Se potessi esprimere un desiderio, chiederei di incontrare di persona il giornalista che ieri ha scritto in un articolo dell’ANSA la seguente frase: ”Di giorno medici esemplari negli ospedali pubblici del Regno Unito ma fuori servizio spietati terroristi in cerca di strage: persino i più navigati investigatori di Scotland Yard sono rimasti sconcertati alla scoperta che era tutta composta da discepoli di Ippocrate la cellula di Al Qaida all'origine dei falliti attentati del week-end scorso a Londra e a Glasgow.”
Se potessi incontrare questo giornalista gli chiederei: “Ma lei, quando scrive, si rende conto di quello che fa, oppure lavora in una specie di trance subliminale? Intendo dire, le parole – quei gruppi di lettere che stanno tutte unite, e che si separano normalmente da uno spazio bianco – lei le riconosce l’una dall’altra? Lei lo sa che ciascuna parola ha un significato diverso, e che le parole vengono scelte in base a questo significato, in modo che leggendole tutte in fila si possa ottenere un pensiero sensato? Oppure per lei le parole sono soltanto i frammenti anonimi di un puzzle, apparentemente tutti uguali, da rovesciare a caso sulla pagina che deve riempire?
Perchè c’è un piccolo problema, signor giornalista, visto il mestiere che fa: quello che lei scrive, la gente lo legge. E quando lo legge, di solito ci crede, e ci crede perchè si fida di lei. Si fida per abitudine, per rispetto intrinseco della sua professione, oltre che per rispetto della eventuale testata “autorevole” per cui lavora. E quando la gente crede una cosa, si comporta di conseguenza. Se lei scrive che “la cellula di Al Qaida era tutta composta da discepoli di Ippocrate”, si rende conto che da oggi in poi molte persone andranno dal dottore con un atteggiamento diverso? Sono stato da un medico che mi ha prescritto una cura di ferro per l’anemia – dirà qualcuno – solo che non mi fido, ... ... secondo me quello non è un medico, ma un terrorista. Quasi quasi invece del ferro mi prendo un pò di sali minerali.”
Temo però che a quel punto il giornalista mi risponderebbe con le stesse parole che ha usato nell’articolo: “I fatti parlano però chiaro: tra i primi otto arrestati ci sono sei dottori, un para-medico e una donna che lavora come tecnica in un laboratorio di analisi. E la conclusione, molto allarmante, è che Al Qaida può avere una grossa presa anche sulla fascia più istruita e integrata della middle-class musulmana.”
Ah già, me lo ero dimenticato: questi non sono medici normali, sono medici “musulmani”. Che stupido, gli occidentali non fanno attentati. Mi scusi tanto allora, allarme rientrato. Non sarà più necessario che la gente vada in agitazione ogni volta che si reca dal dottore, sarà sufficiente che si accerti che non sia un musulmano.
Però, abbia pazienza un attimo, signor giornalista: se questi dottori appartengono, come lei scrive, alla fascia più istruita e integrata della middle-class – musulmana, buddista o ebraica che sia, mi risulta che la middle-class sia una sola – come può Al-Queda “avere una grossa presa” su di loro? Al-Queda non predicava il “radicalismo islamico”, che secondo tutti i suoi colleghi starebbe agli esatti antipodi del benessere e dell’integrazione occidentali? Non era contro l’occidente consumista, pagano e libertino che si erano scagliati Attà e compari, alla guida di quegli aerei? (Dopo essere andati a puttane, aver giocato d’azzardo, tirato coca e bevuto whisky, d’accordo, ma queste sono sfumature. L’Islam in certi casi è particolarmente tollerante: pensi che lo stesso suicidio, in teoria, sarebbe contro il volere di Allah).
Mi spiega allora perchè, signor giornalista, di fronte a una notizia del genere, invece di pubblicarla e basta, lei non si è alzato ed è andato dal suo direttore, dicendo: “Mi scusi, ma qui c’è qualcosa che non quadra. Le sembra possibile che otto medici che lavorano, hanno una carriera e una famiglia, si mettano a riempire le automobili di chiodi e di benzina per fare disastri nel centro cittadino, solo per trovarsi a dover ricucire gli stessi feriti che loro hanno provocato?”
Quante “missioni” si possono avere, in una vita soltanto?
E se per caso il suo direttore le dicesse, come presumo, “lei è pagato per scrivere, non per pensare”, gli risponda “io l’articolo lo scrivo, però lo firma lei. Perchè io la responsabilità di mettere in giro certe fregnacce non me la prendo nemmeno se mi pagassero dieci volte tanto.”
Come vede non c’è nessun bisogno di licenziarsi, signor giornalista, per recuperare quel minimo di dignità che la sua professione – che ogni professione, per essere considerata tale – le impone. Tutti teniamo famiglia, e tutti sappiamo che i nuovi posti di lavoro non abbondano di certo, ma nessuno potrà mai criticarla per aver imposto ai suoi superiori di assumersi le responsabilità per ciò che le chiedono di fare.
Lo faccia firmare al suo direttore, quell’articolo, e se per caso si rifiuta gli chieda come mai.
Poi magari ce lo viene a raccontare.
Massimo Mazzucco
NOTA: Nel caso specifico
l’articolo dell’ANSA non è firmato, e quindi il mio ragionamento sembrerebbe non reggere. Ma il discorso va comunque elevato al responsabile della testata, non si può limitarlo a chi gli articoli li scrive fisicamente. Io per “firma” non intendo qui nome e cognome, ma “responsabilità”. Etica, e morale.