«Bisogna trovare un punto di equilibrio tra le responsabilità degli individui e quelli dei governi e delle società. Non è accettabile lasciare che gli individui siano i soli responsabili per la loro obesità. E’ essenziale che l’azione intrapresa [dai governi] sia ben inserita all’interno del contesto culturale di ciascun paese o regione, così come è essenziale che sia riconosciuto il piacere offerto da una dieta sana e dall’attività fisica».
Nel novembre del 2006 i paesi europei membri dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) si sono riuniti in Turchia per un summit dedicato all’obesità [1]. Al termine dei lavori tutti i ministri della sanità presenti hanno sottoscritto il documento che lancia l’ennesima campagna mondiale dedicata, in questo caso, alla lotta al sovrappeso. Obiettivo dell’OMS quello di riuscire, attraverso politiche non meglio specificate, nell’obiettivo di invertire la tendenza all’aumento del numero di obesi entro 4 o 5 anni.
La determinazione è tale da ventilare l’ipotesi di andare oltre le campagne informative, l’educazione scolastica, le norme a difesa dei minori ... ... (cibi salutari nei distributori e nelle mense scolastiche e “fascia protetta” dalle pubblicità di snack ipercalorici), l’obbligo di etichette più oneste o gli sgravi sull’attività sportiva per i minori introdotti dalla finanziaria Prodi. I ministri mondiali hanno infatti sottoscritto la necessità di «trovare un punto di equilibrio tra le responsabilità degli individui e quelle dei governi». La forma fisica, infatti, sembra non essere più essere una questione unicamente privata (legata alla salute, alla funzionalità dell’organismo, alla minor incidenza di malattie e al biasimo sociale) in quanto a quanto pare lede lo stato, e quindi la collettività, due volte. Da una parte, ha sottoscritto il ministro Livia Turco a novembre, il soggetto obeso incide direttamente sui bilanci pubblici: «L’obesità e il sovrappeso negli adulti sono responsabili della spesa sanitaria nella regione europea per una quota che arriva fino all’8%», 6% della Spesa Pubblica e 1% del PIL (in Italia il 9% degli adulti sono obesi, il 34,7% sovrappeso). Dall’altra, «[obesi e sovrappeso] comportano costi indiretti, conseguenti alla perdita di vite umane, di produttività e guadagni correlati, che sono almeno il doppio dei costi diretti». Insomma l’obeso “va troppo piano”, e contribuisce in maniera insufficiente a “far girare l’economia”.
Per queste ragioni, evidentemente, «non è accettabile lasciare che gli individui siano i soli responsabili per la loro obesità» (“holding individuals alone accountable for their obesity should not be accepted”). Essi costano, e producono meno. Tradotto, il cittadino rischia di perdere il diritto di poter essere obeso. E’ probabilmente un dovere dello stato quello di informare il cittadino, suggerendo i comportamenti positivi per la sua salute, arrivando anche a “proteggerlo” dalle forze speculative più seducenti e potenzialmente dannose, al limite con forme di tassazione del junk food per coprire parte dei costi riconducibili all’obesità (come per le tasse sulle sigarette, che coprono in buona parte le spese per patologie connesse), anche se spesso il junk food è praticamente l’unico cibo alla portata di certi tipi di portafoglio. Se una vera informazione e una vera educazione (per non parlare della revisione degli stili frenetici di vita) continueranno a non bastare, però, veniamo a scoprire lo stato dovrà provare ad essere più convincente nel far valere le sue ragioni.
Certo, rassicurano gli esperti, «in una non trascurabile percentuale di pazienti [la malattia sarebbe] frutto di alterazioni dei sistemi di neurotrasmissione» tanto che «in futuro potrebbero essere individuati 'cocktail di farmaci' personalizzati, sempre meno dannosi e in grado di curare anche i disturbi connessi all'obesità» come il Rinombant. Poco importa che, secondo i test, il calo ponderale reale (al netto dell’effetto placebo) si sia dimostrato del 2,5% su base annua: un’interessante occasione di profitto per la Avertis, giocato sul solito rovesciamento tendenzioso del rapporto causa effetto per cui non si considera la possibilità che le “alterazioni dei sistemi di neurotrasmissione” possano essere sintomo di fattori psicologici, o un adattamento dell’organismo ad una particolare condizione fisiologica, piuttosto che cause meccaniche delle patologie. [2]
La molla che forse potrebbe mettere tutti gli europei a dieta, creando una sorta di fantozziano stato etico-salutista, è stata però ipotizzata da Tony Blair. Secondo il primo ministro inglese la sanità pubblica potrebbe negare le cure a chi si rende colpevole di stili di vita dannosi, rifiutando alcuni tipi di intervento a determinate categorie di cittadini (fino a quando, dopo un trattamento adatto, non si ripresenteranno in condizioni più favorevoli alla buona riuscita dell’intervento), inserendo obesi e fumatori in coda alle liste di attese, facendo pagare ticket e extra. Questo anche perché, secondo il governo inglese, le campagne informative ed educative intraprese hanno dato risultati insufficienti e il cittadino imprudente ha bisogno, in sostanza, di un castigo economico.
«Quello che viene presentato come un nuovo approccio alla salute è dettato in realtà dalle difficoltà sempre crescenti delle casse della sanità pubblica, che non ce la fa più a far fronte a tutte le richieste e che è costretta ad operare delle scelte» spiega Repubblica. «Per far digerire quella che si annuncia come una vera e propria rivoluzione, dato che fino ad oggi tra i capisaldi dell'assistenza sanitaria c'era il principio che non si può fare alcuna discriminazione tra malati e malattie, Blair ha coinvolto i cittadini formando dei focus group che a marzo renderanno note le conclusioni del loro lavoro. Curare l'obesità oggi costa 10 miliardi di euro l'anno; le malattie contratte in conseguenza del fumo costano più di 20 miliardi. Ai cittadini è stato chiesto: ‘Se tu fossi un ministro, che cosa faresti?’» [3]
Lo slogan è stato tanto forte che Livia Turco, Ministro della Sanità, si è sentita in dovere di rispondere prendendo le distanze dalla proposta di Blair considerata una «via drastica, quasi vendicativa o comunque di stampo giustizialistico nei confronti dei cittadini, che sembra non tener conto dei molteplici fattori economici, sociali, mentali che stanno quasi sempre dietro un comportamento a rischio per la propria salute». [4]
Certo la spesa pubblica legata agli stili di vita scorretti è anche per il ministro Turco insostenibile: probabilmente la ricchezza prodotta servirà ad altro, o meglio ad altri. «Quasi nove decessi su 10 e oltre il 75% della spesa sanitaria in Europa e in Italia, secondo l'Organizzazione mondiale della sanità, sono causati da diverse malattie legate ai cattivi stili di vita. Disturbi cardiovascolari, tumori, diabete, malattie respiratorie croniche, disturbi mentali e muscolo-scheletrici - ricorda la Turco - sono i sei killer più pericolosi per la nostra salute, responsabili del 77% degli anni di vita persi in buone condizioni psicofisiche. Ma sono anche ampiamente prevenibili grazie a stili di vita salutari».
Tuttavia l’approccio della Turco è più “sociologico”: «le malattie da cattivi stili di vita colpiscono maggiormente le classi sociali meno abbienti, le più esposte al bombardamento mass mediatico e meno ricettive a messaggi salutari».[5] Non pervenuta né dibattuta l’idea che il cittadino voglia volontariamente sgarrare, né che questo possa essere un suo diritto; si riconosce però che l’obesità è una condizione da valutare con parametri più complessi che il semplice concetto di colpa, e che lo stato non ha il diritto di intervenire.
Per il ministro Turco, quindi, è sufficiente insistere con le campagne informative: lo stato, in Italia, non è ancora pronto per «trovare un [nuovo] punto di equilibrio tra le responsabilità degli individui e quelli dei governi». Ma per quanto?
Il “problema” è che il ragionamento di Blair sembra formalmente corretto e rischia di avere abbastanza presa sull’opinione pubblica, almeno se si riconosce che esiste una disperata necessità di ridurre le spese dello stato, diminuendo il prelievo fiscale e accantonando di pari passo tutte quelle ragioni politiche, etiche e sociali, che hanno portato alla costruzione di uno stato sociale basato sulla solidarietà nei confronti della collettività e su una certa spinta universalistica, almeno riguardo ad alcuni diritti ritenuti basilari. Se la sanità pubblica, non a scopo di lucro, alla portata di tutti e rimborsata dai cittadini in proporzione ai loro averi, è un diritto, spiega Blair, ci deve essere anche un dovere del cittadino che mette in gioco qualcosa di suo. Fino ad oggi bastava il pagamento delle imposte e il rispetto delle leggi: da domani, probabilmente, sarà un dovere quello di comportarsi bene, mangiare frutta e verdura, non fumare, impegnare le pause pranzo in demenziali sedute di fitness simili alle olimpiadi per grassi gerarchi di fascista e fantozziana memoria. Rimane aperto il “come” e il “quanto” valutare l’adesione allo stile di vita, ma l’impianto complessivo sembra convincente. D’altra parte siamo il popolo “altruista” del “io sono fertile, se tu non lo sei è un problema tuo”, con tanto di linguaccia infantile, che abbiamo avuto il piacere di conoscere all’ultimo referendum: un etto al di sotto del limite diventerà un’occasione di vanto, e perché pagare il lettone d’ospedale del vicino peccatore? Paradossale e beffardo, è compito dello stato addirittura quello di far «riconoscere il piacere offerto da una dieta sana e dall’attività fisica». Speriamo ce la facciano.
Se le tasse su sigarette e alcolici permettono di coprire (integralmente secondo alcuni, parzialmente per altri) le spese per patologie per cui fumo e alcol sono concause, una forma di prelievo simile non esiste obesi e sovrappeso e non è considerata l’opportunità di una tassa sul “junk-food” (cibo spazzatura). Con i dovuti ammortizzatori, insomma, un progetto simile potrebbe anche essere accettato di buon grado.
Certo, una volta che si permette allo stato la possibilità di frugare negli stomaci e nei carrelli della spesa dei cittadini imponendo con il ricatto lo stile di vita corrente, esiste la concreta possibilità che esso arrivi ad imporre comportamenti o trattamenti più discutibili ma accettati dall’opinione pubblica, in un domani molto prossimo, grazie alle campagne propagandistiche e all’azione di pseudo-scienziati prezzolati. Come, negli Stati Uniti, l’utilizzo di forme di Trattamento Sanitario Obbligatorio, magari raggiunto tramite ricatti e terrorismo, per sindromi discutibili come l’ADHD, l’iperattività dei bambini, curata con psicofarmaci che recentemente la FDA (Food and Drug Administration) ha definito in grado di «provocare gravi complicanze cardiache e problemi psichiatrici anche in bambini sani, inclusi ictus e morte improvvisa» (chiedendo per ora una revisione delle avvertenze sulle confezioni).
Ma questa è fantascienza, anche se accade dall’altra parte dell’oceano.
La dottrina Blair arriverà anche in Italia? Probabile.
Certo erano belli i tempi in cui lo stato si limitava ad informare e a difendere i cittadini e, una volta coscienti e vaccinati, li lasciava sbagliare pronto a riaccoglierli, solidaristicamente, almeno per le ultime cure nella camera di un ospedale pagata da qualche anonimo cittadino “generoso”. In un futuro di intransigenza e di individualismo dobbiamo forse prepararci a scontri tra fumatori e salutisti, a colpi bassi tra lobby degli istruttori di palestra e comitati “fat pride”, a battaglie giocate sui centimetri, a schermaglie fra bravi e cattivi ragazzi. Far rotolare il compagno di corsia già dal letto è coerente con l'epoca in cui ci stiamo sollazzando, d'altra parte.
Certo, se si potesse evitare, ci risparmieremmo l’ennesima guerriglia fra impoveriti. Evitando nuovi apartheid, potremmo tornare a considerare l’idea di costruire un mondo più sereno, e chissà che non ne arrivi a trarre giovamento anche la salute.
Andrea Franzoni (Mnz86)
[1] Trad. Istituto Superiore Sanità
[2] ADN Kronos
[3] Repubblica.it
[4] La Stampa
[5] ADN Kronos