Finite le celebrazioni, finite le rimembranze, finita la retorica sul genio innovatore scomparso prematuramente, restiamo con quella che viene definita oggi la “legacy” di Apple nel mondo. Legacy è un termine inglese difficile da tradurre, che sta a metà fra “eredità” e “lascito”, ma che significa anche, in molti casi, “retaggio”. Stiamo cioè parlando delle “conseguenze” complessive, sia positive che negative, dell’introduzione del personal computer nella vita moderna.
Chi scrive ha vissuto questa trasformazione fin dal primo giorno, sulla propria pelle. Nel 1983 infatti stavo cimentandomi con le mie prime sceneggiature, ed avevo scoperto una “macchinetta” meravigliosa, chiamata Commodore 64, che ti permetteva di scrivere il testo intero su un dischetto marroncino, e di modificarlo infinite volte, guardandolo sullo schermo, prima di deciderti a stamparlo. Solo chi abbia provato a fare sceneggiature con una macchina da scrivere sa quante volte bisognasse ribattere pagine intere, solo perchè volevi apportare un paio di modifiche qui e là. Di fatto, i termini “taglia, copia e incolla” nascono proprio dall’attività degli sceneggiatori di quell’epoca: per evitare di ribattere ogni volta una pagina intera, si scriveva su un foglio bianco il paragrafo modificato, lo si ritagliava, e lo si incollava fisicamente sopra quello originale. Poi si metteva il foglio nella fotocopiatrice (quelle c’erano già, per fortuna), e si otteneva la pagina modificata, senza bisogno di ribatterla per intero.
Ma era comunque un’operazione laboriosa e sostanzialmente “sporca”, perchè da un lato ti ritrovavi con dozzine di scatolette piene di frasi ritagliate, buttate lì alla rinfusa, ... ... e dall’altro ti ritrovavi con pagine fotocopiate magari 8 o 10 volte, che insieme al testo riproducevano anche le macchie di sporcizia, sempre più numerose, oltre al contorno degli inserti incollati male.
Potete quindi immaginare quale tipo di “liberazione” abbia rappresentato per un qualunque scrittore di quell’epoca il potersi lasciar andare a scrivere pagine su pagine di getto, senza più preoccuparsi di doverne magari gettare via il 90%, e finendo poi per “incollare” fisicamente tutto il resto. Ora potevi scrivere a piacimento, tenevi soltanto quello che ti interessava, e cancellavi tutto il resto in un istante. (Nel frattempo Commodore scompariva, mentre Apple si apprestava a conquistare il mondo).
Ma è solo a questo punto che subentrava la vera rivoluzione apportata dal personal computer al nostro modo di pensare: nel momento in cui ti rimaneva quella frase preziosa, estratta da tutto il resto, potevi anche archiviarla in un apposito “folder”, per andartela a riprendere quando volevi.
Basta riempire quaderni infiniti di note illeggibili, e soprattutto basta notti insonni passate a domandarsi “Dove cristo avrò messo quella splendida frase sull’universo che ho scritto tanti anni fa?” Spesso toccava rileggersi quaderni interi, pieni di riflessioni inutili, prima di ritrovarla.
Ora invece ci sono i folder, e c’è l’indicizzazione: se solo hai avuto la lungimiranza di creare un folder chiamato “frasi sull’universo”, la ritrovi immediatamente, e se per caso non ci avessi pensato, c’è sempre il motore di ricerca del tuo computer che te la trova in pochi minuti.
Ecco che così di colpo il nostro cervello, grazie al computer, si è ritrovato a disporre di una meravigliosa estensione naturale dei propri “cassetti di memoria”, già saturi e spesso zeppi di cose inutili. Da oggi le cose che riguardano il global warming le metto lì, quelle che riguardano l’archeologia le metto lì, e le lettere d’amore per mia moglie le metto qui. Tutto ben archiviato, tutto ordinato, tutto ritrovabile in pochi secondi. E mentre la tua base di informazione disponibile cresce in modo esponenziale, tu rimani sempre più libero di gestire quelle informazioni in modo creativo, stimolante e produttivo.
Fu questa la vera, grande rivoluzione introdotta dal personal computer nella nostra vita quotidiana, poichè modificava alla radice il nostro processo intellettuale. Da una parte cresceva la quantità di informazioni disponibili che avevamo sottomano, dall’altra cresceva la capacità di elaborare quelle informazioni in modo rapido, preciso ed efficace.
Ma tutto questo non sarebbe stato nulla, se non fosse arrivato Internet. Con Internet lo stesso identico meccanismo del personal computer è stato moltiplicato per mille, per un milione, per un miliardo di volte.
Ora non solo puoi accedere alle tue informazioni, ma anche a quelle di tutti gli altri. Il database è diventato collettivo, l’archivio di memoria ormai è quello globale, e chiunque può accedere a questa massa inenarrabile di dati, per poi utilizzarli a proprio piacimento, grazie a software sempre più potenti e sofisticati.
Ma è qui che finisce, a mio parere, il “miracolo” di Steven Jobs, e iniziano le pene che inevitabilmente si accompagnano a miracoli di questo genere.
Qualunque fenomeno di dimensioni globali porta anche con sè degli aspetti economici di dimensioni globali. Da un certo punto in poi la favola finisce, mentre entrano in gioco termini come “competizione”, “target”, “mercato”, “concorrenzialità”.
Scendono in campo i grossi capitali, e l’essere umano che iniziava a godere dei frutti dell’innovazione diventa rapidamente il bersaglio (target, appunto) di una potenziale nuova campagna di vendite a livello mondiale. A sua volta, questo target viene suddiviso in precise “fasce di mercato”, a seconda delle presunte esigenze ed aspirazioni di ciascun utente potenziale.
E fin qui ci si potrebbe ancora stare, perchè in fondo la competizione stimola le innovazioni, mentre la concorrenzialità tiene i prezzi bassi, e tutto ciò va inevitabilmente a favore dell’utente. Ma ad un certo punto scatta un meccanismo perverso, nel quale la linea di demarcazione fra “esigenze” ed “aspirazioni” diventa sempre più confusa, e ti risvegli un giorno che non sai più se desideri qualcosa perchè ti serve averla, oppure se ti serve averla perchè desideri a tutti i costi possederla.
Bernais insegna.
Quando vedi code lunghe decine di isolati, fatte di gente venuta da ogni parte del mondo, che è disposta a passare 4 o 5 notti all’addiaccio pur di avere al più presto il nuovo modello di telefonino portatile, vuole dire che quella linea di demarcazione non soltanto è stata cancellata, ma che l’intera dinamica di mercato è stata capovolta.
Nell’arco della sua carriera Steven Jobs è riuscito a passare da un innovatore che ha dato un contributo di reale portata storica al percorso dell’umanità, ad un venditore di desideri, assolutamente fasulli ed inutili, che stanno riportando questa umanità allo stesso stadio di “ignoranza collettiva” in cui si ritrovava 50 anni fa.
Proprio una cinquantina di anni fa il poeta americano Allen Ginsberg, cantore universale della “liberazione psichedelica”, scriveva:
“Ho visto le migliori menti della mia generazione distrutte dalla pazzia, affamate nude isteriche, trascinarsi per strade negre all’alba in cerca di droga rabbiosa, hipsters testadangelo bramare l’antico spaccio paradisiaco che connette alla dinamo stellare nel macchinario della notte…”
Oggi rischiamo di ricadere nello stesso identico meccanismo. La follia sembra la stessa, la brama del drogato sembra la stessa, il desiderio di ascesi mistica sembra lo stesso. L’unica differenza è che oggi al posto dell’LSD troviamo l’i-Phone.
Massimo Mazzucco