello dei cento torturati, trapanati e ammazzati al giorno dagli squadroni della morte a guida irano-statunitense in Iraq, nonchè l'irresistibile avanzata della resistenza in Iraq, più 25% di azioni anti-occupazione dal 2005, e in Afganistan.
Ma soprattutto l'Unifil deve ristabilire in Libano un equilibrio filo-occidentale sconvolto dalla demografia e dall'unità nazionale, consolidatasi attorno alle uniche politiche sociali e di difesa del paese mai attuate: quelle degli hezbollah e dei loro alleati laici, nasseriani e comunisti. Rimettere in arcione i vecchi capiclan maroniti, guidati da quel pararatzinger che è il patriarca falangista Sfeir, liberare il primo ministro cristiano, Siniora, uomo del clan Hariri - una roba alla Diukanovic, il contrabbandiere a capo del Montenegro - dal condizionamento delle forze patriottiche, rilanciare il capodruso Jumblatt a capofitto contro presunte ingerenze siriane, coprire i dinamitardi israeliani, già entrati in azione a Sidone e a Damasco, sotto la consueta sigla di Al Qaida e co.
"Non c'è libertà senza armi". Tutto questo agli hezbollah è perfettamente chiaro quando spiegano, con il sindaco Al Khansa, che "l'Unifil non è altro che lo strumento per trasformare la vittoria militare di tutto un popolo, quella che ha dato speranza e slancio a tutta la nazione araba e oltre, in una sconfitta politica. Lo ripete in termini anche più espliciti Wafa al Jamal, responsabile politico Hezbollah per la valle della Bekaa, qui, a Baalbek, culla della Resistenza e "capitale di libertà". Qui dove, tra i ruderi della civiltà romana e tra i campi di mais ora disseminati di mine sparate dal cielo; qui dove è stato distrutto un terzo della città, mille abitazioni, le attività industriali, artigianali, commerciali, anche il supermercato con sotto il rifugio antiaereo, tra le cui rovine ora rovista quella piccola donna tutta nera con il suo bastoncino per rimuovere la polvere, i calcinacci, da sopra una coperta, un quaderno... E' successo che, quando fu bloccato dalle armi della Resistenza, Israele prese ad accanirsi sui civili. Dice Al Jamal: "Nè l'invasione, ne Unifil hanno niente a che fare con la cattura dei due soldati israeliani o con la difesa di Israele. Hanno a che fare con la Rice quando proclama che queste sono le doglie del grembo dal quale nascerà il Nuovo Medio Oriente. Il Medio Oriente ricolonizzato.
Quali sono i principali paesi della spedizione Onu? Francia, Italia e Germania. I tre più stretti e incondizionati alleati di Israele, insieme agli Usa. Francia e Italia hanno accordi militari strettissimi, la Germania si assume il ruolo di debitrice eterna di Israele e gli fornisce armamenti e sommergibili per il lancio delle atomiche. Sinistre e destre in quei paesi sono concordi nell'alleanza privilegiata con un paese che da sessant'anni aggredisce, commette genocidio in Palestina, ci bombarda, detiene 10.000 prigionieri senza processo da decenni, tortura, pratica il peggiore razzismo. No l'aggressione e l'Unifil hanno a che fare con un solo obiettivo: la testa e le armi della Resistenza. Noi siamo più determinati che mai a tenere le nostre armi per difendere la patria. Andremo in paradiso armati. Non c'è libertà senz'armi". E' il controcanto all'orrida classe politica che ci ritroviamo, quella per la quale senza armi da far sparare sulla gente nel mondo degli "interessi italiani", invece, non c'è governo, non c'è profitto, non c'è patrocinio Usa.
C'è il rischio di farsi saltare per aria dal dipartimento Cia "Al Qaida". Mi permetto il lusso nostalgico, dopo tanta polvere di rovine di oggi, di una visita alla nettezza ritagliata nel cielo dei templi romani. Ammirati per la prima volta nel luglio 1967, appena uscito dalla guerra dei sei giorni, un orrore, quello sì, che rovinò la storia del mondo. Le macerie sono dietro l'angolo. I barbari hanno colpito a due passi, facendo vibrare e incrinando capitelli e colonne. Difficile dire chi abbia imparato da chi, se costoro dai nazi di Coventry, dallo stragista Churchill di Dresda, o dai cavernicoli a stelle e striscie che hanno polverizzato, con i musei, le biblioteche, i siti archeologici di sei millenni, la civiltà mesopotamica. O se costoro da quelli di Palestina e di Jenin. Hanno in comune l'obiettivo degli impotenti: cancellare la potenza dell'altro, che è intelletto, identità, storia collettiva, costume, etica ed estetica, creazione. Cancellare insieme a un paese anche la sua anima. Specchiarsi nel vuoto per non doversi riconoscere per quello che si è: la morte.
Il reticolato di coloro per cui il ghetto è diventato l'ordinamento del mondo serpeggia per valli, piani e colline e in parallelo, dal nostro lato, si snoda l'interminabile solco delle distruzioni. Sono passati pochi giorni dall'avventarsi della belva, ma già hezbollah, amministratore da decenni di questi abitati, ha sgomberato tutte le strade, ha lanciato ponti provvisori, ha colmato voragini, ha segnato con bandierine i luoghi sospettati di albergare bombe a grappolo, ha iniziato la ricostruzione avendo dato intanto a ogni sfollato quanto basta per un affitto annuale, o per ricostruire. Stato libanese lontanissimo. Solo qualche pattuglia. E gli ufficiali sono in maggioranza maroniti. Anzi, Protezione Civile Nazionale sotto accusa per aver distribuito i soccorsi agli elettori del clan Hariri... Come Arcobaleno di dalemiana memoria. A Qana, base della vecchia Unifil, dal ruolo allora più innocente e più passivo, c'è il sacrario dei cento e passa, donne bambini e vecchi che, durante uno dei 17.000 bombardamenti e violazioni israeliani dal 1967, si erano rifugiati nella sicurezza dei caschi blù. Sicurezza per chiunque, tranne che per Israele: oltre cento trucidati, oltre cento sepolcri di pietra. Un ripensamento? Qualche rincrescimento? Una crisi di coscienza? Figurarsi: "l'impunità produce ripetizione", come ammonisce Chiarini e come sanno dalla propria pelle alcuni milioni di arabi. Il posto di osservazione dell'Unifil viene disintegrato, quattro caschi blù uccisi, nonostante ripetute richieste di cessare il tiro al bersaglio.
L'Onu deve imparare a star zitta. Kofi Annan ha imparato già da tempo. E' ancora con un'ombra di incredulità negli occhi, di fronte al troppo enorme per un giusto, che il fruttarolo di lì accanto ci racconta la ripetizione dell'eccidio. "Sapevano che non c'erano nè combattenti, nè lanciarazzi a Qana. Glielo aveva garantito l'Unifil. Sono venuti ripetutamente e hanno centrato l'edificio pieno di famiglie. Hanno sepolto vivi tutti, 37 bambini compresi. Poi sono venuti a vedere dall'alto i funerali in fossa comune. Altri funerali di altri stermini sono venuti a colpirli. Da quello che si è potuto vedere nelle televisioni internazionali, questa volta, però, la strage gli si è ritorta contro, magari non tra i politici, tra le gente di sicuro..." E il primo, tra questa gente, è stato, come era da aspettarsi, il presidente della rivoluzione bolivariana in Venezuela, Hugo Chavez. Primo a Damasco, a Tehran, primo e unico a ritirare il suo ambasciatore dalla capitale dei farabutti, primo nei cuori degli arabi e sulle magliette del Libano.
Nasrallahgrad, la storia si capovolge. Bint Jbeil, Nasrallahgrad, come Stalingrado. Città martire, città eroe. Gli si sono accaniti contro con tutto quello che l'esercito più potente e più sanguinario del mondo poteva produrre di strumenti di devastazione. Per trenta giorni. E non ce l'hanno fatta contro un esercito di contadini, negozianti, artigiani, studenti, ragazze, operai. Gente che da sempre sta lì, in quei campi, in quei centri, lì vive e lavora e agisce politicamente. E, dunque, militarmente. Gente che difendeva le proprie case, i propri campi e, quando questi erano devastati, la propria dignità. Oltre la vita individuale, per la vita collettiva, una cosa che nell'Occidente dei "diritti umani" non si concepisce più. Hai voglia a sbraitare che Hezbollah si fa scudo dei civili. Sono gli "indigeni" che combattono. Piuttosto si pensi ai ragazzini palestinesi legati dall' IDF sui propri blindati, o agli arabi israeliani di Galilea cui, diversamente dai coloni, erano negati i rifugi anti-missili. Si pensi ai 1300 morti ammazzati da Israele, solo 80 combattenti, tutti gli altri civili. E ai 138 colpiti dalla Resistenza, oltre cento militari. Chi è che da sessant'anni va a caccia di civili? Chi ne fa la sua specialità dalla Palestina all'Iraq, dall'Afghanistan alla Jugoslavia, da Cuba a tutta l'America Latina, dalle Torri Gemelle a Madrid, Londra, Bali...? A Bint Jbeil, grande paese, in faccia alla Palestina occupata, la dignità, la libertà, la vittoria le si sono pagate con tutto. Ho visto Dresda, prodigio barocco polverizzato a fine guerra da Churchill quando non c'era più niente, oltre agli sfollati e ai morti di fame, da bombardare. Un crimine contro l'umanità sfuggito ai giudici di Norimberga. Bint Jbeil, in scala, è lo stesso.
Non una casa intatta, quasi tutte disintegrate. Siamo a pochi giorni dagli ultimi rabbiosi sfoghi degli assalitori in ritirata, la polvere che annebbia tutto il colle su cui è appesa la città e impesta naso e occhi non è però di esplosioni. E' di ricostruzione. Bint Jbeil sembra un formicaio impazzito: un groviglio di trattori, autocarri, ruspe, spettri umani nella lattigine che si muovono, operano ovunque si riesca a distinguere qualcosa. Sono tornati, subito e in massa, gli sfollati, i sopravvissuti, e hezbollah è al lavoro come ieri era al combattimento e l'altro ieri all'amministrazione socialmente più progredita di tutto il paese. Non dare al nemico la soddisfazione di una traccia di rassegnazione, di cedimento. Sapere che tornerà, più feroce che mai, e ricostruire e reinstallarsi lo stesso. Probabilmente questa irriducibilità è l'arma più potente che sia data a un aggredito. Quella che alla fine vincerà. Purchè non intervengano i parassiti del "dialogo anzitutto".
Già, dialogo tra pietre e carri armati!. Tutti ci salutano con l'euforia di chi sa di mostrarsi vivo e valido. I camion si fermano e il conducente mi invita a terminare con calma la ripresa. Sotto un arco largo un metro, reperto dell'era crociata forse, l'unica cosa che rimane di un'abitazione, anche qui una famiglia cucina. Hanno perso tutto, anche amici, congiunti. Ma la vittoria, il lavoro per il futuro gli danno la forza di ridere. Calcinacci, testimoni di barbarie, diventano giochi per i bambini. Ci invitano. Affettuosamente. Eccola, la trincea della civiltà. E come altre trincee, la provincia irachena di Anbar, Falluja, Khaim, Ramadi, Mossul, Bint Jbeil ha riacceso la speranza, la coscienza e la volontà araba. Mille manifestazioni da Rabat a Bagdad, regimi clienti degli Usa in crisi, orizzonti che si aprono per la nazione araba, per il mondo degli oppressi, dal Medio Oriente della rivincita libanese all'America Latina di Cuba, del Venezuela, della Bolivia. Ieri erano Nasser, Boumedienne, Gheddafi, i fedayin dell'Olp, i Tanzim delle intifade, Saddam, il Baath, oggi sono i partigiani iracheni, del Baath e dell'Islam, gli hezbollah, Amal e i comunisti del Libano, Hamas e il Fronte Popolare. Matrici ideologiche diverse, obiettivi comuni, volontà di masse che si scelgono via via gli strumenti della liberazione. C'è poco da sfrucugliare.
Da Rashidìe con amore. Rashidie è il campo palestinese più a Sud, sotto Tiro, a una fiondata da Israele. Hanno bombardato anche qui, c'erano abituati i profughi del '48 e generazioni successive, da allora. Ma l'Onu ha detto niente, mai. Neanche dello sbertucciamento delle sue risoluzioni a favore di questi erranti perpetui. Lo governa Sultan Abu Ainain, capo di Fatah per tutto il Libano, già condannato a morte dai governanti di Beirut, ora esonerato. Forse a caro prezzo. Corre voce che abbia dovuto acconsentire sotto le solite pressioni Onu (Israele e Usa) a far entrare nei campi dei 400.000 profughi senza diritti e senza occupazione, finora assolutamente autonomi e liberi da interferenze interne, reparti dell'esercito libanese. E a fargli erigere basi permanenti. Già quando sono entrato a Rashidìe ho dovuto farmi controllare da un inedito posto di blocco dei militari di Beirut. Sarebbe un colpo tremendo all'agibilità politica e all'autonomia organizzativa dell'Olp. Qui a Rashidìe, come negli altri campi in Libano, Ein al Heloue, Bourj al Bourajneh, Shatila, Mie-Mie, i palestinesi hanno aperto i loro campi, gia sovraffollati per la proibizione di costruire, a profughi del Sud braccati dalla ferocia israeliana. Con la stessa appassionata solidarietà dei siriani e dei cittadini di Beirut, di Tripoli, delle altre città libanesi. Solo che nei campi palestinesi la solidarietà saliva da un fondo di povertà e privazioni senza uguali nel mondo, se non in Iraq e Palestina. Vedendo questa ricostruzione, questa organizzazione, questa fraternità, si pensa a New Orleans, a Katrina, si confronta Nasrallah con Bush... e si ripensa allo "scontro di civiltà". Pare che il governo libanese abbia promesso ai palestinesi, in cambio di una loro astensione dai combattimenti, l'pagognato riconoscimento dei diritti di tutti i cittadini libanesi. Chissà se è vero. Chissà se è un bene.
Le armi proibite dei terroristi. Non c'è solo quel milione di bombe a grappolo seminato per tagliare le gambe al futuro di un popolo arabo non sottomesso. Ci sono, raccontate da tanti medici emersi dal fuoco della battaglia e testimoniate dai corpi devastati di mille vittime, le "armi non convenzionali" che i vandali di Israele hanno avuto dagli Usa dopo la sperimentazione in Iraq (documentata da Sigfrido Ranucci, mio amico e coraggioso giornalista di Rainews24). A Tiro, dove la porpora dei tempi omerici è diventata nuovamente sangue, come ai tempi dei brigantaggi crociati, c'è il grande ospedale Hiram. Il primario è il Dr. Ibrahim Faraj, chirurgo, che ci parla, al sottoscritto e a Marcello Sordo, inviato degli Scienziati contro la guerra, dell'ulteriore crimine israeliano, l'uso da Gaza a Beirut delle armi segrete. Il suo italiano è perfetto, italiana è la moglie, italiani, a Torino, sono stati i suoi studi. La giovialità, l'ironia, la passione per il verbo di Ippocrate sono suoi, sono arabi. L'ambasciata italiana gli aveva detto di partire con l'ultima nave che lasciava Tiro all'alba dell'armagheddon sionista. Rifiutò, fece partire i suoi, rimase per tutti i 33 giorni nell'ospedale.
Gli israeliani lo avvertirono ripetutamente: gli rasero al suolo otto palazzi tutt'intorno, gli telefonarono per dirgli "vattene, o sennò..." Non se ne andò. Era preparato: da giorni gli israeliani bombardavano ospedali, sparavano ai soccorritori; da anni facevano saltare in aria le ambulanze in Palestina. Roba che neanche la Wehrmacht. Dal telefonino di Faraj escono foto agghiaccianti, spesso di bambini, feriti dagli arti smozzicati, dalle ustioni nere che ustioni non sono, dagli organi interni seghettati o rattrappiti, dagli arti seccati e friabili come grissini, dalle lesioni senza proiettili, senza schegge. "Sono sicuro, insieme ai miei colleghi di Beirut, Sidone, Baalbek, che hanno usato armi non convenzionali. Le ustioni di superficie su corpi intatti fanno pensare al fosforo bianco: stessi sintomi di Falluja. Poi ci sono enormi ferite senza traccia di schegge e di qualsiasi impatto fisico, organi interni sminuzzati, pure senza schegge, e si devolno sospettare armi a microonde, o a energia diretta, quel "raggio della morte" che da tempo qualcuno auspica, insieme alla armi del dolore, per il controllo di manifestanti. Altre ferite si sviluppano in cancrene improvvise e ingiustificate, inarrestabili e emanano un odore mefitico, insopportabile, di marcio e queste potrebbero essere state provocate da armi chimiche. Tutto in plateale violazione di ogni convenzione e di ogni diritto. Mi auguro che a livello internazionale si vogliano intraprendere analisi che approfondiscano l'argomento e forniscano le basi per portare Israele davanti ai tribunali internazionali per i suoi crimini di guerra e contro l'umanità. Il coraggioso medico parla chiaro e con foga.
Alcuni suoi colleghi pure. Altri meno, forse tengono conto della "raccomandazione" del governo di "tacere su eventuali armi non convenzionali"... Ricordano gli occultamenti del governo di Belgrado arresa sulle patologie da uranio e chimica a Pancevo e Kraguejvac. Ma Marcello ha steso un rapporto. Intanto "Amnesty International", dopo aver rimproverato un po' Israele, ha diffuso un rapporto che accusa Hezbollah di crimini di guerra per aver sparato missili contro le città israeliane. Senza pudore. E ai governanti colonialisti e loro reggicoda di sinistra è passato sulla coscienza decomposta un brivido di soddisfazione. Un colpo al cerchio e dieci alla botte. Ma Amnesty non è quella che individua decine di prigionieri di coscienza a Cuba e neanche uno in Palestina? Non è quella che, come prima iniziativa sul massimo crimine di guerra, l'aggressione angloamericana all'Iraq, non ha che saputo definire "delinquenti" i partigiani iracheni, "perchè combattono senza uniforme"? Un bel cuscino sotto al culo dell'imperialismo, con solo qualche bozzo, di tanto in tanto.
Da tanti anni non faccio che affondare gli occhi su voragini di pena e di infamia. Sempre e solo di marca euro-israelo-atlantica. Non che non ce ne siano altre, ma stanno a quelle "nostre", anche storicamente, come una capanna a un grattacielo. Siamo quelli delle guerre di inciviltà, siamo capaci di ferocia più di chiunque sotto altri paralleli. A Sidone, nell'ospedale diretto da Ghassan Hammoud, mi aggiro con il dr. Ahmed tra i mutilati delle bombe a grappolo, mine antiuomo bandite dal consesso umano e arrivate da terre e per i cieli italiani: Camp Darby, base degli Usa per grazia di Andreotti e seguenti. Stanno, donne, uomini, bambini, rannicchiati nel dolore, intubati, le gambe ingessate, steccate, sotto tiraggio, lacerazioni rosse e blù qua e là sulle braccia, sul collo, sul ventre, qualche occhio bruciato. "Pare che finora, tutto quello che la famosa comunità internazionale è riuscita a fare sia stato lo sminamento di un 0,4% del territorio.
Sono state allagate di queste cluster oltre 480 località. La gente, i contadini, si stanno ingegnando da soli per segnalare le mine e anche per neutralizzarle. Con i pericoli che comporta l'incompetenza. A oggi, a un mese dalla tregua, le cluster hanno ucciso 13 persone e ferite oltre 80. Gli israeliani uccidono nel tempo, serial killer si direbbe. Ma tutto questo non ha impedito a 800.000 persone di tornare alle loro case, o macerie, due minuti dopo la proclamazione del cessate il fuoco". C'è una bimba di sette anni con un occhio chiuso e uno semiaperto, è fasciata come una mummia egizia, l'hanno ricuperato da sotto le macerie. E' in coma. Aveva il cervello per metà fuori dalla scatola cranica, l'avevano presa per morta e portata all'obitorio, dove qualcuno l'ha vista muovere. Il dr. Ahmed l'ha operata. Ora è in rianimazione e si spera che viva, pur con probabili danni cerebrali. Ma qui conta vivere, in ogni modo e a tutti i costi. Ogni vita riconquistata è di scorno al nemico.
Bersaglieri nel 1982, Sabra e Shatila. San Marco oggi... Talal Zalman è secco, alto, austero, fino a quando non si apre nel sorriso dei gentili e dei sinceri. Un sorriso di bambino a qualcosa come 70 anni. Da prima della guerra civile il giornale che da sempre dirige, As Safir, progressista, accanto a ogni resistenza araba, è il più corretto e prestigioso dell'area mediorientale. Ho avuto il privilegio di fargli da corrispondente da Roma sul finire degli anni '70. L'ho conosciuto quando, per Lotta Continua, riferivo di quella che veniva definita una guerra civile interconfessionale, ma che invece era un a guerra di classe tra rivoluzionari palestinesi e libanesi e l'arcaica e corrotta borghesia cristiano-sunnita teleguidata dal Mossad e capeggiata dai fascisti di Geagea e Gemayel (quelli che "Liberazione" ama intervistare senza chiose, rifiutando invece le interviste a Slobodan Milosevic, "per non appiattirsi sul dittatore", così Rina Gagliardi).
Vennero allora, nel plauso di tutti e nel sospetto di As Safir, i bersaglieri di Angioni, con i francesi e i marines. Vennero "per difendere i campi dall'invasore israeliano". Poi, coperta l'uscita dal Libano di Arafat e dei militanti palestinesi, imposta da Israele, Francia, Usa (sempre gli stessi, altro che Onu), hanno tolto il disturbo. Così Sharon - "uomo di pace" per Bertisconi -ha potuto aprire Sabra e Shatila alla mattanza dei suoi sicari falangisti. Cacciati i fedayin, massacrati vecchi, donne e bambini, insomma compiuto il lavoro della "comunità internazionale", bersaglieri, francesi e marines sono tornati a Beirut. A custodia delle fosse comuni e della sconfitta palestinese. Innocenti? Gli hezbollah non lo pensavano e almeno a statunitensi e francesii hanno fatto pagare il giusto conto: 240 marines e 60 francesi. La storia si ripete pari pari, solo che adesso la "comunità internazionale" è arrivata con mezzi da guerre stellari. Gli italiani la sfangheranno anche stavolta?
Giornalisti e coristi. Quello che la spedizione in Libano ha manifestato è l'evidenza del disfacimento delle sinistre, del loro tradimento, del loro suicidio. E dei loro media. Dal capobranco "Liberazione", talmente infeudato al cinico opportunismo entrista del monarca Bertinotti da dover essere ormai classificato tra le gazzette fiancheggiatrici di guerre, imperialismi, depistaggi verso temi oscuranti, devianti e deformanti cui viene riconosciuta una strumentale centralità (glbt, pacs, nonviolenza, globalizzazione senza imperialismo, società civile, machofemminismo), allo stesso "manifesto", imbrattato da ambiguità e veri e propri cedimenti al "senso comune", come quello Zvi Schuldiner che definisce "criminali" gli hezbollah, o quei paginoni che diffamano coloro che mettono in dubbio, insieme a uno tsunami di contestatori di altissimo livello, la verità bushiana sull'11 settembre, crocevia della fine del mondo, o quelle fanfare onusiane a favore dell'intervento in Libano, o, ancora, le pervicaci difese rossandiane dell'autenticità e autonomia dell'agenzia Cia Al Qaida.
"Liberation", il da sempre equivoco giornale filoisraeliano di Rothschild, capobanda della finanza imperialista mondiale, non per nulla sta sull'orlo della bancarotta. E' il simbolo della crisi dei media fintoradicali che il "manifesto" cerca di arginare, non raddrizzando la sua curvacea linea tra resistenze e compiacenze, ma facendo appello a uno spirito di corpo che ormai si fonda più sulla nostalgia e sul consenso di un pubblico sempre più radicalchic, di stampo bertinottiano, che su coloro che da una testatina "quotidiano comunista" si aspettano informazioni e indirizzi di verità e rottura. Voglio perciò chiudere questo racconto con le parole di uno che ha subito più attentati alla vita di quasiasi giornalista libanese: Talal Zalman, che del giornalismo ha mantenuto principi e regole che rispondono al suo dovere naturale di cane da guardia del potere, di qualsiasi natura e mistificazione sia. "Non c'è paragone con quello che il popolo arabo, in questo caso palestinese e libanese, ha subito in termini di violenza e sofferenza. Non c'è misura che possa dirci quanto la resistenza di questo popolo abia cambiato le carte in tavola a livello regionale e anche mondiale. Più aumentavano di ferocia i crimini israeliani e piu il popolo emergeva dal suo dolore e dalle sue distruzioni con la determinazione a resistere. Tanta gente è morta nelle sue case perchè non voleva lasciare la propria terra. Resistenza contro Israele, ma anche contro le congiure internazionali e la complicità di molti regimi arabi. Israele intendeva sfruttare le contraddizioni interne alla società libanese dichiarando che la sua guerra era solo contro gli sciti. Sperava di innescare una nuova guerra civile, alla maniera degli Usa in Iraq. Invece, suscitando una maturità politica insospettata, ha provocato la solidarietà tra libanesi di tutte le confessioni. I miserrimi campi palestinesi si sono aperti ai profughi, i cittadini hanno condiviso tutto con tutti.E non c'era un profugo, con il suo carico di macerie e di lutti, che non levasse la mano nel segno della vittoria. Chi lo accoglieva era orgroglioso di partecipare non a una beneficienza, ma a una lotta vittoriosa. Già oggi non c'è più un solo sfollato che non sia tornato a quel che resta di casa sua. Il popolo libanese ha perso miliardi, ha visto il suo paese raso al suolo, 50 milioni al giorno ha perso soltanto il porto di Beirut, chissà quanto le decine di migliaia di pescatori, economia fondamentale del Sud, impediti dai cannoni israeliani a rifornire la comunità di viveri. Una comunità privata di cibo, farmaci, acqua, energia, annegata nell'inquinamento dall'aria e dal mare da un attacco coscientemente genocida colntro le infrastrutture della sopravvivenza, ma anche una comunità fiera di essere stata il primo popolo arabo a resistere per 33 giorni e a vincere contro un nemico potentissimo e senza l'aiuto di nessuno. Quanto alla risoluzione 1701 e all'intervento Onu, l'abbiamo dovuto accettare, ma restiamo diffidenti. Cosa vogliono davvero? Cosa verrà dopo? Cosa significa quell'immenso dispiegamento di forze? Troppe navi, troppe truppe, troppe armi. Hezbollah non ha cacciabombardieri o incrociatori.
Ma nessuno s'illuda. Abbiamo battuto Israele non con un esercito, ma con la gente dei villaggi e delle città, con combattenti non salariati, ma motivati dalla libertà, non dall'odio razzista e dall'usurpazione come gli altri. Questa è una realtà da tener presente per il futuro, sul piano tattico, qui e ovunque, quando gli aggressori ci riproveranno. Il popolo libanese ha inventato un nuovo modo di affrontare il nemico, una lezione per tutti gli oppressi. All'Unifil converrà mantenere il ruolo che ufficialmente vanta. Così parlò un giornalista. L'ultimo saluto di Beirut ce lo danno i giovani del Partito Comunista Libanese, assembrati tra fiaccole, bandiere rosse, inni di lotta, lungo una strada centrale nel quartiere di Hamra. E' pieno di ragazze in mimetica ne magliette del Che e di Chavez. Mimetiche da combattimento, non di moda. Non sono moltissimi, ma sono giovani, avanguardie, hanno combattuto accanto a fratelli islamici che più pluralistici non si può, combatteranno. Occhio, Unifil, non ci provare. Noi, intanto, possiamo dare una mano opponendo al berlusconismo prodian-bertinottiano il rifiuto di pagare con la salute, la scuola, le pensioni, i trasporti, i servizi, la guerra ai libanesi. I compagni di qua, oltre alla verità, solo questo ci chiedono. Ogni sottrazione ai nostri diritti e bisogni e un aggiunta ai proiettili contro la libertà del Libano.
Fulvio Grimaldi
(Grimaldi attualmente non ha un blog personale. Su comedonchisciotte si può trovare una buona raccolta di suoi pezzi molto interessanti).
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