di Piero Cammerinesi
Ieri suona il campanello di casa un giovane messicano - qui in Texas quella che era la minoranza ispanica è diventata maggioranza - per una riparazione domestica.
Il giovane è sveglio e brillante. Si capisce che ha voglia di parlare, sa che sono italiano, parliamo prima in inglese ma ogni tanto scivoliamo verso lo spagnolo.
Si avventura pericolosamente in qualche frase in italiano.
Mi racconta del suo paese di origine, della miseria, della disperazione, della decisione di partire, di cercar fortuna. Della sua entrata illegale negli USA, attraverso il deserto, giorni e giorni sotto un sole implacabile, senza cibo e pochissima acqua. In agguato serpenti velenosi, scorpioni e i killer razzisti che si divertono a sparare sugli immigranti clandestini.
Poi nel sottofondo di un truck appena passato il confine. Infine, esausto di stanchezza, cade in un sonno catalettico, ma è risvegliato dalla guardia di frontiera che trova tutti i disgraziati ammonticchiati nel veicolo e li rimanda indietro.
Gli interrogatori, la detenzione, il duro viaggio di ritorno.
Ma lui non si scoraggia. Vuole venire in quello che crede essere il Paese di Bengodi e fa una richiesta formale di immigrazione. [...] Nonostante quello che è successo, la sua richiesta viene accolta. Il pragmatismo americano è emblematico - prima ci hai provato illegalmente e ti è andata male ma ora hai imparato la lezione e lo chiedi per via ufficiale, dunque sei un potenziale cittadino modello e noi ti ammettiamo nel Paese.
Così il nostro Abiel - questo il suo nome - entra finalmente nella Terra Promessa e, dopo pochi anni, è cittadino americano.
Il mito americano per lui non è minimamente scalfito dagli avvenimenti mondiali, dalla politica dissennata di questo Paese, dall’aggressività globale del sistema politico-militare-industriale a stelle e strisce.
Abiel è una foglio di carta bianco, su cui i tasti di una macchina da scrivere battono il decalogo della Terra Promessa.
Sembra di vedere un italiano dell’immediato dopoguerra, tutto sigarette Lucky Strike e Rock ’n’ Roll.
Quelli che ancora parlano della Liberazione.
Parliamo di politica, del 9/11 e di quello che è seguito. Capisce che le cose non stanno come le raccontano in TV, ma non riesce a credere che sia stato un atto intenzionale, un inside job. Gli consiglio di vedere il documentario di Massimo Mazzucco sull’11 settembre.
No, no, non ci credo a queste storie complottiste. Ma ti pare, se fossero vere si sarebbe saputo no? Sono passati 14 anni.
A un certo punto mi dice, guardandomi fisso negli occhi con aria di sfida - sa che sono un giornalista e ha capito la mia opinione sulla situazione generale della politica USA - che lui è republican.
Che? Republican? Un immigrato fresco fresco di cittadinanza, capelli nero corvino e pelle olivastra? Sei uno di quelli che mettono la bandierina a stelle e strisce davanti casa e sulla macchina? Che corre a vedere i fuochi d’artificio il 4 di Luglio cantando a squarciagola con la destra sul cuore? Non ci posso credere…ma come? Stai dalla parte di quelli che ti sparavano addosso nel deserto e che lo fanno ancora contro quelli che - come te - cercano di venire qui?
Certo, perché le leggi vanno rispettate. Io sono entrato illegalmente e mi hanno rimandato indietro. Solo dopo sono entrato legalmente. Ora ho capito come funziona. Anche questi devono rispettare le leggi e chiedere l’autorizzazione all’immigrazione, allora sì. Poi...questo Paese è tutto ciò che io ho sempre sognato e ti dico…io amo i ricchi, danno lavoro…
Ok, ma scusa, ti sembra giusto che l’1% della popolazione possieda tanta ricchezza quanto il restante 99%?
Sì certo, perché se la sono conquistata quella ricchezza.
A parte che non sempre è vero, ma poi queste persone immensamente ricche, che vivono nello sfarzo esteriore, spesso hanno una incredibile povertà interiore, lo sai questo?
Gli dico che, per lavoro, ho avuto modo di conoscere molte persone straordinariamente ricche, come, ad esempio, alcune celebrities di Hollywood. Che spesso sono persone vuote e tristi pur sguazzando nell’oro. Non mi crede, gli faccio vedere le foto in cui sono in compagnia di alcuni personaggi dello spettacolo. Per un attimo tace ma poi riparte con slancio.
No non ci credo, ma tu sei comunista? Sei come Fidel Castro?
No non sono comunista, ma credo che il capitalismo sia un sistema imperfetto; penso che dovremmo trovare un sistema che fonda le cose positive di socialismo e capitalismo separando, magari, i tre ambiti della vita sociale, culturale, giuridico ed economico.
Eh già, ma tu sei un filosofo, queste cose sono lontane dalla realtà, dimmi dove sono applicate queste tue teorie? In quale Paese del mondo?
Non lo sono ancora, ma se nessuno avesse suggerito di usare le automobili, andremmo ancora in calesse…l’idea è ciò che crea il futuro. Anche per l’imprenditore è così; prima ha l’idea e poi la realizza, no?
Per un attimo vacilla, si rende conto che anche questo sistema sociale ha delle ombre.
Beh, forse voi in Europa per certe cose siete più avanzati, per esempio la sanità…
Ecco, infatti, ti sembra giusto che chi non ha i soldi per pagarsi l’assicurazione non possa curarsi quando ha delle malattie serie?
Sì, su questo forse…
E il lavoro? Dover far due o tre lavori per vivere? Vivere per lavorare?
Beh, io lavoro dieci ore al giorno, è la cosa più importante…
Già, il sogno americano, lavorare per arricchirsi, per comprare sempre più cose, case, auto, proprietà…e poi? Non avere neppure il tempo di fermarsi a pensare. A chiedersi il senso della vita, delle scelte fatte e di quelle da fare…ti sembra giusto?
Non risponde, qualcosa lo ha colpito di questo discorso.
Continua a lavorare sulle luci del garage e io lo guardo in silenzio.
Penso alla sua storia ed a quella di milioni di esseri umani del sud del mondo, uomini coraggiosi e tenaci come lui. Questa è una terra di immigrati, di persone che, dopo averla sognata per anni, farebbero qualsiasi cosa per poterci venire.
Qualsiasi cosa.
Talmente abbacinati dalle luci di questa civiltà da non riuscire ad intravederne le ombre.
Come quegli animali che, di notte, attraversando la strada, rimangono abbagliati dai fari delle macchine e, invece di scappare, ne vengono rovinosamente travolti.
Finisce il lavoro, mi guarda, mi stringe la mano.
Come si chiamava il documentario che mi hai detto prima?
Piero Cammerinesi (corrispondente dagli USA di Coscienzeinrete Magazine, Altrogiornale e Altrainformazione)
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