Non sono solo i nostri ragazzini a tornare a scuola in questi giorni. Anche gli iracheni fanno vacanza d’estate, e tornano a scuola in autunno. O meglio, dovrebbero tornare.
Pare infatti che si stia registrando, in tutte le scuole del paese, un inatteso numero di defezioni, dovute in qualche modo all’escalation della violenza che nell’ultimo anno ha raggiunto picchi mai conosciuti prima.
All’inizio dell’invasione, nel 2003, leggevamo con ansia la singola notizia di un paio di soldati americani ... ... morti in una esplosione, insieme magari a mezza dozzina di civili iracheni. Nell’estate appena trascorsa la media di morti per attentati si è stabilizzata su un centinaio al giorno, e ormai non ci fa più caso nessuno.
Ma ora gli effetti negativi della guerra civile, scatenata intenzionalmente dagli americani (che da tempo sognavano un Iraq diviso in tre regioni), cominciano a farsi sentire anche sul lungo termine.
L’attuale calo del numero di studenti – il Ministero Iracheno parla del 15% circa, mentre sarebbero oltre tremila gli insegnanti o morti o fuggiti all’estero – non potrà che riflettersi su nuove generazioni meno preparate e quindi, nuovamente, più facili da controllare.
A risentire del nuovo clima di violenza sono soprattutto gli abitanti sunniti del quartiere di Adhamiya, che è stato praticamente recintato da un muro di cemento in perfetto “stile Palestina”, con tanto di check-points in entrata e in uscita. Dei ragazzini che prima impiegavano cinque minuti per andare a scuola, ora ci mettono più di un’ora a fare lo stesso percorso, mentre lo stress dei check-points e il rischio di incappare in una qualunque esplosione sono talmente alti, che molte madri hanno scelto di tenere i figli definitivamente a casa.
Le due cartine di Baghdad mostrano la diffusione delle due etnie prima e dopo l’invasione americana: in celeste le zone a maggioranza sciita, in rosso quelle a maggioranza sunnita, in giallo le zone miste (Adhamiya nell'ovale):
Come si può vedere, sciiti e sunniti si sono fortemente polarizzati in aree separate, riducendo visibilmente la zona della città in cui ancora riescono a convivere. Prima vivevano tutti d’amore e d’accordo.
Eravamo venuti a portare democrazia, abbiamo finito per alzare un altro muro, trasformando la “rimozione del tiranno Saddam” in uno dei maggiori crimini dell’era moderna.
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Ma forse, a questo punto, siamo noi che ci inganniamo. Forse il vero significato di “democrazia” è proprio questo: una parola vuota, uno strumento ambiguo da usare secondo convenienza, che appare candido e puro da un lato, ma che dall’altro serve a ricoprire le stesse infamie, gli stessi abusi e le stesse prevaricazioni di sempre.
I nostri governanti – anzi i nostri politici in genere, destra e sinistra spudoratamente unite nel loro servilismo verso i “liberatori” – non potevano non sapere che ci stavano trascinando in un vero e proprio genocidio, quando hanno scelto di fare parte della coalizione guidata dagli Stati Uniti. Ci hanno quindi ingannato, parlandoci di “missione di pace”, e lo hanno fatto consapevolmente. (Se per caso invece “non lo sapevano” – come qualcuno potrebbe suggerire - dovevano prima di tutto protestare a voce alta, poi ritirare subito le nostre truppe, e infine dimettersi per dimostrata incompetenza).
Invece sono tutti lì, e noi continuiamo a votarli, come se il nostro voto e le azioni da loro compiute fossero due cose separate e indipendenti.
Massimo Mazzucco
VEDI ANCHE: “Il muro infinito”. Dalla Palestina a Rio de Janeiro, un’ideale – e non soltanto – parete di cemento marca sempre più visibilmente la separazione fra i privilegiati e le moltitudini affamate del pianeta.
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