Fa molto riflettere, il triste finale del padrino della mafia arrestato pochi giorni fa. A che cosa serve, ci si domanda, arrivare al top della cupola, solo per essere costretto a vivere come un brigante qualunque, nascosto fra i tacchini e le ortiche?
Ora Provenzano è in cella di isolamento, guardato a vista 24 ore su 24, senza radio giornali o TV. Pure la Bibbia che portava con sé gli hanno tolto. Ma anche prima il boss non se la passava certo bene. 43 anni alla macchia, anche se "relativa", bene o male costituiscono un prezzo non da poco per chiunque da pagare. Potrai anche muoverti liberamente da un casale all'altro, ma di certo a Londra a fare lo shopping non ci vai.
Cosa spinge persone come Provenzano a perseverare nelle attività mafiose che hanno intrapreso, anche quando diventa chiaro, un certo punto della loro vita, ... ... che il futuro non potrà mai offrirgli niente di meglio di quel poco che hanno raggranellato fino ad allora?
L'immagine oloegrafica del boss mafioso, santificata dai Puzo e dai Coppola, non sembra aver niente a che fare con la triste realtà che Provenzano ci ha rivelato in questi giorni.
Evidentemente, per una persona del genere, l'alternativa di non appartenere alla mafia non si pone nemmeno. Mafia è un modo di vita, il riconoscimento di un certo ordine di valori, una dichiarazione di appartenenza a un sistema che da sempre si contrappone, per sua natura, a quello dello stato legale.
Forse, in qualche modo, lo "stato d'animo" mafioso non è che il residuo di una atavica organizzazione tribale, dove le uniche leggi che contavano erano quelle tramandate dagli antenati, dove l'unico giudice rispetto a quelle leggi era capo del villaggio, e dove l'unica forma di giustizia riconosciuta era la condanna a morte per chi aveva tradito quella legge.
Se questo fosse il caso, bisognerebbe capovolgere completamente il "teorema corrente", che dice che la mafia esiste perchè lo stato è debole. A quel punto infatti non è certo attraverso altre leggi che si potrà combattere, né tantomeno debellare, questa forma antica di gerarchia di chiara natura territoriale: il "collante genetico" di una qualunque cultura locale, tramandata da padre in figlio, sarà sempre superiore a qualunque tentativo di correzione, per quanto legale, che arrivasse dall'esterno.
Anzi, questo non farebbe che aumentare il rischio di rafforzare proprio la capacità di coesione di coloro che vivono all'interno di quella cultura. Sarà quindi da loro stessi, e da loro soltanto, che potrà venire la soluzione del problema.
Solo quando un numero sufficiente di generazioni sarà passato, portando con sé nella tomba l'antica tradizione, mentre quelle nuove avranno saputo sostituire, passo per passo, dall'interno, quotidianamente, i nuovi valori con quelli vecchi, si potrà iniziare a parlare di "sconfitta della mafia".
Ed è soltanto attraverso l'informazione - introducendo, letteralmente, "nuovi dati" nel sistema - che si possono influenzare gli equilibri ora esistenti. Lo si fa iniziando dalle nuove generazioni, nella scuola, e approfittando di internet. Nella mafia come nella società in generale, è solo cambiando le persone che si cambierà quella società, visto che è da altre persone, venute prima di loro, che quella società è stata prodotta.
Sarà un processo relativamente lungo, e doloroso, poichè ogni ribellione del figlio verso il padre porta con sè violenza, traumi e sofferenze di ogni tipo. Ma fino a che questo processo non sarà compiuto, "aggredire la mafia", o cercare di "decapitarne la cupola" - al di là della palese ipocrisia di queste dichiarazioni - non solo sarà inutile, ma potenzialmente deleterio.
Massimo Mazzucco
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