di Andrea Franzoni
I recenti fatti di via Sarpi, la Chinatown milanese, rappresentano il primo acuto di portata mediatica di un processo più complesso che, fino ad oggi in maniera silenziosa, sta ridisegnando la struttura, la composizione ed il senso più profondo delle metropoli.
Questo processo, che ha già in parte rivoluzionato il significato ed i connotati di molte aree urbane, va ben oltre la difficile convivenza tra comunità diverse, le speculari xenofobie ed i problemi concreti o presunti di viabilità, di “degrado” o semplicemente di “sicurezza” percepita. L’approccio e le soluzioni proposte, allo stesso tempo, non hanno nemmeno la pretesa di risolvere o favorire il processo di “integrazione” accrescendo le distanze e ponendo la questione come una lotta tra fazioni ed interessi opposti: italiani da una parte, cinesi dall’altra. Nemmeno la strumentalizzazione da parte di alcune fazioni politiche (o mediatiche) ci permette di avvicinare il nucleo ed il motore della rivoluzione, di quel flusso continuo di profonde modificazioni, di cui i fatti di via Paolo Sarpi sono soltanto un insignificante e chiassoso imprevisto. Insufficiente, per quanto interessante, anche il concentrare l’attenzione sulle preoccupazioni, sulle miserie e sui disagi reali che generano intolleranza, contrapposizioni etniche e capri espiatori. La radice profonda è, infatti, ben altra.
La storia di via Paolo Sarpi è una storia che molte aree urbane centrali hanno vissuto, che molte stanno vivendo e che le rimanenti sono destinate, presto o tardi, a sperimentare. Il processo in atto è quello della morte dei centri storici, … … o almeno della loro trasformazione –da luoghi della vita, dell’aggregazione e della quotidianità- in musei a cielo aperto, in cattedrali commerciali e immobiliari di lusso, in contenitori artificiali di studi e rappresentanze con normale orario da ufficio, dalle quali tenere lontana la vita, i conflitti, il disagio, il sudore, gli schiamazzi e le comunità reali.
Delocalizzare la vita reale lontano dal mondo dorato degli affari
L’atto (politico) che ha generato malumore nella comunità cinese, così come in altrettanti negozianti italiani, è stato la decisione di trasformare via Sarpi e la zona limitrofa, oggi frenetica sede di commerci al dettaglio e –soprattutto- all’ingrosso ed in particolare di decine di attività cinesi costruite in anni di debiti, sacrifici e licenze regolarmente sottoscritte dal comune, in una zona esclusivamente pedonale. A promuovere l’iniziativa, che ha lo scopo di allontanare la laboriosa comunità cinese da una zona centrale che probabilmente suscita anche altri appetiti, alcuni comitati locali tra i quali, più significativo, il “Vivi Sarpi”.
Le ragioni ufficiali del comitato sono legate a questioni di viabilità ed ai rapporti numerici tra la componente cinese (ormai maggioritaria) e quella italiana ed al sovraffollamento, che metterebbero a repentaglio la sicurezza e l’integrità del quartiere milanese.
Il progetto è quello di creare una zona periferica adibita ad i cinesi, ai loro commerci ed ai famosi carrellini per caricare e scaricare la merce che intralcerebbero i marciapiedi. Zona Paolo Sarpi può infatti apparire da questo punto di vista scomoda, ma spetterebbe ai cinesi valutare pregi e svantaggi di un’eventuale delocalizzazione. Per quanto riguarda il problema sicurezza, è evidente che allontanando i cinesi dal centro si sposta semplicemente il problema altrove –pericolo che un’amministrazione deve sicuramente valutare.
La realtà è che l’obiettivo è realmente quello di allontanare i cinesi da questa zona centrale. Il quartiere è oggi un luogo assolutamente vivo, dinamico, popolare e movimentato come nei film neorealisti. L’obiettivo di “Vivi Sarpi”, attraverso la pedonalizzazione, è quello di uccidere questa vitalità e di rendere la zona un quartiere fantasma di uffici, studi di rappresentanza, banche, boutique e attici deserti per super ricchi. Un quartiere non più a misura di famiglia (sia essa italiana o cinese), quanto piuttosto una vetrina di lusso con orari da ufficio pronta a svuotarsi ed a diventare spettrale al calare della notte delle multisala o dei pomeriggi degli outlet popolari e dei centri commerciali simboli di uno “svago” vorace e isterico, regolato da ritmi frenetici più dell’attività produttiva.
I ritmi e i modi dei consumi sono quindi in stretto rapporto con le modificazioni nella struttura della città. E se è impossibile stabilire quale sia la causa dell’altro, è altrettanto evidente che i due movimenti si alimentano e si giustificano l’un l’altro in maniera perversa.
Riqualificazione, o di come si uccide un centro storico
La morte dei centri delle città, escluse alcune zone chic, è in molti casi già realtà: chiudono i cinema antichi e le attività familiari, bar ed intere zone si riconvertono all’attività esclusivamente diurna e gli “eventi culturali” si arroccano sempre più nei grandi palazzetti della musica e del teatro immediatamente raggiungibili e dai quali è altrettanto facile defluire, oppure nei grandi musei.
Con la chiusura degli uffici tutta la città moderna chiude e la maggioranza delle strade rimane deserta e silenziosa fino al giorno successivo. Il posto per cinesi e italiani comuni, con il loro baccano e le loro miserie, è nelle periferie, lontano dallo sguardo dei magnati della finanza (o dei turisti, si pensi a Venezia), dai tracciati centrali dei tram e da quei palazzi, discretamente antichi, che possono diventare (dopo la fase di deprezzamento e di speculazione) uffici da decine di migliaia di euro al metro quadrato.
La prassi, da questo punto di vista, è secondo alcuni collaudata. In una prima fase gli alloggi ed i negozi delle zone centrali (dove gli immigrati, vuoi per cultura vuoi per opportunità, tendono a concentrarsi) vengono affittati a stranieri. La loro presenza ha un doppio “vantaggio”: da una parte essi, accettando situazioni illegali di sovraffollamento e subaffitto, permettono introiti superiori a quelli garantiti da una normale famiglia italiana con regolare contratto. Dall’altra, la presenza di tutti questi stranieri fa cadere il prezzo degli immobili, convincendo i vicini italiani a cedere per pochi soldi la loro proprietà magari agli stessi immobiliaristi italiani che riaffittano agli immigrati. In una seconda fase, attraverso ondate di “tolleranza zero” e attraverso la chiusura di queste zone centrali (come via Sarpi), si cerca di spingere gli stranieri ad andare altrove ed i comuni a “riqualificare” le zone, rivalutando enormemente gli immobili e trasformandoli in uffici e negozi di lusso, con enormi guadagni per i grandi proprietari.
Questo movimento, insieme indotto e spontaneo, è in alcune zone già evidente.
La fine delle comunità urbane e paesane
Non che i disagi nei quartieri dormitorio popolari, nei quali faticano a formarsi comunità (caratteristiche sia dei vecchi paesi che dei vecchi quartieri cittadini, ed oggi aliene ad entrambi) e occasioni di incontro locali, siano minori: anzi essi tendono a peggiorare insieme al degrado ed al conflitto. Semplicemente essi vengono allontanati dallo sguardo, dalla vetrina di morte e di denaro che è il centro fasullo della città.
I cortili e le strade, un tempo cardini del vivere comune e dei legami solidali, sono oggi sostituiti da “vie di comunicazione” (luoghi di passaggio, non di vita) o da file interminabili di giardini privati separati severamente da ringhiere e siepi, se non sono totalmente assenti nell’estrema razionalizzazione architettonica degli inumani quartieri popolari.
Perdono la loro identità i centri città, completamente svuotati, e svaniscono le comunità umane che vi si erano create o che qui si ritrovavano. Perdono la loro identità i paesi, invasi da immigrati (italiani) che recidono i legami secolari e colgono impreparate le amministrazioni locali incapaci di accogliere e di coinvolgere i nuovi arrivati. Ancora più drammatica la situazione delle periferie, nella maggioranza dei casi abbandonate, e incapaci di creare nell’incontro violento di miserie e speranze frustrate l’unità necessaria perdendosi in tensioni e lotte fra poveri che impediscono la creazione di quella solidarietà e di quel senso di fratellanza che fu, in parte, delle periferie del boom economico. L’idea che “in fondo siamo tutti sulla stessa barca”, oggi, non può avere cittadinanza.
Al binomio modi di consumo – struttura della città si aggiunge il terzo aspetto evidente e cioè il cambiamento della quantità e soprattutto del tenore delle relazioni, che sembrano anch’esse misurarsi sempre più sui parametri del consumo e del marketing di sé.
Periferie, invisibili sommatorie di disagi e anonimati
Tornando ai cinesi, è evidente che asportare la comunità cinese dalla zona di via Sarpi per dirottarla in una zona periferica (dove essi stessi tenderebbero, in questa fase, a ricostruire una nuova China Town come è naturale e come insegna la storia degli emigranti italiani) non gioverebbe alla sicurezza nè all’integrazione, e tanto meno renderebbe difficile la vita alla mafia e alla criminalità. Ne nascerebbe anzi una comunità ugualmente chiusa, e ugualmente dotata di leggi e costumi propri. L’esclusione anche fisica dalla vita (assente) della città, anzi, rischierebbe di favorire il fenomeno di rifiuto, ed insieme di ponderata sfiducia, che caratterizza le banlieu parigine che ben rappresentano il fallimenti dell’integrazione o quanto meno della convivenza.
E’ difficile dire con certezza se questo movimento sia semplicemente una speculazione economica o il progetto, probabilmente anche privo di una regia centrale, per la creazione di zone di lusso per le nuove nobiltà e per i loro affari. Certo è che l’uccisione sistematica dei centri storici e in generale delle comunità (urbane o paesane), sostituite da luoghi frenetici di non-aggregazione (palazzetti, multisala) e da agglomerati di problemi a più piani, interessa ugualmente presente e futuro di asiatici, latini ed africani, quanto quello di noi poveri italiani.
Andrea Franzoni (Mnz86)