di Claudio Negrioli
Finita vittoriosamente l'estenuante corsa per la "nomination", il 46enne Barack Hussein Obama, l'amerikano negro quasi bianco, comincia a calare le sue carte sul tavolo del grande gioco della politica mondiale.
Chi si aspetta di vedere carte e combinazioni nuove rimarrà deluso, infatti sono le stesse vecchie logore carte che ha in mano anche il suo finto rivale, John McCain.
Nel suo recente tour blindato partito da Kabul, dove intanto che digeriva il pranzo presidenziale offerto dal fantoccio Karzai i suoi compatrioti "bravi ragazzi" in divisa uccidevano per "errore" nove poliziotti Afghani più quattro civili e tre bambini per contorno, Obama, recandosi in visita nella base Usa di Bagram, dove precisando che vincere in Afghanistan è fondamentale, così commentava con i giornalisti: "Vedere che persone così giovani stanno svolgendo un lavoro così eccellente, con tale dedizione dà buone sensazioni sul Paese. Voglio assicurarmi che tutti quelli a casa comprendano con quanto orgoglio lavorano le persone che sono qui e quanti sacrifici stanno facendo. E' eccezionale".
Via dal turbolento Afghanistan si è recato poi nell'altrettanto torbido Iraq dove ha incontrato l'altro fantoccio Nuri-al-Maliki, ... ... al quale ha confermato la sua volontà - se sarà eletto 44esimo Presidente Usa - di non ritirare le truppe americane fino alla completa vittoria contro gli "enemy combatant" locali infiltrati da Al-Queida.
Con una specie di "salto quantico" si è poi traslato nel vecchio continente, toccando le capitali più importanti, Berlino-Parigi-Londra, saltando Roma evidentemente non giudicata degna. Nella sua ultima tappa a Londra, che lo ha accolto piuttosto freddamente, a differenza di Berlino che gli aveva tributato un bagno di folla, ha dichiarato: "Sono convinto che molte delle questioni che dobbiamo affrontare in patria non potranno essere risolte efficacemente se non abbiamo forti alleati all'estero".
Riferendosi allo scambio di vedute con Gordon Brown ha esternato alla stampa: "Si è trattato di un incontro importante per me, non solo per sottolineare come la situazione internazionale abbia un impatto sulla nostra economia nazionale, ma anche per dare alla gente a casa, oltre che ai leader degli altri paesi, un'idea di dove potrebbe portarli un'amministrazione Obama per quanto riguarda la politica estera”.
“A Dowing Street, con Gordon ho parlato per due ore di argomenti che vanno dal Medio Oriente ai cambiamenti climatici, dal terrorismo ai mercati finanziari”, ha aggiunto.
Non va sottovaluta l'importanza della tappa intermedia, quella di Sderot, Israele, dove dopo aver messo la testa a posto, anzi a "Kippah", ha incassato dal capo dello stato sionista Shimon Peres un: «Lei dev’essere un grande presidente degli Stati Uniti, perché il mondo ha bisogno di una visione e di una leadership».
La premessa, ovviamente, è che Obama sia eletto. Ma lui, una mano sul cuore, non ha palesato incertezze. Ha detto di "essere qui per riaffermare l’asse israelo-americano, con la speranza di diventare un partner effettivo, sia da senatore che, eventualmente, da presidente".
Ha poi sorriso ammiccando ai fotografi, alle telecamere e alle assistenti dell’anziano leader laburista, che ne hanno commentato il fascino con un «Eizeh Khatikh!», che fusto!
Naturalmente non ha degnato di un cenno i poveri Palestinesi che vivono nel recinto di Gaza, limitandosi a una laconica dichiarazione resa al presidente Abu Mazen, altro dubbio personaggio, che suona banalmente così: «I palestinesi hanno diritto a uno Stato in grado di vivere». Sottinteso vivere da schiavi, dal momento che il senatore dell'Illinois ha ripetutamente affermato che "Gerusalemme deve essere capitale indivisibile dello stato ebraico".
Non tutti gli Arabi gradiscono, tanto è vero che sono apparse a Ramallah, in contrapposizione alla maglietta indossata a Sderot dal neo-simpatizzante Giudeo, quella con la scritta «I love Sderot», magliette arabe mostranti il suo volto sovrapposto a quello di Bush e McCain... un pò come il nostro Veltrusconi, insomma.
Naturalmente non poteva restare fuori l'Iran e la minaccia che rappresenta per Israele e il resto del mondo, che va "sventata senza indugio e con ogni mezzo".
Bene, sia come sia, se sarà eletto, il primo presidente negro americano, finito che avrà di strusciarsi con Zion e l'apparato industrial-militare che evidentemente gli ha dato luce verde, dovrà fare i conti con una spaventosa recessione che giorno dopo giorno diventa sempre più mortale, unita alla sconfitta che verrà, indipendentemente dal suo sciocco ottimismo, dai campi di battaglia che vedono impegnato il suo Paese che sognava ma ora delira nell'incubo sanguignolento irakeno, afghano e prossimamente iraniano, svegliato di tanto in tanto dai rumori di incendi e tempeste che come anticipo di punizione divina martoriano quello stanco paese che ancora crede di essere il centro del mondo.
Obama, se eletto Presidente, si rivelerà se possibile ancora peggiore di W. George Bush, consolidando la tradizione che vuole i presidenti democratici ancora più guerrafondai dei repubblicani.
Proprio, in piccolo, come avviene da noi con il famigerato Veltrusconi, che gli ha copiato il motto e che per questo è stato citato per plagio dallo staff del senatore nero ma quasi bianco.
Dio o chi per Lui abbia pietà dell'America.
Claudio Negrioli
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