La cosiddetta “Winter Soldier Investigation” fu una campagna di protesta condotta nel 1971 da alcuni reduci del Vietnam, che denunciarono pubblicamente i crimini di guerra e le atrocità commesse dai soldati americani in Indocina.
“Winter Soldier Iraq & Afghanistan” è una campagna simile, nata nel 2008 e ispirata a quella originale, nella quale i reduci delle guerre di Afghanistan e Iraq denunciano lo stesso tipo di atrocità e crimini di guerra perpetrati dall’esercito americano nelle recenti guerre in quei territori.
Naturalmente i grandi media ignorarono quasi del tutto la “Winter Soldier” originale, quanto hanno ignorato la sua versione più recente. Sanno bene che basterebbe passare in prima serata una testimonianza come quella che presentiamo di seguito, per vedere cambiare di colpo il volto della nazione – e probabilmente della storia stessa.
[All’interno il testo completo tradotto in italiano.
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E’ evidente che di fronte ad una lucida analisi come quella di Prysner … … non si possano più fare grandi distinzioni fra presidenti democratici o repubblicani (negli Stati Uniti), o fra governi “di sinistra” oppure “di destra” (in Europa), in quanto risultano tutti dei semplici strumenti al servizio dello stesso padrone.
Massimo Mazzucco
Segue la trascrizione completa del testo tradotto in italiano.
Mi chiamo Mike Prysner. Sono partito per l’addestramento di leva nel giorno del mio diciottesimo compleanno, nel giugno 2001. Sono stato assegnato alla Decima Divisione di Montagna, e nel marzo 2003 sono partito con la 173a Brigata aviotrasportata per il nord Iraq.
Quando sono diventato militare, ci dissero che il razzismo nell’esercito era scomparso. Una lunga tradizione di diseguaglianza e discriminazione era stata spazzata via da una cosa chiamata “Programma di Pari Opportunità”.
C’erano dei corsi obbligatori, nei quali un rappresentante si assicurava che nessun elemento di razzismo potesse riemergere fra di noi. L’esercito sembrava deciso a far scomparire qualunque sfumatura di razzismo.
Poi ci fu l’11 di settembre, e cominciai a sentire parole nuove, come “Testa di tovagliolo” e “Fantino di cammelli”, o la più sconcertante di tutte, “Negro della sabbia”. Queste parole non venivano inizialmente dai miei compagni, ma dai miei superiori, il sergente del plotone, il sergente della compagnia, il comandante del battaglione. Di colpo questi feroci termini razzisti erano diventati accettabili fino ai più alti livelli della gerarchia militare.
La maggioranza del razzismo veniva dai veterani della Prima Guerra del Golfo. Erano quelle le parole usate quando incenerivano un convoglio di civili, quando ci ordinavano la distruzione di una infrastruttura, oppure il bombardamento dei depositi d’acqua, pur sapendo che avrebbe causato la morte centinaia di migliaia di bambini. Queste sono le parole usate dal popolo americano quando ha permesso al nostro governo di imporre le sanzioni all’Iraq. Molti questo lo dimenticano. Ma noi non possiamo dimenticarlo.
Abbiamo saputo di recente di aver ucciso oltre un milione di iracheni. ma avevamo già ucciso un milione di iracheni negli anni ’90, con le sanzioni e con i bombardamenti, prima dell’invasione. Ma le vere cifre sono molto più alte.
Quando arrivai in Iraq, nel 2003, imparai una nuova parola: “Hajji”. “Hajji” era il nemico. “Hajji” era ogni iracheno. Non era una persona, un padre, un insegnante, o un lavoratore. E’ importante capire da dove viene questa parola, che abbiamo ripetuto molte volte qui a “Winter Soldier”: una delle cose più importanti per i musulmani è fare un pellegrinaggio alla Mecca, cioè “Haj”. “Hajji” è colui che ha fatto un pellegrinaggio alla Mecca. È qualcosa di assolutamente importante nella tradizione religiosa dell’Islam. Noi abbiamo preso la cosa migliore dell’Islam e l’abbiamo trasformata nella cosa peggiore.
Ma la storia non è iniziata con noi. E’ dal giorno in cui è nato questo paese che il razzismo è stato usato per giustificare l’espansione e l’oppressione. I nativi americani venivano chiamati “selvaggi“. Gli africani venivano chiamati nei modi più diversi, pur di giustificarne la schiavitù. E i veterani del Vietnam conoscono molte parole usate per giustificare la guerra imperialista. “Hajji” è la parola che usavamo in questa particolare missione che vi voglio raccontare. Abbiamo sentito di molte missioni nelle quali si buttavano giù le porte delle case e si saccheggiavano gli averi dei loro proprietari. Ma questa missione fu diversa. Non mi fu mai data una spiegazione per gli ordini ricevuti. Ci fu soltanto detto che un certo gruppo di cinque o sei case ora apparteneva all’esercito americano, e che dovevamo entrare e mandare via le famiglie che vi abitavano.
Siamo entrati in quelle case e abbiamo informato le famiglie che quelle case non appartenevano più a loro. Non gli abbiamo dato un’alternativa, nessun posto dove andare, nessuna ricompensa. Loro erano estremamente confusi e spaventati, e non sapevano cosa fare. Siccome non volevano andarsene abbiamo dovuto buttarli fuori con la forza. In una famiglia in particolare c’era una donna con due bambine piccole, un uomo molto anziano e due uomini di mezza età: li abbiamo trascinati fuori tutti, li abbiamo buttati in mezzo alla strada, e abbiamo arrestato gli uomini perché si rifiutavano di andarsene.
Abbiamo arrestato l’uomo anziano, e li abbiamo mandati tutti in prigione. Allora non sapevo che cosa succedesse alla gente quando gli legavi le mani dietro la schiena e gli mettevi un sacchetto sulla testa.
Sfortunatamente qualche mese dopo l’ho scoperto. Mancava personale per gli interrogatori, e io fui assegnato agli interrogatori. Ho assistito a centinaia di interrogatori, e ve ne voglio raccontare uno in particolare, perché in quel momento mi fu chiara la vera natura della nostra occupazione.
Dovevo interrogare questo detenuto che era rimasto in mutande, con le mani legate dietro la schiena e un sacchetto sulla testa. Non ho mai visto quest’uomo in volto. Il mio compito era di prendere una sede metallica e di sbatterla con forza contro il muro vicino alla sua testa. Lui teneva la faccia al muro, con il naso che toccava la parete, mentre un altro soldato gli ripeteva le stesse domande all’infinito. Qualunque fosse la risposta, io dovevo continuare a sbattere la sedia contro il muro.
Abbiamo continuato fino a quando ci siamo stancati. Mi fu detto di stare attento che il prigioniero rimanesse sempre in piedi contro il muro, che io ero incaricato di fare la guardia a questo prigioniero, e che il mio compito era di assicurarmi che rimanesse sempre in piedi. Io però notai che aveva un problema alla gamba, una ferita, e lui continuava a cadere a terra.
Quando il sergente tornava mi diceva di rimetterlo in piedi, e io dovevo tirarlo su e metterlo contro il muro. Lui continuava a cadere, e io dovevo continuare a tirarlo su e rimetterlo in piedi contro il muro. Ad un certo punto il mio sergente arrivò tutto arrabbiato, perchè non riuscivo a farlo stare sempre in piedi.
Sollevò l’uomo e lo sbattè più volte contro il muro, poi se ne andò. Quando l’uomo cadde nuovamente a terra, notai che usciva del sangue da sotto il sacchetto che aveva sulla testa. A quel punto lo lasciai seduto, e quando vedevo il sergente che tornava gli dicevo di alzarsi velocemente e di mettersi in piedi. A quel punto mi resi conto che mentre io avrei dovuto proteggere la mia unità da questo detenuto, in realtà stavo proteggendo questo detenuto dalla mia unità.
Cercavo di sentirmi fiero del mio lavoro, ma riuscivo solo a provare vergogna, e il razzismo non era più sufficiente a giustificare l’occupazione. Queste erano persone. Questi erano esseri umani. Da allora vengo travolto dai sensi di colpa ogni volta che vedo un uomo anziano, come quello che non riusciva a camminare e che noi abbiamo messo su una barella, dicendo alla polizia irachena di portarselo via. Mi sento in colpa ogni volta che vedo una madre con i suoi figli, come quella che ci urlava disperata che noi eravamo peggio di Saddam, mentre la cacciavamo via da casa. Provo sensi di colpa ogni volta che vedo una ragazza come quella che ho trascinato in mezzo ad una strada.
Ci hanno detto che dovevamo combattere i terroristi, ma il vero terrorista ero io, e il vero terrorismo è l’occupazione. Da sempre il razzismo nell’esercito è stato un importante strumento per giustificare la distruzione e l’occupazione di un altro paese. È stato a lungo utilizzato per giustificare le uccisioni, la prevaricazione e la tortura di altre persone. Il razzismo è l’arma vitale utilizzata dal nostro governo. È un’arma molto più importante di un fucile, di un carro armato, di un bombardiere o di una nave da guerra. Distrugge più di un proiettile di mortaio, di una bomba di profondità, o di un missile Tomahawk. Mentre tutte queste armi vengono prodotte e sono di proprietà del nostro governo, non possono fare danni senza una persona che le voglia utilizzare.
Quelli che ci mandano in guerra non devono tirare il grilletto né sparare colpi di mortaio. Loro non debbono combattere la guerra. Loro devono solo “vendere” la guerra. Hanno bisogno di una popolazione disposta a mandare i propri soldati a rischiare la vita, ed hanno bisogno di soldati che siano disposti a uccidere o ad essere uccisi senza fare domande.
Possono anche spendere miliardi per una singola bomba, ma quella bomba diventa un’arma soltanto quando i soldati dell’esercito sono disposti ad eseguire l’ordine di utilizzarla. Possono mandare soldati in ogni parte del mondo, ma ci saranno guerre soltanto dove i soldati le vorranno combattere.
La classe al potere, i miliardari che traggono profitto dalle sofferenze umane, si preoccupano solamente di aumentare la propria ricchezza, di controllare l’economia mondiale. Dobbiamo capire che la loro forza sta solo nella loro capacità di convincerci che la guerra, l’oppressione e lo sfruttamento degli altri siano nel nostro interesse.
La loro capacità di convincerci ad uccidere e a morire è basata sulla loro abilità nel farci credere che siamo in qualche modo superiori.
I soldati, marinai, i Marines, gli aviatori non hanno nulla da guadagnare da questa occupazione.
La grande maggioranza delle persone che vivono negli Stati Uniti non ha nulla da guadagnare da questa occupazione, ma anzi soffre a causa di questa. Perdiamo gambe e braccia, e diamo la nostra vita. Le nostre famiglie sono obbligate a veder seppellire bare avvolte dalla bandiera. Ci sono milioni di persone in questo paese che non hanno lavoro, assicurazione medica o accesso all’educazione, e che devono stare a guardare un governo che spende oltre 450 milioni di dollari al giorno per questa occupazione.
Poveracci e lavoratori di questa nazione vengono mandati ad uccidere poveracci e lavoratori di un’altra nazione, affinché i ricchi diventino più ricchi. Ma senza il razzismo i soldati capirebbero che hanno molto più in comune con la gente irachena che con i miliardari che ci mandano in guerra.
Io ho gettato intere famiglie in mezzo alla strada in Iraq, solo per tornare a casa e vedere intere famiglie gettate in mezzo alla strada da questa tragica e non necessaria crisi dei mutui, solo per svegliarmi e capire che il nostro vero nemico non abita in terre lontane. Il nostro nemico non è gente sconosciuta, con una cultura che non capiamo, ma è gente di cui conosciamo benissimo nome e cognome.
Il nemico è un sistema che scatena una guerra quando c’è da guadagnarci. Il nemico sono i direttori delle Corporation che ci licenziano quando gli conviene. Sono le compagnie di assicurazione che ci negano la copertura medica quando gli conviene. Sono le banche che ci portano via la casa quando c’è da guadagnarci. Se noi ci organizziamo e combattiamo insieme ai nostri fratelli e sorelle possiamo fermare questa guerra, possiamo fermare questo governo, e possiamo creare un mondo migliore.
Traduzione di Massimo Mazzucco per luogocomune.net
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