Prima di affrontare il misterioso “silenzio di Obama” su Israele, che ormai occupa le prime pagine di mezzo mondo, sarebbe utile cercare di liberarsi di certi preconcetti grossolani, sia da parte di chi vede in lui il salvatore supremo dell’umanità, sia di chi lo vede come un burattino costruito in laboratorio.
Chiunque affrontasse la questione con un minimo di realismo, capirebbe infatti che nessuna delle due tesi può essere vera in assoluto, e che la verità deve necessariamente trovarsi nella zona grigia che le separa.
Quando hai una persona che nel suo passato ha dimostrato ripetutamente di essere animato da ideali limpidi e sinceri, e la ritrovi seduta nell’ufficio ovale della Casa Bianca, la vera domanda da porsi è quanto - in quale misura, cioè - questo individuo abbia dovuto rinunciare ai propri ideali, per accomodare i poteri forti che gli hanno permesso di arrivare fino lì.
Ma che li avesse è fuori discussione (non basta certo la PNL, per scatenare in quel modo le masse travolgenti che poi lo hanno eletto), come è fuori discussione che non possa averli mantenuti intatti fino alla soglia di quell’ufficio. L’ultimo che ha creduto di poterlo fare ha trovato la risposta nei proiettili di Dallas.
E da allora, purtroppo, abbiamo visto alla Casa Bianca solo presidenti che provenivano dalle stesse fila da cui partirono quei proiettili. Le uniche due eccezioni, Jimmy Carter e Bill Clinton, hanno solo confermato che oltre un certo limite non si può comunque andare. Carter ha cercato in tutti i modi di restare fedele al suo pacifismo congenito, ma ha dovuto pagare con la pubblica gogna - che gli sarebbe costata la rielezione - l’inanità a cui fu costretto nel caso degli ostaggi di Teheran. Clinton invece, molto più astuto e opportunista, è riuscito a passare alla storia come una persona che a 25 anni partecipava ai cortei pacifisti, con tanto di spinello e barba lunga, mentre a 50 ordinava di sganciare bombe all'uranio impoverito sui bambini jugoslavi.
Cosa sia accaduto nel frattempo, rimane un mistero che forse solo lui potrà spiegare.
Eppure, anche di fronte a questa contraddizione monumentale, ... ... non si può affermare in modo semplicistico che Clinton “abbia tradito i propri ideali per arrivare al potere”. Proprio perchè abbiamo stabilito che i compromessi sono necessari, bisognerebbe valutare l’insieme del suo operato, e vedere se per caso, in otto anni di presidenza, sia riuscito a realizzare anche qualcosa di positivo, magari proprio “in cambio” di quella guerra “inevitabile”.
Bisogna infatti sapere, a sua volta, in che modo gli sia stata presentata quella guerra dai militari che l’avevano preparata, e quanto “inevitabile” fosse quindi l’intervento armato che lui alla fine ha sottoscritto.
Sia chiaro, non sto in alcun modo cercando di assolvere Clinton: una guerra rimane una guerra, e chi la autorizza commette un crimine imperdonabile in ogni caso (D’Alema, in questo, gli fa ottima compagnia). Dico solo che non abbiamo informazioni sufficienti per valutare il comportamento dei singoli individui, all’interno di situazioni così complesse come una guerra nei Balcani. E’ assolutamente possibile, infatti, che Clinton abbia fatto buon viso a cattivo gioco, trovandosi incastrato in una trappola senza uscita, ottenendo magari mano libera su un altro fronte, come ad esempio la questione palestinese.
Non dimentichiamo infatti che proprio alla fine del suo mandato, Clinton era quasi riuscito a far suggellare uno storico accordo fra palestinesi e israeliani, che solo la testardaggine di Arafat riuscì a far deragliare all’ultimo momento. Si potrà argomentare finchè si vuole sui termini di quell’accordo, ma nessuno può negare che oggi, se Arafat l’avesse firmato, milioni di suoi concittadini vivrebbero in un vero e proprio paradiso, rispetto all’inferno in cui sono ormai condannati a languire, se non a estinguersi del tutto.
L’artefice di quell’accordo si chiamava William Jefferson Clinton, e oggi curiosamente è proprio sua moglie, nelle vesti di Ministro degli Esteri, che ritorna da quelle parti. Potrà essere un caso, certamente, e i motivi che hanno portato Obama a scegliere lei possono essere del tutto indipendenti dal Medio Oriente. Di fatto però fu proprio Hillary Clinton l’unico personaggio “di alto rango” dell’amministrazione USA a dichiararsi apertamente a favore dei “due stati contigui e indipendenti”, nel suo ultimo viaggio in Israele. (Non facciamoci confondere, perfavore, dalla retorica elettorale dei mesi scorsi, piena di strombazzate pro-Israele da parte di chiunque avesse un microfono fra le mani. Una cosa sono le parole dal pulpito, intese a raggranellare ogni voto possibile – e a tranquillizzare, in certi casi, segmenti particolarmente “sensibili” dell’elettorato - ben altra sono le azioni messe in pratica una volta iniziato a governare. Se i Clinton erano arrivati, 10 anni fa, ad un soffio dalla firma di un accordo di quella portata, significa che l’intento da parte loro c’era stato, e pure tutto).
A sua volta Obama ha dovuto andare in Israele, indossare il cappellino locale, e baciare un muro ritenuto importante da chi abita da quelle parti. Obama ha anche fatto un discorso, trasmesso in mezzo mondo, nel quale ha confermato in modo inequivocabile l’appoggio degli Stati Uniti all’ “amico e alleato Israele”. Ma l’abbiamo visto molto più contento e gioioso, se proprio vogliamo guardare, in mille altre occasioni.
Pensare che un qualunque candidato alla presidenza possa evitare una sceneggiata del genere è da ingenui, e pensare che possa permetterselo uno che ha già i suoi problemi in casa propria, a causa della pelle non proprio luminosa, lo è ancora di più.
Non si capisce peraltro perchè dovremmo prendere per buone certe frasi “diplomatiche” dei candidati, mentre accogliamo con totale scetticismo ogni loro promessa verso di noi.
Se mentono a noi con quella faccia di palta, perchè mai dovrebbero essere sinceri fra di loro?
E’ chiaro quindi che ogni frase ed ogni gesto dei candidati vada interpretato in luce del rapporto specifico che esiste in quel momento fra le loro aspirazioni e le necessità - o le paure - di chi dovrebbe dargli ii voto.
Quando Hillary Clinton era in lizza per la presidenza, Obama era “impreparato”, “discontinuo” e “inaffidabile”. Oggi è il più grande leader della storia, che risolleverà con mano ferma le sorti della sua nazione. Quale delle due affermazioni è vera? Nessuna, ovviamente. Dove sta la verità? In una gradazione qualunque fra i due estremi.
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In luce di tutto questo, proviamo ad analizzare i pochi segnali che siamo riusciti a cogliere, riguardo alla crisi palestinese e ad un silenzio di Obama che diventa ogni giorno più “rumoroso”.
Prima di tutto, dobbiamo ricordare l’infelice “profezia” di Joe Biden, colta per caso dai cronisti dietro le quinte di un comizio. “Scommetto che entro sei mesi dall’inaugurazione – disse Biden ai presenti – Obama dovrà affrontare una grave crisi internazionale, creata appositamente per metterlo alla prova”.
Ora, non si conoscono molti gruppi di potere, nè certamente nazioni, che si dilettino a scatenare crisi a comando, solo “per vedere la faccia che fa” la persona coinvolta. Mentre bisogna riconoscere che Israele ha sviluppato, nel corso dei decenni, una straordinaria abilità nel far partire i razzi palestinesi proprio quando la cosa gli tornava più comoda.
Chiunque conosca la storia di Israele, infatti, sa bene che i sionisti hanno sempre visto con diffidenza qualunque accordo con i palestinesi – Oslo, per loro, fu l’orrore degli orrori – trovando regolarmente il modo di farli arrabbiare, alla vigilia di qualunque stretta di mano importante. (A loro volta, i palestinesi appaiono talmente stupidi, nell’abboccare ogni volta in modo così clamoroso, da legittimare il sospetto che fra i loro ”leader” si nasconda qualcuno con intenti ben diversi da quelli dichiarati).
Ma soprattutto, dobbiamo tener presente che l’unica “pace” che cercano davvero i sionisti, al di là delle parole, è quella che regnerebbe nella Grande Israele (l’antico sogno, mai tramontato, dei “padri fondatori”), una volta partito – o sepolto - l’ultimo palestinese che abbia mai camminato su quella terra.
Non ci sono alternative nella loro mente, e non si può nemmeno pensare di iniziare a inquadrare la questione palestinese, se non si tiene conto di questa premessa fondamentale.
Ecco perchè la soluzione del problema può venire solo dall’interno di Israele: finchè i sionisti staranno al governo, continueranno ad usare l’esercito nel modo criminale in cui lo hanno usato fino ad oggi, e nulla potrà fermarli.
C’è però una parte di israeliani che da tempo si oppone al genocidio dei palestinesi. Che lo faccia per motivi etici o per paura delle bombe poco importa: di fatto esiste una quota sostanziale di israeliani – rabbini compresi – che vorrebbe arrivare ad un accordo di coesistenza pacifica dei due popoli. Sono però una minoranza, che non riesce a crescere a causa della continua propaganda interna – ancora più feroce di quella internazionale – che li soffoca sul nascere: provate voi a sostenere la necessità di un accordo pacifico, quando siete circondati da immagini, discorsi, filmati, urla, proclami e manifestazioni che dipingono sistematicamente l’arabo come un animale assetato di sangue.
E’ quindi necessario, prima di tutto, trovare il modo di aiutare questa minoranza a diventare una maggioranza.
Anche perchè dall'esterno, oggi, si può fare molto poco. Per troppi anni i sionisti hanno avuto mano libera nel compiere alla luce del sole crimini che una volta, se non altro, cercavano di nascondere agli occhi del mondo, e ci vorrà del tempo prima di capovolgere in qualche modo questo meccanismo perverso.
Otto anni di macinamento mediatico, nei quali chiunque assomigli ad un arabo rischia di ritrovarsi “collegato ad Al-Queda”, hanno permesso all’occidente di chiudere anche il secondo occhio, che già osservava controvoglia il genocidio in corso.
Per otto anni Bush ha finto di redarguire i propri alleati, che nel frattempo occupavano molte posizioni importanti nella sua amministrazione, dando di fatto il beneplacito per la costruzione di un muro che ha sepolto per sempre i sogni residui di una nazione palestinese.
Nel frattempo i neocons hanno avuto il loro tornaconto, imperversando in maniera vergognosa, sia nel mondo che in casa propria, protetti dalla scusa della “guerra al terrorismo”.
Non a caso il nome in codice dell’operazione 11 settembre era “Il Grande Matrimonio”. Mentre i cronisti tutto il mondo, in quelle ore, si domandavano chi potessero essere i responsabili, da Tel Aviv un Nethaniahu vistosamente impaziente ci faceva sapere con grande certezza che “è ora di dire basta al terrorismo islamico, che da oggi ha dimostrato di saper portare morte e distruzione ovunque nel mondo”. Gli faceva eco, poco dopo, Shimon Perez, mostrando altrettanta certezza sui responsabili, e pari deteminazione nella volontà di sterminarli.
Erano circa le quattro del pomeriggio: dalle macerie delle Torri Gemelle arrivavano ancora le urla dei pochi sopravvissuti al crollo, mentre l’Edificio 7 non aveva ancora nemmeno raggiunto la temperatura critica a cui si sarebbe fusa la fatidica colonna 79. Ma loro sapevano già con certezza chi fosse stato.
Quello che è successo nei giorni, nei mesi, e negli anni seguenti, lo sanno tutti coloro che hanno avuto la forza e la costanza di guardare.
Dopo un sistematico sterminio di massa, nel quale interi campi profughi venivano rasi al suolo come inutili formicai, oggi i palestinesi sono ridotti a vivere in sacche di territorio tanto insensate dal punto di vista logistico quanto disumane dal punto di vista personale. Quando un ragazzo deve fare due ore di coda al check-point per andare a scuola – nel proprio paese - e altrettante per tornare a casa, vuol dire che per lui la vita ha perso ogni significato.
Nel frattempo Gerusalemme è stata circondata da un enclave talmente fitto di colonie che da una parte la protegge in maniera impenetrabile, dall’altra taglia definitivamente fuori i palestinesi dai traffici con la capitale, azzerando del tutto il già scarso valore dei loro prodotti agricoli.
Quelli che resteranno, se ne resteranno, saranno ridotti al rango di schiavi.
Ma a quella fase bisogna ancora arrivarci, è Israele sembra improvvisamente colta da una fretta furibonda di chiudere in qualche modo la partita.
Diventa quindi difficile sostenere che questa fretta non sia in qualche modo collegata alll’imminente cambio di guardia a Washington, ed è ancora più curioso che Ehud Barak abbia sentito il bisogno di citare proprio la frase pronunciata da Obama (“se lanciassero dei razzi contro la stanza in cui dormono le mie figlie farei tutto il possibile per difenderle”) a giustificazione di una reazione armata che non ha nulla di diverso da quella che Israele mette sistematicamente in atto da decenni, ogni volta che i palestinesi si azzardano a lanciare qualcosa di fumante oltre la barricata.
Si chiama
excusatio non petita, e in questo caso non solo denuncia una anomala coda di paglia da parte di Israele, ma porta a domandarsi perchè mai sia proprio con le parole di Obama che Israele voglia avallare le sue azioni più recenti.
Forse per rendergli più difficile un’eventuale presa di posizione più distante dalla loro, una volta entrato alla Casa Bianca?
Nella stesa luce va infatti letto anche il patetico tentativo di un presunto leader di Hamas, che dalla TV (libanese) ha finto di insultare Obama “perchè non interviene” a favore dei palestinesi. A questo va aggiunto il
provvidenziale messaggio del “solito” Al-Zahwari, che si è messo a rampognare Obama proprio per lo stesso motivo, dimenticandosi completamente che solo un mese fa lo aveva accusato di essere un negro venduto alla causa dei padroni bianchi. (Voglio dire, se è venduto ai padroni bianchi, perchè stupirsi se poi non interviene per gli schiavi scuri? Casomai dimmi "visto che avevo ragione?", e torna a casa tua. Ma non farmi di nuovo lo stupito, perchè a questo punto non ti crede più nemmeno il mio cane).
Sarà un caso, infatti, ma anche questo messaggio di Al-Zahwari è stato miracolosamente recuperato dal
SITE Intelligence Group, una curiosa organizzazione che combatte il terrorismo, e si vanta apertamente di offrire informazioni sui gruppi terroristici “non reperibili altrove”. (Mai una volta che Al-Queda mandi queste cassette alla redazione di Novella 2000, piuttosto che a Panorama: avvisa sempre il SITE, un nemico dichiarato, e poi “sparisce” regolarmente dal server che li ospitava).
Sembra quindi evidente il desiderio di Israele di “stanare” con ogni mezzo a disposizione Obama dal suo silenzio, obbligandolo a schierarsi apertamente dalla loro parte prima del discorso inaugurale.
Cosa avranno da temere da lui, che li ha portati ad agire così frettolosamente - guadagnadosi il disprezzo del mondo intero – nelle ultime settimane in cui Bush gironzola intorpidito per la Casa Bianca?
Come avranno interpretato in Israele il silenzio di Obama, con il coro mondiale che cantava in loro favore, da dover sentire così fortemente la mancanza del suo giudizio?
La risposta precisa, naturalmente, l’avremo solo con il tempo. E’ però interessante notare cosa ha risposto un portavoce di Obama, alla millesima volta che un cronista gli chiedeva perchè il futuro presidente taccia su Israele: “Come Obama ha già spiegato, c’è un solo presidente per volta. E non vogliamo dare al mondo l’impressione che la politica estera americana sia contraddittoria”.
Oooops! Scivolone freudiano, o avviso ai naviganti?
Da parte sua Obama, pressato ormai costantemente dalla stampa, ha dichiarato oggi che sin dal primo giorno affronterà la situazione del Medio Oriente in modo radicale e prioritario, con la finalità di portare al più presto alla soluzione dei problemi nella regione. Non ha specificato di chi.
Sia chiaro, nessuno si aspetta che Obama, nel suo discorso inaugurale, denunci pubblicamente gli “amici e alleati di Israele”, e nemmeno pronuncerà, probabilmente, una sola frase che contenga il nome di Israele.
Sarebbe però interessante sentirsi dire, ad esempio, che da oggi tutte le nazioni devono impegnarsi a rispettare le leggi internazionali, nell’interesse di un equilibrio collettivo, per capire che il famoso “veto automatico”, che gli Stati Uniti pongono sistematicamente al Consiglio di Sicurezza, proteggendo Israele da qualunque risoluzione contro di loro, non sia più da considerarsi un fatto scontato.
In fondo, non dimentichiamolo, è sempre l’America a sostentare Israele, sia militarmente che economicamente. Quelli possono minacciare quello che vogliono, ma se l’America decidesse di chiudere i rubinetti, gli amici sionisti hanno finito di fare i gradassi, soprattutto in casa loro.
Altrettanto si dica per l’Europa, che ha sul tavolo già da tempo la complicata richiesta di Israele di entrare nell’Unione, ha in questo momento la rara possiblità di pretendere da loro qualcosa in cambio, prima di accettarli.
Perchè allora – ci si domanderà – tutto questo non accade?
La risposta, a mio parere, è di sottile natura psicologica: esattamente come i neocons contavano sullo sdegno popolare, contro chiunque volesse mettere in dubbio la vera natura degli attentati alle Torri Gemelle, oggi nessuno osa aprir bocca contro Israele, perchè sa che verrebbe immediatamente ricattato dalla classica accusa di antisemitismo, amplificata e supportata da un coro mondiale.
In altre parole, finchè Israele può contare sullo ”scandalo a comando”, nel quale tutti i media occidentali scattano all’unisono contro il “nemico di Sion”, nessuno avrà sufficienti vantaggi personali da rischiare l’ondata di ostracismo che gli deriverebbe sicuramente da una tale presa di posizione.
Un paziente lavoro dietro le quinte, però, potrebbe smontare almeno in parte quest’arma di cartone, convincendo l’Europa a prepararsi per dire basta tutti insieme, in maniera certo delicata, ma anche chiara ed efficace.
Solo togliendo la spina al ricatto mediatico – non a caso esercitato sempre con grande tempismo dai sionisti – si può pensare di ridare coraggio alla minoranza di israeliani favorevoli alla convivenza con i palestinesi, dando nel frattempo al mondo una compattezza sufficiente per estirpare una volta per tutte il cancro del sionismo.
Dipende sempre dal tornaconto di ciascuno, e non certo dai principi morali, ma le armi per porre fine al ricatto, volendo, ci sono tutte, e la situazione sembra in qualche modo matura per farlo. (Fra l’altro, non si vedono particolari motivi per cui la Russia dovrebbe opporsi a questo tipo di strategia. Anzi).
In conclusione: se io fossi al posto di Obama, per un lavoro così complesso e delicato cercherei una persona che conosca già bene i più importanti leader mondiali (anche per non andare a disturbare inutilmente quelli sbagliati), e che conosca altrettanto bene la questione palestinese, dopodichè le offirei il posto di Ministero degli Esteri.
Forse tutto questo è solo un’illusione, ma diversi indizi mi permettono almeno di coltivarla con un barlume di speranza.
Massimo Mazzucco