Quando mi iscrissi alla terza media, a Milano, ero appena rientrato da un paese straniero, dove avevo vissuto per qualche anno con la famiglia. L’impatto con i miei coetanei si presentava quindi come qualcosa di nuovo e sconosciuto, quasi come se dovessi affrontare di nuovo il “primo giorno di scuola”.
Dopo che fui presentato alla classe, i nuovi compagni mi si fecero intorno, e per prima cosa mi chiesero: “Tu sei dell'Inter o del Milan?”
Ricordo i loro sguardi ansiosi, che speravano di veder cadere dalla loro parte la nuova moneta, mentre io cercavo di spiegare imbarazzato che il calcio non mi aveva mai interessato più di tanto. Ricordo ancora meglio l'ondata di delusione collettiva che mi investì, facendomi sentire di colpo inutile e fuori luogo.
Un mese dopo recitavo a memoria la formazione dell’Inter, conoscevo la vita di Tarcisio e di Luisito come se fossimo cresciuti insieme, e avevo imparato a trattare i milanisti come la peggior feccia dell’umanità. (Non ricordo nemmeno perchè scelsi l’Inter. Forse per dispetto a qualcuno che il primo giorno aveva detto "che figo quello, sicuramente è un milanista").
Questo è il problema nella nostra società: se non sei con qualcuno non sei nessuno.
Quella dell’appartenenza al branco è una caratteristica ancestrale, che ci portiamo nel DNA e che possiamo riconoscere in molte specie animali. Non è quindi un “difetto” di per sè, nè tantomeno qualcosa che si possa liquidare come una semplice anomalia.
Bisogna però distinguere l’istinto primordiale di sopravvivenza, che porta l’animale a compattarsi con i suoi simili per difendersi dalle altre specie, e altre forme di polarizzazione, all’interno del gruppo, che non sempre sono naturali o necessarie.
La mia classe era composta tutta di ragazzi come me, e non c’era alcun bisogno di separare gazzelle da leoni, perchè fra noi non esistevano nè le une nè gli altri. Li stavamo creando noi in quel momento.
Anzi, l’ ”unità” sociale minima, a quell’età, è proprio la classe scolastica, ... ... che casomai si ritrova a competere con le altre classi: la “terza B” batte la “terza D” quattro a zero, e poi festeggia per una settimana.
Mentre la contrapposizione fra “interisti” e “milanisti”, all’interno della classe, è qualcosa di completamente anomalo e deleterio, poichè la spacca artificialmente, mentre accomuna trasversalmente soggetti di classi diverse, senza per questo creare nuove unità reali. Questo tipo di frammentazione non ha nessuna utilità per la specie, ed infatti in natura non avviene.
Non si è mai visto un branco di gazzelle e leoni “di pelo biondo” combattere unito contro un branco di gazzelle e leoni “di pelo scuro”. Biondi o scuri, i leoni stanno con i leoni, le gazzelle con le gazzelle.
Il motivo per cui nella società venga alimentato fino all’estremo questo genere di frazionamento, trasversale e deleterio, è fin troppo facile da immaginare. Si chiama
divide et impera, e il nome stesso rende superfluo parlarne oltre.
C’è però un secondo aspetto del problema, più sottile, sul quale vale forse la pena di soffermarsi: nel momento in cui la logica di gruppo impone al nuovo arrivato di schierarsi, gli si toglie anche la possibilità di sviluppare ed esprimere una voce personale, che possa magari risultare diversa da quella del coro.
Io nella vita avrei anche potuto appassionarmi di tiro con l’arco, di pattinaggio artistico o di volo a vela, mentre ho finito per passare dieci anni a San Siro, a urlare come un deficiente con la sciarpa nerazzurra.
Quando il rumore è più utile del silenzio.
C’è quindi una doppia utilità nell’alimentare fino all’estremo la cultura del branco: tagliare trasversalmente i blocchi naturali della società, e soffocare sul nascere ogni istinto di individualismo al loro interno.
Ogni tanto capita che qualcuno riesca comunque a sfuggire alla schiavitù del gruppo, e segua il suo percorso individuale, fino a ripresentarsi in società nelle forme dell’artista rivoluzionario, dello scrittore controcorrente, o del personaggio scomodo in generale. A quel punto scattano le difese immunitarie che la società ha sviluppato per garantirsi la propria sopravvivenza: o il personaggio scomodo si lascia in qualche modo metabolizzare dal sistema, diventando innocuo nel momento stesso in cui il sistema gli riconosce il suo ruolo di “anomalo” - Moravia diceva che il ruolo sociale dell’artista è quello di essere antisociale – oppure viene emarginato ed escluso senza pietà.
In un modo o nell’altro, il sistema non può tollerare sassolini che si muovano liberi fra i suoi delicati ingranaggi. O si lasciano macinare, o vengono espulsi.
Naturalmente, chi fa girare le ruote sa bene che non è possibile appiattire tutti gli individui su una singola forma anonima, muta e indifferenziata. Puoi farlo forse con i cinesi, ai quali bastano una tutina blu e una bicicletta di serie (bastavano?) per essere convinti di aver vissuto una vita da leoni, ma agli italiani la cosa non basta di certo. A loro bisogna dare il cellulare (uguale per tutti ma diverso per ciascuno), a loro bisogna dare l’abito firmato (uguale per tutti ma diverso per ciascuno), e a loro bisogna permettere di gridare ogni tanto anche al singolare (stesse urla per tutti, ma insulti diversi per ciascuno). Va bene andare allo stadio e gridare tutti insieme “romanisti di merda”, ma poi bisogna anche poter uscire in piazza e sparare un bel vaffanculo in faccia al primo che ti pare. Se no che libertà è, scusate?
Chi segua anche altre televisioni, oltre a quella italiana, conosce bene il livello di beceraggine a cui si è permesso di arrivare nei talk-show nazionali, dove è assolutamente impossibile condurre a termine un qualunque ragionamento sensato. E solo un bambino, a questo punto, potrebbe credere che la cosa sia avvenuta per caso.
Quando il rumore è più utile del silenzio.
Accade così che anche sui forum più “avanzati”, dove dovrebbe germinare quella critica ideologica che possa portare ad una crescita collettiva, si vedano spesso replicati gli stessi meccanismi che ci sono stati imposti, a nostra insaputa, in modo così perfido ed efficace.
Sono le tre fasi - scuola, stadio, e pubblica piazza – in cui ci vengono inculcati i tre passaggi fondamentali intesi a rendere innocuo l’individuo: nella prima formi i gruppi, nel secondo li fai combattere fra loro, nella terza permetti lo sfogo personale che faccia sentire l’individuo diverso dalla massa.
Sul nostro sito non riesci a superare i dieci post, in qualunque serie di commenti, che già vedi delinearsi i due schieramenti: “Io quoto di qui”, “io sottoscrivo di là”. Una volta formate le squadre si arriva presto al “Voi non capite un cazzo” e “voi siete fusi nel cervello”, finchè esplode nel petto di qualcuno l’urlo represso della personalità, e senti arrivare il classico ”Parla per te deficiente” che segna la conclusione del percorso stabilito.
Così tutti hanno parlato, tutti sono convinti di contare qualcosa, ma nessuno ha detto nulla di nuovo. Invece di restare nel silenzio delle nostre menti, e scoprire se per caso avessimo qualcosa di nostro da aggiungere al discorso collettivo, ci facciamo attrarre dal vociare dello stadio, ed accorriamo subito per far sapere al mondo che esistiamo anche noi.
Come se il mondo si preoccupasse di sapere che c’è una pecora in più, pronta a belare insieme al coro, invece di attendere in silenzio la fiammata personale di chi finalmente abbia capito a cosa serve esser venuti al mondo.
Amici: vogliamo davvero che anche qui il rumore diventi più utile del silenzio?
Massimo Mazzucco
NOTA AGGIUNTIVA: C’è poi una forma particolare di asserzione della personalità, e avviene quando un utente interviene solo per reiterare cose che ha già detto in passato, ma su cui ha dovuto combattere in modo particolare. Ha talmente combattuto, in realtà, da finire per identificarsi con l’idea stessa che aveva sposato, e ora sente il bisogno di tornare a difenderla come se si trattasse di difendere la propria reputazione.
Inutile dire quanto sia triste da osservare colui che crede non solo di “possedere” un’idea, ma addirittura di poter elevare la propria persona ad oggetto di pari importanza. Anche perchè qui trattiamo raramente idee da due lire.
Ma a queste persone non importa sviluppare insieme i ragionamenti, mandarli oltre, sbloccarli dallo stallo primitivo del muro-contro-muro, per scoprire magari quelle zone di grigio che celano il motivo stesso della nostra spaccatura fra bianchi e neri. Per loro è più importante “vincere” la battaglia personale con il “nero” di turno, in modo da poter tornare nel branco dei bianchi e ricevere il loro applauso gratificante.
Concludo dicendo che questo articolo, anche se potrà sembrarlo, non vuole criticare nessuno in particolare. Non solo sono errori che commetto anch’io di frequente, ma mi sforzo sempre di “astrarre” da ciascun episodio gli elementi universali, comuni a tutti gli altri, dimenticando la persona che li ha generati nel momento stesso in cui riesco ad individuarli.
Rendiamoci conto di una cosa: esistono gli errori, noi siamo solo quelli che li abitano di volta in volta. Se accettiamo questo, invece di pensare che siano Piero, Francesca o Teresa i protagonisti assoluti di ogni discussione, staremo tutti molto meglio, fra di noi e con noi stessi.
Vorrei quindi che queste riflessioni fossero prese allo stesso livello generale, universale, a cui sono state presentate, e non al livello personale dal quale possano essere scaturite. Nel primo caso possono diventare costruttive per tutti, nel secondo invece portano a chiudersi nell’orgoglio individuale, e si finisce per sconfiggere il messaggio stesso che sto cercando di trasmettere.