Ovvero, come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare il mutuo
di Ashoka
Capitolo 3 Nascita del debito pubblico e fallimento dello Stato
Una buona notizia proveniente dai confini fornì l'occasione che il Capovillaggio aveva invocato. L'esercito di una delle potenze nemiche aveva infatti tentato una scorreria ma era stato prontamente affrontato e distrutto dalle truppe del valoroso generale Ezio, deceduto, purtroppo, durante lo scontro...
Il Capovillaggio pensò che quella battaglia vinta e quel generale morto da eroe avrebbero potuto allontanare la crisi e salvare la patria una seconda volta... La settimana seguente si tennero i funerali di Ezio ed il Capovillaggio annunciò che per celebrare il salvatore della patria e ricordare la sua grande vittoria, le monete cittadine sarebbero state riconiate, gratuitamente, con il ritratto del generale vittorioso.
La città esultò con un solo grido.
Nei giorni seguenti la zecca lavorò a pieno regime per riconvertire tutte le monete. Quasi tutti i cittadini si misero in fila, per poter ricevere le nuove monete “della vittoria” ed omaggiare l'eroismo del loro generale. Come ebbe modo di dire il Capovillaggio, pagare con le monete vecchie sarebbe stato “antipatriottico” e così non le conservò praticamente nessuno.
Ognuno ricevette indietro dalla zecca lo stesso numero di monete che aveva portato, ognuna con l'immagine di Ezio su di una faccia e la parola Vittoria scolpita nell'argento sull'altra. Il peso della moneta era lo stesso di prima ma, all'insaputa dei cittadini, era cambiata la composizione: laddove prima vi era argento puro ora c'era una lega costituita, in parte, dal rame.
La conversione non aveva comportato costi “visibili” alla popolazione ma presto le conseguenze si sarebbero fatte sentire.
Mario portò 200 monete d'argento alla zecca, perché fossero riconiate. Con la lega di argento e rame ne furono create 250, di cui solo 200 tornarono a Mario. Il resto fu prontamente depositato nelle casse del governo, che tornarono ad essere piene. Tutto sembrava andare per il meglio, ma di lì a poco sarebbe emersa la natura dell'imbroglio.
Per sfruttare il temporaneo “tempo dell'abbondanza” era stata infatti progettata una nuova ed ambiziosa campagna militare.Erano state fatte preparare nuove armi e nuove armature, ed erano stati assoldati molte truppe mercenarie di supporto.
I fabbri della città, come Franco, si trovarono di fronte ad un enorme lavoro da fare ed una montagna di soldi offerti dal governo. Dovevano lavorare di più rispetto al solito per rispettare le commesse, ma pareva non ci fossero problemi di spesa. Il Capovillaggio voleva armi e corazze subito ed era disposto a spendere quanto richiesto.
Normalmente Franco non avrebbe lavorato così tanto ma di fronte a quell'offerta non poté rifiutare. Gli altri cittadini che si rivolgevano a lui per i lavori quotidiani dovettero rinunciarvi o pagare delle tariffe molto più alte: infatti Franco era disposto ad accollarsi ulteriori commesse solo in cambio di una cifra più alta, che solo in pochi potevano permettersi.
Ma non furono soltanto i fabbri ad aumentare i prezzi. Le fonderie si trovarono in una situazione analoga (dovevano fornire il metallo ai fabbri) e poi anche le miniere, e così via, seguendo la via percorsa dal denaro pubblico.
Nel giro di alcuni mesi quasi tutti i prezzi erano aumentati, anche se con diverse proporzioni, ma quelli che erano stati esclusi dal giro di affari generato dalla commessa pubblica, o che erano stati tra gli ultimi a beneficiarne, si trovarono, senza alcun motivo apparente, con dei risparmi che il giorno prima garantivano l'acquisto di alcuni beni, ed il giorno dopo non più.
In pratica chi aveva ricevuto e speso per primo questo denaro extra (in primis il governo) lo aveva fatto a spese di chi, come i contadini o i fornai, rimase escluso dal giro d'affari generato dalla spedizione militare. Quest'ultima, poi, fu un vero disastro, per cui fu necessario trovare in fretta un capro espiatorio da sacrificare alla folla sempre più inferocita per l'aumento dei prezzi.
“La colpa – dichiarò il Capovillaggio all'assemblea - è di un fenomeno che i nostri studiosi hanno chiamato inflazione e che ci impegneremo a combattere con tutti i mezzi a nostra disposizione. Inoltre, come hanno denunciato alcuni mercanti, siamo stati tutti vittime di una truffa.
Il direttore della zecca, infatti, ha inserito del rame insieme all'argento che costituiva le nostre monete, appropriandosi di quanto avanzato ed arricchendosi alle spalle della gente. Lo abbiamo colto sul fatto ed ha tentato la fuga, costringendo le guardie ad ucciderlo.
Probabilmente questa truffa è legata al fenomeno dell'inflazione ma non sappiamo ancora in che modo.”
Vista l'enorme villa che il direttore si era appena fatto costruire, nessuno, in città, dubitò che il Capovillaggio potesse aver mentito (o anche solo nascosto parte della verità).
Tutti i cittadini ripresero le loro vite, quindi, magari cercando di lavorare un po' di più per recuperare quanto perso a causa di questa misteriosa inflazione.
Un paio di svalutazioni e teste di direttore dopo, nel denaro rimaneva così poco argento che i mercanti si rifiutarono di accettarlo negli scambi e si dovette procedere alla creazione di una nuova moneta, lo zecchino, costituito interamente d'oro.
I due mercati, interno ed estero, vennero a trovarsi, di fatto, separati e lo zecchino ebbe così tanta fortuna da venire adottato come una sorta di moneta internazionale del commercio.
In questo modo, però, l'utilizzo del meccanismo della svalutazione non aveva più l'efficacia del passato ed era necessario trovare altri metodi per finanziare la spesa “pubblica”.
In tempi di grande pericolo spesso si era chiesto un sacrificio alla popolazione, imponendo una sorta di prestito a fondo perduto che andasse a coprire delle spese straordinarie. Ad esempio, dopo una sfortunata spedizione navale, un provvedimento del genere era servito per ricostruire la flotta.
Ma imporre dei prelievi una tantum in modo regolare mal si conciliava con l'esigenza di tenere buona la popolazione. Come fare per rendere la pillola meno amara?
Il Capovillaggio pensò che se il prelievo fosse stato presentato sotto forma di prestito ad interesse allora la prospettiva di finanziare il deficit pubblico con i propri risparmi poteva risultare meno spiacevole per i cittadini.
Rimanevano da risolvere due problemi: garantire le entrate necessarie per coprire il tasso di interesse e trovare i finanziatori.
Il primo problema fu risolto facendo ricorso a quelle entrate indirette, costituite da gabelle e tariffe doganali le quali, se non potevano ripianare il deficit statale, tuttavia erano sufficienti a pagarne gli interessi.
Per quanto riguarda i finanziatori, invece, il Capovillaggio sapeva benissimo dove cercare. Aveva bene in mente il modo fraudolento con cui alcuni banchieri avevano fatto uso dei depositi dei loro clienti e pensò che se avesse potuto incanalare quei fondi nelle casse dello Stato avrebbe fatto un grande passo in avanti.
Dopotutto i soldi depositati non erano di proprietà dei banchieri ma gli interessi percepiti lo sarebbero stati. Era un affare che avrebbe beneficiato entrambe le parti quindi perché preoccuparsi?
Vennero così ideati i titoli di debito pubblico. Simone ne acquistò uno, con scadenza annuale, pagando 100 monete d'argento e, dopo 12 mesi, riebbe indietro le sue 100 monete più di interesse. L'investimento piacque e così Simone decise di riacquistare il titolo e prolungare l'investimento nel tempo.
Ma i titoli di debito non piacquero solo a Simone ma andarono letteralmente a ruba, specialmente presso quelle banche che avevano interesse ad impiegare, in modo fraudolento, i depositi dei loro clienti. Nessuno tra l'altro noto che, poco prima dell'emissione dei titoli, era stata approvata una legge che consentiva alle banche di mantenere in cassa soltanto una riserva dei depositi, fissando un valore minimo, per tale riserva, del 30%.
I banchieri onesti, come Massimo, continuarono a mantenere correttamente il 100% dei depositi in cassa ma non ebbero modo di competere con le offerte delle altre banche, le quali, invece di far pagare al cliente il servizio di deposito, lo remuneravano addirittura con un tasso d’interesse.
Massimo fu costretto a chiudere, e così gli altri banchieri onesti come lui, mentre prosperarono quelli che, come Claudio, remuneravano i depositi con l'1% di interesse e poi li utilizzavano per acquistare titoli di debito remunerati al 10%. Vediamo un caso pratico.
Piero depositò 200 monete presso la banca di Claudio, il quale ne mantenne 60 in cassa (la riserva) e comprò, con le altre 140, un titolo di debito pubblico con scadenza annuale. Dopo 12 mesi il titolo di debito fu ripagato e Claudio incassò le 140 monete investite più 14 di interesse, remunerando Piero con 2 monete (l'1% di 200).
Il fatto di remunerare i depositi, poi, attirò molti facoltosi investitori stranieri, del calibro di principi e re, i quali erano attratti da questa luminosa prospettiva di potere depositare le loro ricchezze al sicuro ed essere pure pagati!
Era andato perfezionandosi ed espandendosi anche l'uso delle banconote (note di banco). Abbiamo visto come un mercante, invece di portare con sé una grande quantità di denaro, potesse depositarlo presso un banchiere, farsi firmare una nota che attestava il deposito, e poi, giunto a destinazione e recatosi dal banchiere corrispondente, utilizzare quella per ritirare il denaro equivalente. Ogni tre mesi circa si tenevano delle fiere monetarie in cui tutti i banchieri si riunivano per presentare le note e saldare le differenze.
Con il passare del tempo sparì l'indicazione del destinatario della banconota (prima poteva essere girato come un assegno), la quale divenne quindi riferita al portatore, e venne meno anche la consuetudine di saldare le note ogni tre mesi alla fiera.
Una banconota da 100 zecchini, firmata dal banchiere Claudio, era quindi una ricevuta di deposito che dava diritto al ritiro di 100 zecchini presso quella particolare banca. Essa iniziò a circolare come vero e proprio mezzo di pagamento, mentre le monete rimanevano custodite in banca, ed infine fu anche accettata come vero e proprio deposito.
Il Capovillaggio utilizzò questi nuovi fondi per finanziare non solo nuove guerre, ma anche la costruzione di strade, monumenti celebrativi, imprese commerciali ed esplorative (con la speranza di trovare, magari, un “nuovo mondo” pieno di risorse da sfruttare) senza tralasciare qualche finanziamento agli “amici” di vecchia data.
Il flusso di denaro pubblico inondò la città, provocando nuovamente inflazione ma questa volta con effetti moltiplicati.
La pratica di mantenere soltanto una riserva dei depositi, prestandone il resto, aveva messo in moto un meccanismo perverso di moltiplicazione dell'offerta di credito e l'utilizzo delle banconote faceva sì che la truffa rimanesse nascosta più a lungo, amplificandone gli effetti.
L'enorme giro d’affari che si era sviluppato in città era però come un gigante dai piedi d'argilla. Bastò un piccolo incidente per mandare tutto in rovina.
I denari depositati dai cittadini, ma anche dai principi e re stranieri, nella banche erano stati utilizzati, per la maggior parte, in modo fraudolento nell’acquisto di titoli di debito pubblico emessi dalla città.
La cattiva sorte volle che, proprio mentre falliva l'ultima e più ambiziosa spedizione militare organizzata dal Capovillaggio, questi principi e re si trovarono a dover fronteggiare il pericolo di una difficile, e costosa, guerra.
La loro prima reazione fu quella di rivolgersi ai banchieri presso cui avevano depositato i loro tesori e chiedere indietro, così come specificato dal contratto di deposito, tutti i loro soldi; soldi che però non c'erano più. Allo stesso modo anche i cittadini si precipitarono in banca per cercare di ritirare i depositi cambiare le banconote, prima che fosse troppo tardi.
I banchieri, disperati, si rivolsero a tutti i loro debitori, tra cui lo Stato, per ricevere indietro i crediti concessi, ma invano. Il Capovillaggio dichiarò bancarotta, seguito dalle banche, da tutti quelli che avevano chiesto un prestito, “per approfittare della congiuntura favorevole”, e da quelli che, semplicemente, si erano fidati delle banche per tenere al sicuro i propri risparmi.
Fu la peggiore crisi che la città avesse mai dovuto affrontare.
In città scoppiarono rivolte e sedizioni, con le guardie che, rimaste senza paga governativa, erano le prime a compiere atti di vandalismo, saccheggi e rapine: furono assaltati forni, magazzini, botteghe e persino la zecca comunale. Per un attimo, vi fu un ultimo sussulto di abbondanza, figlio dei saccheggi, ma questo consumo dissennato delle ultime riserve disponibili non fece altro che peggiorare lo stato di crisi che seguì.
Le botteghe chiusero i battenti ed i garzoni furono licenziati, gli accattoni per le strade si moltiplicarono, così come ladri e briganti. Non vi era più pane, vino né vestiti: niente.
Quella che, sino a poco tempo prima, era parsa una città ricca ed in salute ora mostrava il suo vero volto: quello della miseria.
Il Capovillaggio abbandonò la città alle prime avvisaglie di malcontento, rifugiandosi in un castello nella campagna: fu la sua salvezza.
Infatti, mentre i cittadini stavano cercando di organizzarsi, aiutandosi l'un l'altro, per cercare di tirare comunque avanti, una nuova e più terribile disgrazia si presentò alle porte della città.
Una nave mercantile era giunta, in cerca d'aiuto, ed al porto non se l'erano sentita di cacciarla via. Il suo carico di mercanzie era abbondante e quei mercanti erano i primi a tornare da quando era scoppiata la crisi. Una qualche malattia doveva avere colpito la nave, però, visto che alcuni dei marinai erano già morti e molti altri erano ammalati.
All'equipaggio ed ai mercanti non fu permesso di scendere a terra e, dopo pochi giorni, sulla nave erano morti tutti.
La prudenza suggeriva di non salire su quell'imbarcazione, ma il suo abbondante carico di grano e mercanzie era una tentazione troppo grande, e, nottetempo, alcuni vollero tentare la sorte e depredare il carico, prima che lo facessero altri.
Nel giro di una settimana erano a letto con una febbre altissima, seguiti a ruota dai loro familiari e da quasi tutti quelli con cui erano venuti a contatto. Entro venti giorni erano tutti morti.
Notizie terribili iniziarono a circolare in città, evocando un male terribile il cui nome però nessuno voleva pronunciare. I dottori, però, tranquillizzavano la popolazione parlando semplicemente di crescita della mortalità dovuta alla crisi e ridicolizzando quelli che vociferavano di una tremenda malattia giunta dal mare.
Intanto la gente continuava ad ammalarsi, in ogni zona della città, ed i morti divennero presto un numero allarmante. Chi poteva cercava scampo in campagna, gli altri si chiudevano in casa, pregando di non cadere ammalati.
Quello che tutti temevano e che nessuno osava ammettere era divenuto realtà: era giunta la peste!
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